L’omicidio di Marta Russo

25 anni fa la studentessa della Sapienza di Roma fu colpita da un proiettile, apparentemente senza motivo: una storia ancora piena di dubbi irrisolti

 Il presidente della prima Corte d'Assise Francesco Amato (a destra) si sporge per osservare dall'aula sei dell'università, da cui si ipotizza sia stato sparato il colpo che uccise Marta Russo, durante il sopralluogo compiuto nell'ateneo romano dai giudici del processo per l'omicidio della studentessa. (A.Bianchi /ANSA)
Il presidente della prima Corte d'Assise Francesco Amato (a destra) si sporge per osservare dall'aula sei dell'università, da cui si ipotizza sia stato sparato il colpo che uccise Marta Russo, durante il sopralluogo compiuto nell'ateneo romano dai giudici del processo per l'omicidio della studentessa. (A.Bianchi /ANSA)
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Alle 11.42 di venerdì 9 maggio 1997, venticinque anni fa, la studentessa di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma Marta Russo fu colpita alla testa da un proiettile mentre camminava lungo un vialetto della Città universitaria, tra le facoltà di Giurisprudenza, Scienze Politiche e Scienze Statistiche. Il proiettile penetrò sotto l’orecchio sinistro della ragazza perforando l’encefalo. Chi era nelle vicinanze sentì un colpo attutito. Marta Russo venne trasportata al vicino Policlinico Umberto I. Morì dopo cinque giorni di coma, il 14 maggio. Aveva 22 anni.

Il delitto apparve senza movente, senza spiegazione, insensato. Marta Russo era una tra le migliaia di studenti della Sapienza. Non c’era nessun collegamento con gruppi terroristici o criminali. Le indagini furono complesse, la vicenda giudiziaria lunga, dibattuta e attraversata da polemiche. Ancora oggi quello che viene ricordato come il delitto della Sapienza presenta numerosi punti mai chiariti e dubbi non risolti.

Inizialmente venne presa in considerazione la pista del terrorismo: il 9 maggio è l’anniversario dell’omicidio di Aldo Moro. Alcuni giornali ipotizzarono un ritorno degli anni di piombo e della strategia della tensione. Ma non c’era nessun collegamento con Marta Russo, nessuna ragione per cui la ragazza potesse essere considerata un obiettivo. Si parlò di uno scambio di persona. Si ipotizzò anche che il bersaglio fossero alcuni studenti iraniani presenti poco lontano, sullo stesso vialetto. Vennero interrogati amici ed ex fidanzati.

Le indagini stabilirono, come è stato poi scritto in un’ultima sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, che il proiettile era arrivato «da sinistra dall’alto, leggermente da dietro».

Marta Russo (ANSA / ALESSANDRO BIANCHI)

Dodici giorni dopo il delitto i tecnici della polizia scientifica concentrarono l’attenzione sull’aula numero 6 della sala assistenti dell’Istituto di Filosofia del Diritto. Questo «in seguito», come venne scritto anni dopo dai giudici della Corte di Cassazione, «al rinvenimento sulla finestra destra n.4 di quell’aula di una particella composta da bario e antimonio, indicativa dello sparo». Il proiettile, secondo la perizia, era stato sparato da quella finestra. Un’altra perizia, due anni più tardi, smentì quel primo esame ma intanto le indagini si erano concentrate su quella pista. La pistola non venne mai ritrovata.

Vennero indagate molte persone. All’inizio i sospetti caddero su un bibliotecario di Lettere, Rino Zingale, che venne poi scagionato. Fu sentita come testimone la dottoranda Maria Chiara Lipari. Quest’ultima cambiò varie versioni, definì i suoi ricordi «subliminali», ma disse che nell’aula 6 c’era una strana atmosfera. Parlò della presenza del professore Bruno Romano, direttore dell’Istituto di Filosofia, che venne messo agli arresti domiciliari, della dipendente dell’Istituto Gabriella Alletto e dell’usciere Francesco Liparota. Alletto fece i nomi di due giovani assistenti, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Disse di aver sentito un «tonfo» e di aver visto «un bagliore», aggiungendo: «Ho visto Scattone ritirarsi dalla finestra. Aveva qualcosa in mano che brillava (…). Ho visto qualcosa che brillava nelle mani di Scattone».

La testimonianza della donna venne però poi molto contestata: fu interrogata 13 volte in pochi giorni, e l’ultimo interrogatorio durò 12 ore. I metodi utilizzati dagli investigatori furono definiti estremamente aggressivi, e si sospettò avessero portato Alletto a contraddirsi: all’inizio per esempio aveva detto di non essere stata presente in quell’aula.

Salvatore Ferraro aveva 30 anni, un dottorato in Giurisprudenza ed era assistente del professor Gaetano Carcaterra; Giovanni Scattone, 29 anni, era un dottorando che lavorava col professor Bruno Romano. Entrambi tenevano alcuni corsi di Filosofia del diritto. Vennero arrestati e si dichiararono innocenti, come continuarono a fare per tutto l’iter giudiziario.

