Convivere con il senso di colpa per aver causato la morte di qualcuno

Partendo dalla sua esperienza, una psicologa americana spiega i tormenti di chi è involontariamente responsabile di incidenti mortali

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L’attore americano Alec Baldwin agli US Open a New York, il 30 agosto 2021 (EPA/JUSTIN LANE)
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Nell’estate del 1977 Maryann Gray, una psicologa sociale che vive in California, aveva 22 anni ed era una studentessa di psicologia clinica alla Miami University a Oxford, in Ohio. Aveva in programma di trasferirsi a Cincinnati, a un’ora di macchina da Oxford, e interrompere gli studi per qualche tempo, sebbene i suoi genitori, di Manhattan, non approvassero la sua decisione.

Il 15 giugno, durante uno dei viaggi tra Oxford e Cincinnati, Gray stava guidando l’auto di suo padre a una velocità di circa 70 chilometri orari lungo un tratto di strada di campagna, nel primo pomeriggio, quando un bambino di 8 anni correndo le attraversò la strada da sinistra. Lei frenò e tentò di sterzare all’ultimo ma non riuscì a evitare l’impatto, e il bambino morì prima di raggiungere l’ospedale. Nessuno le attribuì la responsabilità dell’incidente, nemmeno i genitori del bambino. La famiglia e gli amici di Gray cercarono di incoraggiarla e aiutarla a superare il trauma, ma lei continuò per lungo tempo a provare sentimenti di colpa, di dolore e di paura. Altre volte, soltanto apatia e indolenza.

Gray dirige oggi un’organizzazione non profit da lei fondata, Accidental Impacts, che fornisce sostegno alle persone che hanno involontariamente ucciso o ferito gravemente un’altra persona: un caso che negli Stati Uniti riguarda almeno 30 mila persone ogni anno, secondo le stime di Gray. Del trauma che quell’incidente le provocò da ragazza e della sua lunga esperienza nella cura di altre persone coinvolte in incidenti simili al suo – oggetto di un lungo articolo del New Yorker del 2017 – Gray ha scritto recentemente su alcuni giornali americani, in relazione a un rinnovato interesse pubblico per questo argomento.

La responsabilità per la morte di una persona in circostanze accidentali è stato un tema molto dibattuto nelle settimane scorse, a seguito del coinvolgimento dell’attore statunitense Alec Baldwin nella morte della direttrice della fotografia Halyna Hutchins, avvenuta il 21 ottobre sul set di un film in lavorazione nel New Mexico. Stando alle ricostruzioni dell’incidente, Baldwin stava maneggiando una pistola di scena che non sapeva fosse stata armata per sbaglio con proiettili veri, quando un colpo esploso verso Hutchins ha ucciso lei e ferito il regista Joel Souza.

«Non ci sono parole per descrivere lo shock e la tristezza che provo per il tragico incidente in cui ha perso la vita Halyna Hutchins, moglie, madre e collega che ammiravamo profondamente», aveva scritto Baldwin il giorno dopo l’incidente.

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La vicenda di Baldwin, caso peraltro raro ma non unico nella storia degli incidenti avvenuti sui set cinematografici, è stata trattata dall’opinione pubblica anche come spunto per una serie di consuete riflessioni sui limiti e sul tipo di responsabilità che sia possibile attribuire a una o più persone per la morte di un’altra persona in casi del genere. In Italia, questo dibattito emerse per esempio in occasione dell’introduzione del reato di omicidio stradale nel 2015.

Parallelamente a queste considerazioni ne sono state fatte altre, che riguardano invece gli effetti della morte di una persona sulle condizioni psicologiche di chi si senta materialmente responsabile di quella morte, a causa della dinamica dell’incidente e al di là di qualsiasi condanna o assoluzione sul piano pubblico e su quello legale.

Le persone che si prendono cura di Baldwin, ha scritto Gray sul Los Angeles Times, avranno probabilmente cercato di alleviare la sua angoscia dicendo cose come “non è stata colpa tua” o “è stato solo un incidente”. «Il fatto è che era l’agente di un male orrendo. Ed è un fardello pesante da sopportare, tralasciando le potenziali complicazioni legali dovute al fatto che fosse uno dei produttori del film».

Quella di poter provocare senza volerlo la morte di una persona è peraltro una sensazione diventata più familiare a gran parte della popolazione durante la pandemia. Specialmente nelle prime fasi, quando ancora non erano del tutto chiare le modalità di trasmissione della COVID-19, familiari e amici hanno dovuto in alcuni casi affrontare il rischio di infettarsi a vicenda, con conseguenze potenzialmente fatali. «La consapevolezza che le buone intenzioni non garantiscono la bontà dei risultati è dolorosa e spaventosa», ha scritto Gray sul Wall Street Journal.

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Riparlando del suo incidente, Gray ha raccontato che nei mesi successivi sentì di non riuscire a convivere con il dolore per la morte di Brian, il bambino di 8 anni da lei investito. Le poche volte in cui non si sentiva travolta dal senso di colpa era come assente, in uno stato di insensibilità e indifferenza rispetto alle altre attività della sua giornata, spesso disturbate da improvvisi flashback dell’incidente. Il crollo della sua autostima la portò spesso a rimanere isolata.

«Ebbi difficoltà ad accettare che qualcosa di così profondamente devastante fosse un evento casuale, un semplice caso di “posto sbagliato nel momento sbagliato”», ha scritto Gray. Cominciò quindi a credere che qualcosa di «oscuro e distruttivo» in lei avesse evocato la morte. Pensò che un’altra persona al suo posto avrebbe visto Brian una frazione di secondo prima e sarebbe riuscita a evitare lo scontro, oppure avrebbe prestato più attenzione alla guida, intuendo che in quel tratto di strada avrebbe potuto incrociare un bambino che correva.

