E vabbè

«La prima apparizione sulla "Stampa” giunge a noi in prima pagina il 30 aprile 1955, il giorno dopo l’elezione di Giovanni Gronchi a presidente della Repubblica. Fino agli anni Ottanta l’uso resta sporadico, poi, magicamente, con la seconda Repubblica, si apre una breccia e il “vabbè” esonda senza più freni. Stefano Bartezzaghi ci vede un segno dello strapotere del romanesco. Michele Masneri pure. E vabbè»

Il pugile inglese Richard Dunn, campione britannico, europeo e del Commonwealth negli anni Settanta. (Evening Standard/Getty Images)
Il pugile inglese Richard Dunn, campione britannico, europeo e del Commonwealth negli anni Settanta. (Evening Standard/Getty Images)

Era una bella sera di maggio e in compagnia di Lorenzo e Beatrice mi ero perso in una deliziosa chiacchierata sul nulla, mentre bevevamo birra da un bicchiere di plastica, all’aperto, in via Tadino a Milano. Di colpo Lorenzo e Beatrice hanno pescato dal cilindro un nuovo argomento. Probabilmente ne avevano già parlato e riparlato tra loro, ma senza arrivare a una conclusione. La discussione riguardava una parola, una specie di pianta infestante della lingua italiana, abituata a spuntare qua e là nel discorso scritto e parlato: l’esclamazione “vabbè”.

«Hai fatto caso a quanto lo usano tutti? E soprattutto sui giornali. Secondo te, perché?», chiedeva Lorenzo. Insomma, che cos’è questa epidemia di “vabbè”, questi “vabbè, vabbè” e “no, vabbè” e “seh, vabbè”, che s’insinuano dappertutto e di cui abbiamo cominciato a servirci sempre più spesso? In quale cavità dell’anima germoglia questo “vabbè”, che spesso chiude il discorso, come un tappo riavvitato senza convinzione, quasi controvoglia, dopo che un pezzo di conversazione si è esaurito? Che cosa dice di noi? Eravamo tutti e tre d’accordo su un fatto: il breve e fuggevole “vabbè”, oltre a essere da tempo dilagante nelle conversazioni, oltre a essere usato con una sorta di maligna goduria su internet, oltre ad avere un suo simbolo emoji (un omino\donnina che alzano le braccia, come per dire: «non posso farci niente»), aveva sfondato sulla carta stampata, dove il lessico si suppone, in teoria, meno disinvolto e un po’ più sorvegliato.

«Esempi?», ci siamo chiesti io, Lorenzo e Beatrice. Beh, di sicuro il “vabbè” è molto in auge tra gli editorialisti. Ci sarebbe il caso della scrittrice e giornalista Guia Soncini, polemista su Linkiesta, che al “vabbè” fa ricorso volentieri. Il “vabbè” è poi molto frequente sulle pagine del Foglio e negli articoli di Michele Masneri in particolare. Fatto sta che l’effimero dibattito sul “vabbè” tra il sottoscritto, Lorenzo e Beatrice, si teneva al crepuscolo del 29 maggio e il mattino del giorno dopo, giovedì 30 maggio, vedevo in prima pagina sul Foglio un articolo di Masneri, molto letto e condiviso sui social.

Il pezzo, in effetti, non solo era bello, ma trattava di un fatto molto cruento e lontano nel tempo, la strage di Brescia del 1974, un soggetto che non mi sarei aspettato da Masneri. In quanto bresciano, nato e cresciuto a poche centinaia di metri da piazza della Loggia, il luogo in cui era esplosa la bomba neofascista, Masneri aveva una serie di considerazioni da fare e di memorie da condividere. Avevo letto l’articolo con interesse, fino a scoprire, nell’ultima riga, che si chiudeva così: «[…] vabbè». Eccolo di nuovo, era lui, il parassita “vabbè” di cui avevamo dibattuto a lungo giusto la sera prima. Quando l’ho visto nero su bianco, per giunta in quella posizione, a chiudere l’articolo, mi è sembrato un segno. Ok, dovevo capire, approfondire, sviscerare.

Mi sono preso la briga di fare una ricerca storica sul “vabbè”, utilizzando l’archivio on line del quotidiano La Stampa, un archivio davvero vertiginoso, dal momento che permette di risalire alla fondazione del giornale, quindi al remoto 1861, l’anno in cui morì un grande personaggio del Risorgimento come il conte di Cavour e videro la luce sia il regno d’Italia che Italo Svevo. Una macchina del tempo. Conclusione: per trovare una prima occorrenza di “vabbè” bisogna pazientare per quasi cento anni, passando per due guerre mondiali e il fascismo.