I giornali riportarono la notizia secondo cui alcuni studenti avevano detto di aver sentito i due assistenti discutere tra loro di “delitto perfetto”. In realtà non ci fu nessun testimone che confermò la circostanza e questa tesi venne poi abbandonata durante il processo di primo grado. La tesi degli inquirenti fu che Scattone e Ferraro inscenarono per gioco un delitto senza movente e che la situazione fosse poi degenerata. Nell’ordinanza di custodia cautelare venne infatti scritto che l’arresto era motivato da «delitto continuato di illegale detenzione e porto in luogo aperto al pubblico di arma da fuoco, aggravato dalla connessione teleologica con il delitto di omicidio volontario in danno di Russo Marta». La tesi insomma era che Scattone avesse sparato per sbaglio.

Sia Scattone sia Ferraro dissero di avere degli alibi per la mattina del 9 maggio. In realtà quegli alibi non furono pienamente confermati e mostrarono, durante il dibattimento, parecchi punti deboli. Il processo di primo grado si tenne nel 1999. L’accusa nell’arringa iniziale disse che il «movente è l’assenza di movente». Attorno a questa affermazione ci furono molte contestazioni, così come ci furono per la testimonianza di Alletto. Radio Radicale mise poi online sul proprio sito la registrazione dell’interrogatorio in cui Alletto giurava sulla testa dei suoi figli di non essere mai stata nell’aula 6, mentre i due pubblici ministeri Carlo La Speranza e Italo Ormanni minacciavano di incriminarla per omicidio: «Lei va in carcere e non esce più».

L’accusa chiese la condanna di Scattone e Ferraro a 18 anni di carcere per concorso in omicidio volontario con dolo eventuale e la concessione di attenuanti generiche e per detenzione di arma da fuoco. Il 1° giugno 1999 la giuria, in cui c’era tra gli altri il magistrato e attuale scrittore Giancarlo De Cataldo, condannò Scattone a sette anni di reclusione per omicidio colposo con l’aggravante della colpa cosciente e per possesso illegale di arma da fuoco, e Ferraro a quattro anni per favoreggiamento personale. Gli altri imputati, tra cui Alletto, furono assolti.

La Corte d’Assise d’appello nel 2001 confermò le condanne e aumentò la pena a otto anni per Scattone e a sei per Ferraro perché venne riconosciuto colpevole anche di detenzione illegale di arma da fuoco. Fu condannato anche l’usciere Liparota a quattro anni per favoreggiamento.

Intanto era nato un comitato per sostenere i due imputati. Ne facevano parte esponenti politici di vari schieramenti, giornalisti e docenti universitari. Il comitato, che si rivolse al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sosteneva che i due assistenti universitari fossero stati condannati senza prove. Sosteneva anche che non ci fosse nemmeno la convinzione che lo sparo fosse partito da quell’aula, che mancassero in definitiva sia il movente sia l’arma e che gli alibi dei due uomini non fossero stati debitamente presi in considerazione.

La Corte di Cassazione annullò le condanne, ma il nuovo processo che ne seguì emise nuovamente sentenze di condanna: sei anni per Scattone, quattro per Ferraro, due per Liparota. Il 15 dicembre 2003 la Corte di Cassazione condannò in via definitiva Giovanni Scattone a cinque anni e quattro mesi e Salvatore Ferraro a quattro anni e due mesi. L’usciere Francesco Liparota fu definitivamente assolto.

Scrisse Giovanni Scattone ai giudici della Corte di Cassazione:

«Una volta avviato il meccanismo perverso che mi ha portato in carcere, una volta convocata, la mattina dopo gli arresti, la conferenza stampa in cui il Procuratore aggiunto e il Questore di Roma dichiaravano che “il caso è chiuso”, è diventato a quanto pare impossibile per gli accusatori tornare indietro e per le Corti giudicanti assolvermi. Non mi resta che chiedere a voi, quali membri del Supremo Tribunale dello Stato italiano, di fermare questo meccanismo perverso, di restituirmi la dignità dell’innocenza e di far sì che si renda giustizia alla vittima, identificando con ulteriori indagini il vero autore dell’omicidio».

Nel 2012 Scattone, scontata interamente la pena, ottenne una supplenza di Storia e Filosofia nel liceo scientifico Cavour di Roma, dove peraltro era stata alunna Marta Russo. Ci furono molte polemiche e proteste tra i genitori degli alunni. Scattone rinunciò poi all’incarico. Nel 2020 il podcast Polvere di Cecilia Sala e Chiara Lalli approfondì il caso di Marta Russo, aggiungendo nuovi dettagli e dubbi sulle indagini e il processo che ne seguì.