Cosa si sa sulla variante omicron

Continuano gli studi per capire se sia più o meno contagiosa e se causi forme di COVID-19 più gravi o lievi, ma ci sono ancora molti aspetti da chiarire

(Christopher Furlong/Getty Images)
(Christopher Furlong/Getty Images)

Da un paio di settimane gruppi di ricerca e istituzioni sanitarie sono al lavoro per capire se la variante omicron sia più rischiosa di altre varianti del coronavirus emerse in precedenza, e se i vaccini attualmente disponibili siano in grado di proteggere anche da questa nuova evoluzione del virus. Le analisi sono ancora in corso e negli ultimi giorni sono circolati studi preliminari, quindi ancora da verificare, alcuni rassicuranti e altri meno sulla variante e su come potrebbe condizionare l’andamento della pandemia nei prossimi mesi.

Quando e dove
Il primo caso noto di variante omicron era stato segnalato dalle autorità sanitarie del Sudafrica all’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) il 24 novembre, in seguito all’analisi delle caratteristiche genetiche (sequenziamento) di un campione prelevato da una persona che era risultata positiva al coronavirus il 9 novembre scorso.

I Paesi Bassi avevano poi segnalato di avere identificato la variante in due campioni il 19 e il 23 novembre, quindi in lieve anticipo rispetto alla segnalazione del Sudafrica. Tale circostanza indicava che omicron era probabilmente già in circolazione in Europa da qualche tempo, come era poi emerso dalle analisi svolte in diversi altri paesi su alcuni campioni prelevati e risultati positivi al coronavirus.

In due settimane i casi da variante omicron sono stati identificati in una sessantina di paesi, Italia compresa. In circa 20 di questi sono stati inoltre rilevati casi di diffusione della variante nella comunità, quindi attraverso contagi secondari. Nel Regno Unito, uno dei paesi che effettuano più sequenziamenti, sono stati identificati finora oltre 334 casi di omicron.

Mutazioni
Le preoccupazioni per la variante omicron sono legate soprattutto all’alto numero di mutazioni che contiene, rispetto ad altre varianti del coronavirus emerse finora.

I gruppi di ricerca ne hanno identificate almeno 50 degne di nota, con 30 di queste presenti sulla proteina “spike”, utilizzata dal coronavirus per eludere le difese delle cellule e iniettare al loro interno il proprio materiale genetico per produrre nuove copie. È un numero di mutazioni piuttosto alto, specialmente se confrontato con quello più contenuto della variante delta, che nel corso dell’estate è diventata dominante in buona parte del mondo.

Un alto numero di mutazioni non implica comunque che omicron sia più contagiosa o che abbia una maggiore capacità nell’eludere le difese immunitarie, comprese quelle maturate dopo la vaccinazione. Per come è fatta la variante i presupposti per una maggiore contagiosità ci sono, ma questi devono essere verificati nella pratica sia con i test di laboratorio sia tramite l’osservazione di ciò che accade nel mondo reale. Valutazioni di questo tipo richiedono tempo e lunghi periodi di osservazione: basti pensare che ancora oggi per la variante delta non c’è un completo consenso circa la sua maggiore contagiosità.

Proprio per questa incertezza e per la necessità di tenere sotto controllo gli sviluppi della situazione, l’OMS ha definito omicron come una variante che suscita preoccupazione. La definizione serve a incentivare la massima attenzione da parte delle autorità sanitarie dei vari paesi, così come quella dei gruppi di ricerca che ne possono verificare le caratteristiche.

Malattia
Così come è ancora presto per dire con certezza se la variante omicron sia più contagiosa di altre versioni del coronavirus, è troppo presto per sostenere se la variante causi forme più gravi della COVID-19.

Le informazioni provenienti dal Sudafrica, ancora lacunose e basate su pochi casi, sembrano indicare che la variante omicron porti sintomi lievi. Nelle aree di maggior contagio sono stati però coinvolti soprattutto individui giovani, che come si è osservato in quasi due anni di pandemia tendono a sviluppare sintomi più lievi e a essere meno a rischio.

Molti dei casi da omicron sono stati inoltre rilevati in individui che avevano già subìto un’infezione da coronavirus, e che quindi avevano già sviluppato una risposta immunitaria al virus. Così come avviene con il vaccino, in queste circostanze nel caso di una nuova infezione i sintomi sono solitamente più lievi. In Sudafrica il tasso di nuovi contagi tra chi aveva già contratto il coronavirus era rimasto finora basso, ma è più che raddoppiato da quando è entrata in circolazione la variante omicron.

Vaccini
L’aumento di reinfezioni è considerato un importante indicatore circa la capacità di omicron di sfuggire alle difese che il sistema immunitario matura, sia nel caso di un’infezione da coronavirus (con tutti i rischi che ne conseguono) sia dopo il completamento del ciclo vaccinale.

Alcuni studi preliminari, in attesa di verifica e condotti su un numero molto limitato di individui, hanno rilevato come i vaccini offrano una protezione inferiore contro la variante omicron dopo il primo ciclo vaccinale. Le cose migliorano sensibilmente nel caso in cui si riceva un’ulteriore dose (richiamo) del vaccino, che consente di ridurre i rischi di sviluppare forme gravi di COVID-19 riconducibili alla variante.

Il CEO di Moderna, Stéphane Bancel, ha detto che gli attuali vaccini probabilmente offriranno una protezione minore contro la variante omicron e che potrebbero essere necessari diversi mesi prima di avere una versione aggiornata del vaccino a mRNA che produce la sua azienda. I commenti di Bancel hanno suscitato qualche perplessità, considerato che si attendono ancora dati e analisi per determinare la tenuta dei vaccini contro la variante.

Le società Pfizer-BioNTech hanno invece diffuso un comunicato su alcuni test di laboratorio svolti finora, che hanno messo in evidenza la capacità del loro vaccino di contrastare efficacemente la variante omicron dopo la dose di richiamo. Lo studio è stato però condotto su poche decine di campioni e deve essere preso con molta cautela in attesa di dati più solidi, basati anche sull’osservazione nella popolazione.

È bene ricordare che il nostro sistema immunitario sviluppa diverse difese contro i virus e che gli anticorpi sono solo una parte di queste. La memoria immunitaria può rafforzarsi e rendersi più specifica nel corso del tempo, anche grazie agli stimoli forniti dalle dosi di richiamo dei vaccini. Per questo esperti e gruppi di ricerca confidano che le difese maturate in questi due anni, tramite infezione o vaccino (con richiamo), siano per lo meno sufficienti per ridurre il rischio di sviluppare le forme gravi di COVID-19.

Diffusione
In poche settimane, omicron ha mostrato di essersi diffusa velocemente in vari paesi e si può ipotizzare che nei prossimi mesi abbia la capacità di superare la variante delta e di prendere il suo posto, diventando dominante. Sarà però necessario ancora del tempo prima di avere dati più affidabili e significativi: le analisi per rilevare la tipologia di variante tra i positivi non vengono sempre svolte a campione, ma partendo da soggetti che fanno sospettare la presenza della nuova variante; ciò può portare a una maggiore rilevazione di casi dovuti a una certa versione del coronavirus rispetto a quanto questa sia effettivamente diffusa tra la popolazione.

Ricerche e analisi sulla variante omicron sono in corso e stanno coinvolgendo centinaia di gruppi di ricerca in giro per il mondo. Gli studi svolti finora confermano che la nuova variante non deve essere sottovalutata e che, come segnalato dall’OMS, è importante prepararsi per ogni evenienza, senza fare però allarmismo.