– Leggi anche: Il dialetto padrone del mondo

La prima apparizione di un “vabbè” sulla Stampa giunge a noi in prima pagina il 30 aprile 1955, all’interno di una cronaca parlamentare. Tra i protagonisti compaiono Pietro Nenni e Palmiro Togliatti. È il giorno successivo all’elezione a presidente della Repubblica del democristiano Giovanni Gronchi (come noto, passerà alla storia soprattutto grazie a un francobollo, il Gronchi Rosa, meno raro di quanto si creda). Con tono divertito il cronista seguiva l’ingresso in aula di un vecchio senatore a vita, don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito Popolare, che all’epoca aveva 84 anni. Era nato nel 1871. Vista l’età, gli veniva concesso di votare saltando il turno. «Vabbè, vabbè», commentava un pezzo grosso seduto al banco della presidenza. Ecco il passaggio della cronaca: «[…] si fa avanti fragile, curvo, lento, don Sturzo. I senatori sono già stati tutti chiamati, il venerando vecchio dovrebbe aspettare di votare con i ritardatari, ma dal banco della presidenza qualcuno dice che va bene, che voti pur subito, “vabbè, vabbè”». Sembra di avvertire un’illuminazione, uno scatto di reni nel cronista che decide d’incollare sulla pagina un frammento di parlato, quel «vabbè, vabbè» che di colpo rende meno severa e più umana la veduta dell’emiciclo parlamentare.

Tra il 1861 e il 1955 ci sarebbe un altro paio di risultati in archivio, ma non sono dei veri e propri “vabbè”, bensì degli “abbè”, termine francese (significa “abate”) che il software, erroneamente, segnala come “vabbè”.

Stando all’archivio, fino alla fine degli anni Ottanta l’uso del “vabbè” resta alquanto raro, limitato, sporadico, forse perché un freno inibitore impedisce al giornalista di sbobinarlo e trascriverlo. O forse perché nel parlato era meno diffuso. Poi, magicamente, con la seconda Repubblica, chissà perché, si apre una breccia e il “vabbè” è sdoganato, esonda, senza più freni. Cronisti e notisti si sbottonano e lo riportano con una punta di compiacimento, specie nelle interviste, indifferentemente se l’intervistato sia un potente come Giulio Andreotti, un mito dello showbiz come l’algida Patty Pravo, il precursore della trash tv Gianfranco Funari o il sindaco di Chivasso. Vabbè mania. Tutti a intercalare con il “vabbè”. Filippo Ceccarelli il “vabbè” lo usa tuttora generosamente nei suoi pezzi per Repubblica, ma aveva già cominciato all’epoca in cui scriveva per La Stampa, cogliendo le potenzialità espressive e coloristiche dell’interiezione: «D’Alema qui, D’Alema lì […] E vabbè, D’Alema tutto» (La Stampa 29/10/1996).

Alla ricerca di un principio originario, di un archè del “vabbè”, ho provato a chiedere un parere a un semiologo e scrittore, Stefano Bartezzaghi. «L’uso del vabbè è legato alla resa del linguaggio orale… è un italiano parlato trascritto», mi ha riferito Bartezzaghi, «con lo scopo di restituire il parlato in un modo che non sia formale né paludato».

Bartezzaghi vede nel “vabbè” la prova di una nuova koinè costruita sullo strapotere del romanesco e grazie all’influenza di programmi tv come Propaganda Live. E aggiunge:

M’incuriosisce poi la differenza tra il vecchio “vaffa” e il “vabbè”. Il vaffa è un esortativo, invece il vabbè è un’interiezione, un concessivo con una sfumatura scettica. Il vaffa è terminativo, definitivo, chiude il discorso; il vabbè, invece, è un darsi e non darsi, è un’apertura concessa all’interlocutore, per quanto pigramente. In questa apertura concessa c’è tutta l’utilità pubblica del vabbè.

Chissà invece che ne pensa Michele Masneri, che con il suo “[…] vabbè” in chiusura del pezzo sulla strage di piazza della Loggia assurgeva, almeno nella mia immaginazione, a principe del “vabbè”. Così ho scritto a Michele per avere un parere sull’argomento e lui, anziché ridermi in faccia, mi ha risposto con grande cortesia. Proprio nei giorni in cui gli scrivevo, fra l’altro, ho saputo dell’uscita di un suo romanzo. Non s’intitola Vabbè (sarebbe stato un buon titolo? Io credo di sì, in linea con il contesto e i personaggi del libro) ma Paradiso. È la storia di un giornalista, Federico Desideri, che lavora per una testata milanese, Comic Sans, e si perde nelle appendici litoranee di una grottesca Roma aristo-freak, mentre tenta d’intervistare uno sfuggente regista premio Oscar, un certo Maresca, incontrando in realtà un tale, un vecchio ex giornalista del leggendario Mondo di Pannunzio, che gira su una vecchia Rolls-Royce, sulla quale potrebbero aver viaggiato «i famosissimi Jefferson Airplane». Oppure no, forse non c’è niente di vero. Sicuramente Paradiso illustra anche la crisi e lo stato tragicomico del giornalismo e delle sue economie. Ho chiesto a Masneri di offrirmi un’interpretazione, di guardare al “vabbè” un po’ come un orafo che osserva una pietra preziosa, sotto il cono di luce della lampada da banco, e di dirmi che cosa lui vedeva dentro o attraverso il cristallo del “vabbè”.

