L’emblematico “caso Catalent”

La multinazionale farmaceutica aveva promesso un investimento da 100 milioni di dollari in provincia di Frosinone, ma l'ha ritirato a causa delle lungaggini burocratiche

Lo stabilimento Catalent di Anagni (ANSA/FABIO FRUSTACI)
Lo stabilimento Catalent di Anagni (ANSA/FABIO FRUSTACI)
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Nelle ultime settimane la decisione della multinazionale farmaceutica americana Catalent di ritirare un investimento promesso di cento milioni di dollari nel suo stabilimento produttivo di Anagni, in provincia di Frosinone, è diventata oggetto di grosse polemiche politiche: la somma era già stata stanziata ma è stata poi ritirata per i ritardi nell’ottenimento di autorizzazioni ambientali. L’episodio è stato indicato da commentatori, imprenditori, esponenti del governo e dei partiti come un caso emblematico dei problemi della burocrazia italiana, e della scarsa capacità dell’Italia di attrarre investimenti esteri.

Nel luglio del 2021 Catalent aveva dato il via libera ufficiale all’investimento per aggiungere all’interno della propria sede di Anagni una nuova struttura, che avrebbe comportato anche la creazione di un centinaio di posti di lavoro: quasi un anno dopo, ma oltre due dall’inizio delle procedure burocratiche, non ha però ancora ottenuto le necessarie autorizzazioni ambientali. Ha così deciso di spostare i fondi e quella parte di produzione in una struttura nei pressi di Oxford, in Inghilterra.

La vicenda di Catalent non è la prima nella provincia di Frosinone, ma è la più importante per dimensioni economiche, e ha riportato l’attenzione politica sulla necessità di semplificare almeno in parte le procedure burocratiche per gli investimenti, coinvolgendo anche il governo Draghi. È presto però per capire se a polemiche e dichiarazioni d’intenti seguiranno decisioni sostanziali: anche la sola ricostruzione di cosa non abbia funzionato è per ora piuttosto incerta.

Catalent è una multinazionale farmaceutica con sede centrale a Somerset, nel New Jersey, e stabilimenti in Nord e Sud America, Asia ed Europa. Nel 2021 ha registrato un fatturato vicino ai 4 miliardi di dollari, conta 14 mila dipendenti nel mondo e sta vivendo una fase di grossa espansione, con investimenti da 4 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni per l’acquisizione di nuovi siti produttivi. Il sito produttivo di Anagni è stato acquistato nel 2020 da Bristol Myers Squibb.

Gli impianti sono stati destinati all’infialamento (cioè il riempimento asettico dei flaconi) di vari vaccini, soprattutto contro il coronavirus (AstraZeneca, Johnson & Johnson, Pfizer-BioNTech): nel momento di massima richiesta il numero di dosi preparate ogni giorno raggiungeva il milione e mezzo e sul posto erano impiegati 800 dipendenti (fra contratti a tempo indeterminato e assunzioni a termine).

Nel corso della pandemia, il sito di Anagni è diventato un hub europeo della produzione dei vaccini e Catalent il principale soggetto del polo farmaceutico laziale che, concentrato fra le province di Latina, Frosinone e Roma, è a sua volta il più importante d’Italia per livello di esportazioni.

Il progetto di espansione del sito produttivo, con un investimento da 100 milioni di dollari, era stato avanzato nell’autunno del 2020 e definitivamente autorizzato dal consiglio d’amministrazione dell’azienda nel luglio 2021: avrebbe dovuto consentire allo stabilimento, che attualmente si occupa della fase di ripartizione dei vaccini nelle fiale, di fare un salto di qualità e di avviare anche un’altra fase della produzione, quella della produzione dei princìpi attivi, diventando il centro più grande in Italia in questo campo.

Entro l’aprile 2023, ha raccontato il sito Aboutpharma, sarebbero stati installati i primi due bioreattori: si tratta di grandi contenitori sterili e monitorati, nel caso specifico della capacità di duemila litri, in cui avviene la coltivazione delle cellule; queste vengono poi infettate dal vettore virale usato dai vaccini permettendone la riproduzione su ampia scala. A questi primi due bioreattori se ne sarebbero aggiunti altri sei, con la creazione all’interno dell’azienda di un’area di Ricerca e Sviluppo destinata a creare 100 posti di lavoro di livello medio-alto.

Il sito di Anagni sorge nella Valle del Sacco, zona considerata tra le più inquinate d’Italia a causa di una forte presenza industriale risalente agli anni Sessanta. Nino Polito, presidente della Federlazio Frosinone, associazione delle piccole e medie imprese, ripercorre la storia: «In quegli anni la sensibilità ambientale era a dir poco minore, la valle del Sacco ospitava discariche a cielo aperto, nel fiume venivano immessi arsenico, piombo, rame, oltre ai pesticidi. Con le piogge e le esondazioni le dimensioni delle contaminazioni si allargavano. Nel 2005 il caso esplose con il ritrovamento di 25 mucche morte, avvelenate dall’arsenico».

Dal 2016 è stato istituito il Sito di Interesse Nazionale (SIN) “Bacino del Fiume Sacco”, che comprende 19 comuni e copre 7.200 ettari. I SIN sono aree contaminate, la cui bonifica è di competenza del ministero della Transizione ecologica (in passato ministero dell’Ambiente) in collaborazione con le Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente.

