Borges come si vorrebbe che fosse

«Resta un destino curioso, quello di Borges, nato come scrittore per scrittori, coltissimo, ostico ed elitario, e finito poi sulla bocca di tutti, come i biglietti dei Baci Perugina, seppur tramite attribuzioni inventate e riletture altrui»

Jorge Luis Borges a Londra con sua madre Leonor Acevedo Suarez nel 1963 (Harry Dempster/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images)
Jorge Luis Borges a Londra con sua madre Leonor Acevedo Suarez nel 1963 (Harry Dempster/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images)

Alcune delle poesie più famose dello scrittore argentino Jorge Luis Borges che si possono leggere in rete non sono dello scrittore argentino Jorge Luis Borges. Il fenomeno è talmente diffuso che la scoperta e la denuncia dei falsi ormai sta diventando un genere letterario a sé, una specie di spin-off della sua opera, che infatti abbonda di apocrifi e pseudonimi: tanto da sostenere in più occasioni che la valutazione di un testo è sempre condizionata da fattori esterni, non ultimo dall’autore cui lo si attribuisce. Ma mentre una volta l’incappare ingenuamente in questi falsi era appannaggio esclusivo dei blog coi fiorellini e funzionale a quelle tisanerie, ora gli inciampi si son fatti più imbarazzanti. Domenica scorsa, per esempio, è toccato alla Lettura, il supplemento culturale del Corriere della Sera, reo di aver ospitato in copertina un’opera dello scultore armeno Mikayel Ohanjanyan illustrata dalla falsa poesia di Borges “Contano i legami”.

Qualche anno fa una gaffe simile era capitata al premier Matteo Renzi, seppur con un’altra falsa poesia intitolata A la amistad, recitata nientemeno che all’Università di Buenos Aires durante una visita di Stato per suggellare il sentimento fraterno che unisce il popolo italiano a quello argentino. E più o meno nello stesso periodo era inciampato pure Fabio Volo, che nel suo programma mattutino di Radio Deejay aveva declamato con trasporto, enfasi e musica suggestiva di sottofondo “Istanti”, forse il più frequente dei falsi borgesiani nel web, una lunga anafora testamentaria sul modello di If di Kipling.

Il successo e la proliferazione inarrestabile di questi falsi, che si dimostrano impermeabili a qualsiasi confutazione e che seducono ugualmente il colto e l’inclita, non sono casuali, nel senso che non dipendono da una pesca a strascico nella rete, di quelle indiscriminate, come non è un caso il fatto che si somiglino tutti, nel loro piatto didascalismo e nella loro sentenziosità alla Paulo Coelho.

Sono, in sintesi, Borges come si vorrebbe che fosse: un poeta disinnescato, sapienziale, immediatamente “spendibile”, quindi privo di spigoli come il suo insistito pedantismo, ma soprattutto banalizzato in formule facilmente digeribili.
Le sue poesie autentiche non potrebbero in alcun modo riscuotere lo stesso successo, diventare meme virali, perché il loro valore aggiunto letterario è irriducibile al consumo, anche quando viene apparentemente consumato. Poi, certo, in tutto questo c’entra anche il sapere fai-da-te costruito sui motori di ricerca, che ti offrono la biblioteca universale a portata di clic e senza intermediazioni; e si sa, quando c’è un’alluvione, la prima cosa che sparisce è l’acqua potabile.
Resta comunque un destino curioso, quello di Borges, nato come scrittore per scrittori, coltissimo, ostico ed elitario, e finito poi sulla bocca di tutti, come i biglietti dei Baci Perugina, seppur tramite attribuzioni inventate e riletture altrui.

Ma il successo oggi si misura anche così, come per la Settimana Enigmistica, che vanta infiniti tentativi di imitazione. Uno di questi, per niente fallimentare, è la poesia “Bello mondo” di Mariangela Gualtieri, una rivisitazione dichiarata della “Poesia dei doni” di Borges, che Lorenzo Jovanotti ha scelto di leggere a Sanremo con perfetto tempismo la sera delle cover musicali, e che è balzata in testa alle classifiche grazie al suo testimonial d’eccezione ma anche alla chiara risonanza dei versi dell’argentino.

Forse il castigo della consacrazione per Borges era inevitabile, come se tutto avesse cospirato alla costruzione del mito dell’Omero del XX secolo fin dall’inizio: l’evocativo physique du rôle del vecchio poeta cieco, e la sua opera, talmente “armoniosa da apparire inevitabile e perfino ovvia”, com’ebbe a dire lui stesso di Oscar Wilde.

Parlare di Borges oggi è come parlare della Gioconda, diceva Giuseppe Pontiggia. L’assimilazione lo ha reso rassicurante, familiare, innocuo. È il destino di tutti i grandi, quelli che si neutralizzano trasformandoli in un aggettivo, o in un poster. A quel punto, come nel caso della Gioconda, si crede di conoscerli anche senza averli mai visti, e ci si sente esentati dal farne esperienza diretta. Si può perfino reinventarseli a proprio piacimento, magari disegnandogli sopra i baffi a mo’ di sberleffo. D’altronde, il vero eroe dell’opera di Borges è il lettore, e a lui è permesso tutto, perfino gli omaggi irriverenti che somigliano a delle liquidazioni.
Se è vero che “l’umanità si difende dal genio negandolo e se ne sbarazza riconoscendolo”, come ha detto qualcuno che se ne intendeva, oggi il riconoscimento, prima ancora che dal premio Nobel della letteratura, passa dai social e da queste patetiche e irresistibili imitazioni.

Sergio Garufi
Sergio Garufi

Sergio Garufi è l’autore di due romanzi e di un saggio sui ringraziamenti letterari con la prefazione di Umberto Eco. Ha scritto per i quotidiani La Sicilia, Liberazione, l’Unità, il Foglio, per il settimanale Esquire e il mensile Diario.

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