Ecco quanto mi ha scritto:

Il vabbè lo leggevo negli articoli di Maria Laura Rodotà, su “Panorama” o sul “Corriere”, lei lo usava soprattutto nella chiusa dei pezzi, per risolvere il finale, che è sempre un punto dolente, ma serviva anche a dare un tono ironico e d’incertezza, che mi è sempre sembrato interessante. Il vabbè veniva alla fine di una frase che contraddiceva in parte il resto dell’articolo o introduceva un elemento di anti-trombonismo, specialmente dopo frasi a effetto, per smorzarne l’effetto. Insomma, era sprezzatura. Introduceva anche un elemento di oralità, di lingua parlata, nell’articolo, di realismo, entusiasmante (parliamo di vent’anni fa, quando la lingua dei giornali era ancora alta e seriosa, si imparava a scrivere leggendoli, oggi se impari l’italiano dai giornali diventi analfabeta, vabbè). Oggi ha tutto un altro senso, mi pare che prevalga il “be’ vabbè”, che significa stupore, o “no vabbè”, nel senso di “non ci posso credere”, penso introdotto da Alfonso Signorini come tormentone, forse nei Grandi Fratelli, o prima ancora da Chiambretti. Scopro che Signorini ora ha anche una rubrica che si intitola “Beh vabbè”, scritto sbagliato, tra l’altro, ma lo sbagliano sempre tutti. Un famoso editor defunto faceva fuoco e fiamme sul “beh”, “che non è il verso della capra, ma diminutivo di bene, dunque con l’apostrofo”. Ma insomma, vabbè.

Masneri prosegue:

C’è poi il vabbè di Giorgia Meloni, usato in risposta a qualche giornalista che le chiedeva conto delle allucinanti chat del portavoce di Lollobrigida, cioè suo cognato, con esponenti della criminalità organizzata romana. È il suo modo per depotenziare le questioni, è un molto romano “seh, vabbè”. Meloni gode di quella che Walter Benjamin chiamava “l’ora della leggibilità”, è un personaggio che, fosse nata dieci anni prima o dopo, forse non avrebbe funzionato così bene.

Sulla romanità del “vabbè”, Masneri la pensa come Bartezzaghi:

Meloni arriva in un momento in cui il romanesco è una koiné accettata in tutta Italia. Genera simpatia, soprattutto al nord. Non è più solo appannaggio della commedia, di Sordi e di Verdone, il romanesco oggi è soprattutto televisivo, è la lingua compiaciuta di Zoro o di Francesca Fagnani. A Milano spopolano i ristoranti romani. Dopo la sbornia di cinesi o coreani o greci, è il nuovo etnico, anche perché ricordiamoci che dopo il covid, molti milanesi alla ricerca di un esotico a portata di mano scoprirono Roma e Napoli, come esploratori inglesi che partono per le colonie. Il romanesco a Milano è come l’italiano in America, fa simpatia.

Nella mail chiedevo a Masneri un’ultima cosa, un dato da trovare con la funzione ricerca sul PDF, ovvero di dirmi quante occorrenze di “vabbè” ci sono in Paradiso, il suo nuovo romanzo:

14, me le hai fatte contare tu, ma sono nei dialoghi, siccome ci sono molti dialoghi, si parla molto ed è romanzo di interminabili pranzi e cene e feste. E nel parlato, a Roma il vabbè si usa molto.

Torniamo a quella sera del 29 maggio in via Tadino con Lorenzo e Beatrice. Ricordo che mentre discutevamo del “vabbè”, mi feriva come uno spillo la memoria di una frase di Franz Kafka. Me la sono tenuta per me, perché non volevo guastare la serata. Era la breve riga fulminante che lasciò sul suo diario il giorno 2 agosto 1914:

La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. Nel pomeriggio lezione di nuoto.

Quel disarmante «Nel pomeriggio lezione di nuoto» era forse il modo ironico con cui Kafka registrava la propria impossibilità di agire e reagire rispetto a quanto stava per accadere in Europa. Tanto vale andare a nuotare. Allo stesso modo i nostri frequentissimi “vabbè” dicono qualcosa di noi, rivelano i contorni di un nuovo paesaggio mentale, fatalista, scettico, in cui siamo immersi fino alle ginocchia, mentre nei talk show si parla come se niente fosse di Terza guerra mondiale. O forse non è così, il “vabbè” non può essere classificato come debolezza e passività pure e semplici, ma esprime una forma d’intelligenza, di saggezza, di tolleranza, di comprensione acuta dei fatti, rispecchia un modo di vivere che ha nell’imperatore filosofo Marco Aurelio, e nel suo invito all’accettazione, un illustre precursore. Del resto, non si era detto che il vabbè viene dai romani?

– Leggi anche: Prima l’italiano

Ivan Carozzi
Ivan Carozzi

È autore dei programmi tv Le invasioni barbariche, L'assedio, Lessico amoroso e Lessico civile, Dilemmi e Inchieste da fermo. È stato caporedattore di Linus ed è autore dei libri Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016), L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019), Fine lavoro mai (Eris, 2022) e coautore con Enrico Deaglio di C'era una volta in Italia. Gli anni Sessanta (Feltrinelli, 2023). Ha scritto podcast e audiodocumentari per Radio 3 e Chora Media, tra cui Frigo!!! con Nicolò Porcelluzzi.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su