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  • Lunedì 21 marzo 2022

«Era il 15 marzo. Non sapevamo se ne saremmo usciti vivi»

Lo ha detto Mstyslav Chernov, il giornalista ucraino di Associated Press che è stato per 20 giorni a Mariupol

(AP Photo/Mstyslav Chernov)
(AP Photo/Mstyslav Chernov)

Mstyslav Chernov – uno dei due giornalisti ucraini che nelle ultime settimane ha documentato la guerra a Mariupol, la città più martoriata dai bombardamenti in Ucraina – ha raccontato su Associated Press, l’agenzia di stampa per cui lavora, come sono stati i suoi venti giorni in città. Chernov, che ora ha lasciato Mariupol insieme con il collega Evgeniy Maloletka, ha raccontato (parlando con Lori Hinnant, che lavora per Associated Press da Parigi) la sua esperienza dall’inizio, con molti dettagli sulle grandi difficoltà e gli enormi rischi che ha incontrato. Di quanto successo nelle ultime fasi della sua esperienza, ha detto:

«Era il 15 marzo. Non sapevamo se ne saremmo usciti vivi».

Il resoconto di Chernov inizia con la decisione, quando molti paesi stranieri stavano evacuando le loro ambasciate a Kiev e la Russia stava ammassando truppe al confine con l’Ucraina, di andare a Mariupol: «sapevo che, vista la sua posizione sul mar d’Azov, l’esercito russo avrebbe visto la città portuale nell’est del paese come un obiettivo strategico». Chernov e Maloletka andarono a Mariupol la sera del 23 febbraio, a bordo di un van Volkswagen, e arrivarono un’ora prima che iniziasse la guerra.

Dei primi giorni di guerra visti da Mariupol, Chernov ha detto che nonostante un quarto circa dei suoi 430mila abitanti avesse lasciato la città «quando ancora si poteva», la sua sensazione fu che pochi credessero che la guerra sarebbe davvero arrivata lì. Invece fu così: «una bomba dopo l’altra, i russi tagliarono l’elettricità, l’acqua, le scorte di cibo e, infine, le radio, le trasmissioni televisive e la copertura dei telefoni cellulari».

Altri giornalisti lasciarono la città e Chernov e Maloletka diventarono quindi gli unici giornalisti a Mariupol che lavoravano per una testata occidentale. Secondo lui, l’assenza di informazioni e comunicazioni ebbe due principali conseguenze: il caos e l’impunità. «Non ho mai pensato» ha detto «che rompere il silenzio fosse tanto importante come in quei giorni». Chernov ha aggiunto che, sapendo di loro e di quel che stavano facendo, lui e Maloletka divennero un obiettivo dei russi, che non volevano mostrassero quel che succedeva.

– Leggi anche: I due giornalisti di Associated Press che hanno raccontato la guerra a Mariupol

Nell’articolo di Associated Press Chernov racconta che già il 27 febbraio vide un dottore cercare invano di salvare una bambina colpita dalle schegge di una bomba, e che poi videro morire molti altri bambini e adulti. «Le ambulanze smisero di prendere i feriti perché senza segnale non le si poteva chiamare, e perché non potevano muoversi tra le strade colpite dalle bombe». Chernov ha scritto che i dottori chiesero a lui e al collega di riprendere e fotografare quanto stava succedendo, lasciando loro usare i generatori per caricare le attrezzature.

L’unico posto da cui, nei primi giorni, i due giornalisti potevano collegarsi con una certa stabilità a internet – e di conseguenza inviare articoli e immagini – era «fuori da un negozio di alimentari che era stato saccheggiato». Lui e Maloletka ci andavano una volta al giorno con il van, provando a ripararsi per quanto possibile in un sottoscala. Quella connessione, però, smise di funzionare il 3 marzo. I due provarono quindi a mandare quanto filmato e fotografato dal settimo piano dell’ospedale. Ha poi aggiunto: «per molti giorni, l’unico collegamento che avevamo con il mondo esterno era attraverso un telefono satellitare, e l’unico punto da cui prendeva era all’aperto, accanto al cratere generato da una bomba». Più avanti, grazie all’aiuto di un poliziotto trovarono poi una fonte di corrente e una nuova connessione a internet: mandare i video richiedeva però diversi accorgimenti e alcune ore di attesa, anche andando oltre il coprifuoco.

Intanto, senza che Chernov e Maloletka ne sapessero qualcosa, il loro lavoro si faceva notare nel resto del mondo e, di conseguenza, il governo russo tentava in tutti i modi di screditare il loro operato: tra le altre cose sostenendo (falsamente) che alcune loro foto avessero come protagonisti attori e attrici e che documentassero attacchi mai avvenuti.

Nell’articolo, Chernov racconta come la già grave situazione peggiorò col passare del tempo e dice per esempio che a un certo punto per lui e Maloletka divenne impossibile «raggiungere il van, il cibo, l’acqua e le attrezzature», perché il percorso per arrivarci era «coperto da cecchini russi, che già avevano colpito un medico». Ha raccontato di aver visto molte esplosioni da vicino e moltissime persone morte e morenti, e che tra chi era vivo molti chiedevano di essere filmati, così che i loro familiari fuori dall’Ucraina potessero vederli. Ha anche detto che ogni giorno c’era una nuova voce – infondata –secondo cui l’esercito ucraino stava per rompere l’assedio.

Il 15 marzo Chernov e Maloletka sono stati raggiunti da alcuni soldati urlanti, che hanno detto loro – in ucraino – di essere arrivati lì per salvarli. «Non sembrava un salvataggio», ha detto Chernov, «sembrava solo che volessero spostarci da un pericolo all’altro. In quel momento, non c’era un posto sicuro a Mariupol. Potevi morire in ogni momento». Chernov ha ammesso di aver inizialmente pensato che i soldati potessero essere russi che volevano farsi credere ucraini, ma ha detto di aver poi deciso di dare loro fiducia. I soldati ucraini hanno quindi spiegato a lui e al collega che i russi li stavano cercando, perché – in breve – volevano prelevarli e costringerli a dire, mentendo, che certe loro immagini erano false: un rischio troppo grande da correre, anche a livello di comunicazione e di possibili conseguenze generali.

Nell’articolo di Associated Press Chernov ha scritto di aver lasciato Mariupol insieme a una famiglia di tre persone, su una strada su cui si era creata una coda di cinque chilometri, dopo aver attraversato 15 checkpoint russi (ha infatti lasciato la città sfruttando un pericoloso corridoio umanitario). Ha anche detto che, lasciando la città, le sue speranze che Mariupol potesse resistere svanivano sempre più. Dopo un sedicesimo checkpoint, ha sentito voci ucraine e capito di «essere fuori». Ha aggiunto: «eravamo gli ultimi giornalisti a Mariupol, ora non c’è più nessuno».