All’interno del “Bacino del Fiume Sacco” le procedure di autorizzazione ambientale sono particolari, come spiega Miriam Diurni, presidente di Unindustria Frosinone: «Qualsiasi intervento, anche banale – come aggiungere una pensilina a un parcheggio, è subordinata alla “caratterizzazione”, un’indagine preliminare con carotaggi del terreno, che deve determinare se il suolo e la falda acquifera sottostante siano inquinati. L’azienda ne fa una, l’ARPA (Agenzia regionale per la protezione ambientale) un’altra».

Se la caratterizzazione non rileva contaminazioni, si può procedere con l’iter classico di autorizzazioni ambientali, altrimenti si deve passare all’“analisi del rischio sanitario-ambientale”: l’azienda deve dimostrare che non esiste pericolo né durante la fase di costruzione né in fase di utilizzo dell’opera. Per farlo si procede attraverso una “Conferenza dei servizi”, istituto nato per semplificare le procedure della Pubblica amministrazione e che prevede un unico tavolo (convocato in questo caso dal ministero della Transizione ecologica) a cui partecipano Comune, Provincia, Regione, ARPA ed eventuali altri enti pubblici o associazioni coinvolte.

La Conferenza dei servizi, con la contemporaneità di analisi e autorizzazioni da parte di tutti gli enti coinvolti, avrebbe dovuto scongiurare il rischio di blocco dei progetti di sviluppo: durante la riunione può approvare l’opera o richiedere ulteriori documenti e indagini. «Nel caso della Catalent – prosegue Diurni – ne sono state convocate diverse, ma tra l’una e l’altra inevitabilmente passavano mesi, senza che ci fossero certezze sul fatto che la successiva sarebbe stata quella conclusiva. La casa madre di Catalent, che ha sede in America, aveva chiesto una data certa per la decisione finale, ma né gli ingegneri né i dirigenti dello stabilimento di Anagni erano in grado di assicurarla».

Nel caso di Catalent i terreni sarebbero poi risultati non inquinati, mentre contaminazioni sarebbero presenti nella falda acquifera, a profondità che però, secondo il progetto dell’azienda, non sarebbero state toccate dal piano dell’opera.

Questi responsi sono molto frequenti nell’area, e comuni anche ad altre zone industriali considerate meno a rischio. Il fatto è che il perimetro del SIN “Bacino del Fiume Sacco” è considerato da diversi esperti molto ampio e prudenziale: l’ampia delimitazione sarebbe stata decisa nella speranza di ottenere finanziamenti per la bonifica, che tuttavia non sono mai stati stanziati. Aree anche lontane da quelle più inquinate, insomma, sarebbero state inserite con l’idea che così facendo in futuro avrebbero potuto accedere a fondi pubblici: ma a oggi la bonifica non è stata realizzata e far parte del SIN comporta iter burocratici molto più lunghi del normale per qualsiasi intervento sul territorio.

Anche a seguito del caso Catalent, giovedì il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha «chiesto al governo di revocare il SIN della valle del Sacco, un decreto figlio di errori e illusioni che hanno finito nel tempo per bloccare tutto». Alla revoca dovrebbe seguire una nuova perimetrazione, più limitata.

La decisione comunque non avrà ripercussioni sul caso Catalent, perché a inizio aprile il consiglio dell’azienda ha deciso di non procedere con il progetto (pur mantenendo gli attuali stabilimenti e riservandosi di ampliarli in altro modo in futuro), e di trasferire l’installazione dei bioreattori vicino a Oxford, nel centro di Harwell, in via di costruzione e acquisito un paio di settimane prima. L’investimento previsto nel Regno Unito ammonta a 160 milioni di dollari, una cifra superiore a quella stabilita per Anagni; Harwell – fa sapere l’azienda – era al centro di un progetto diverso, a cui è stata in secondo momento aggiunta la sezione originariamente prevista per lo stabilimento laziale.

L’area di Ricerca e Sviluppo dovrebbe nascere in collaborazione con l’università di Oxford. Diurni ha detto: “Sicuramente il fatto che Catalent avesse un’opportunità, una soluzione alternativa ha contribuito alla decisione di rinunciare al piano su Anagni, così come è stata decisiva l’attuale situazione internazionale. In altre circostanze avrebbero forse aspettato sei mesi in più, ma la congiuntura li ha spinti a investire e diversificare in tempi stretti”.

Il blocco e poi la rinuncia di investimenti internazionali a causa della burocrazia pubblica è diventato un caso nazionale. Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha affidato al suo sottosegretario Vannia Gava un’indagine volta ad accertare eventuali responsabilità.

Alla ben nota lentezza della macchina burocratica, si aggiunge poi l’incertezza delle norme, che spesso diventa un ulteriore elemento di paralisi, come spiega Nino Polito: «L’altro grosso problema è l’assenza di una definizione di un parametro di fondo e di un range sicuro, basato su ricerche scientifiche, che definiscano dove è possibile costruire o operare e dove no. Oggi questi valori sono discrezionali, non c’è un limite di rischio definito in modo univoco e questo fa sì che i vari enti non vogliano, anche comprensibilmente, prendersi la responsabilità di fornire un’autorizzazione. Non siamo a caccia di colpevoli per il caso Catalent, ma non ne vogliamo altri».