Per qualche tempo Gray smise di guidare. Quando questa decisione diventò impraticabile, cominciò a preferire lunghi percorsi alternativi per evitare di guidare in prossimità di scuole e parchi. Arrestava l’auto ogni volta prima delle strisce pedonali, anche quando non c’erano persone che aspettavano di attraversare. E a volte, se per esempio le finiva un insetto sul parabrezza, subentravano crisi di panico.

Arrivò a pensare di non poter diventare mai una madre, come forma di espiazione per il dolore procurato a quella di Brian. «Ogni volta che la gioia era lì per venire a galla, ricordavo a me stessa che non avevo diritto alla felicità. “Guarda cos’è successo l’ultima volta che ti sei sentita felice”, diceva una voce dentro di me. Ho pensato a Brian il giorno del mio matrimonio, il giorno della discussione della mia tesi di laurea e mentre correvo lungo la spiaggia osservando i delfini giocare al largo. Brian non ha mai avuto la possibilità di vedere l’oceano, di indossare il tocco e la toga né di innamorarsi», ha scritto Gray.

A peggiorare ulteriormente la condizione di persone coinvolte in storie come quella di Gray contribuisce il pensiero frequente di non meritare nemmeno alcun sostegno. Solo a distanza di molto tempo, quasi vent’anni dopo l’incidente, mentre era in analisi per la depressione e l’ansia, Gray comprese che ciò che provò dopo la morte di Brian rientrava nei classici sintomi del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). La sua ossessione per la colpa era un modo per far apparire il mondo più stabile e prevedibile, le disse la terapeuta: «In altre parole, dare la colpa a me stessa e sentirmi in colpa era preferibile alla sensazione di terrore per la violenza casuale e di impotenza».

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In questo genere di incidenti, ha spiegato Gray, il senso di colpa è anche un segno di una cosiddetta «lesione morale» (moral injury), definita come la disperazione che proviamo quando non riusciamo a vivere rispettando il nostro codice morale. È una condizione peraltro molto diffusa tra i reduci di guerra, negli Stati Uniti, e recentemente associata a operatori e operatrici sanitarie impegnate durante l’emergenza per la pandemia, e che può portare le persone che ne soffrono a isolarsi dal resto del mondo, inducendole all’autolesionismo, all’abuso di sostanze e al suicidio.

Gray si è detta grata di aver ricevuto in quella fase della sua vita l’aiuto di cui aveva bisogno per superare il suo trauma. Grazie a quell’aiuto, sostiene sulla base della sua esperienza nell’associazione che dirige, «coloro che uccidono involontariamente una persona possono e trovano poi il modo di vivere una vita appagante». Che non significa dimenticare l’incidente: sentirsi in colpa per il danno causato, anche quando non era nostra intenzione causarlo, è un segno della nostra umanità, osserva Gray. L’obiettivo non è respingere quella colpa ma piuttosto cercare di incanalarla in modi utili e produttivi.

La risoluzione del conflitto interno provocato dalla violazione degli standard morali, secondo il docente di psicologia dell’Università del Wyoming Matt J. Gray, avviene in seguito a ciò che la letteratura scientifica definisce «riparazione morale», un percorso clinico, terapeutico e sociale che renda possibile alle persone ritrovare il rispetto di sé.

La riparazione morale richiede prima di tutto di affrontare la questione della colpevolezza in un modo diverso. «Tendiamo a pensarla in termini categorici come colpevole contro innocente, ma la responsabilità morale è qualcosa che esiste lungo uno spettro», ha scritto Maryann Gray. Il 16 luglio 2003, non distante da dove abita oggi, un uomo di ottantasei anni alla guida di una berlina accelerò davanti a un segnale di chiusura della strada, finendo in un mercato a Santa Monica: morirono 10 persone e altre 63 rimasero ferite. Il suo avvocato sostenne che fu un incidente, e in seguito Weller fu condannato a cinque anni di libertà vigilata per omicidio involontario (manslaughter).

Subito dopo l’incidente, «la gente non era soltanto arrabbiata con lui: lo chiamava assassino, ma per me era evidente che non lo avesse fatto apposta, e pensai che quella risposta fosse molto crudele», disse Gray al New Yorker.

«C’è quasi sempre una combinazione di responsabilità individuale, colpa condivisa e sfortuna», ha scritto Gray sul Wall Street Journal, ed è una questione di equilibri. Riducendo la propria responsabilità, le persone che abbiano ucciso o ferito involontariamente un’altra potrebbero essere in grado di “proteggere” la propria rappresentazione di sé e la propria reputazione, ma ridurla eccessivamente potrebbe rendere quelle persone cieche di fronte alla necessità di cambiare i loro comportamenti per limitare il rischio di danni in futuro.

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L’inclinazione a ridurre la propria responsabilità potrebbe sembrare un comportamento “difensivo” abbastanza comune, utile a evitare lesioni morali, ma Gray ha detto che nella sua esperienza di psicologa è più frequente il caso di persone che si colpevolizzano per una fatalità anche quando i fatti indicano che non hanno colpe. «Senza riconoscere i limiti del nostro controllo personale, le persone che procurano involontariamente un danno restano intrappolate in una infinita autorecriminazione. Perché una riparazione morale possa avere inizio dobbiamo riconoscere ciò che possiamo e ciò che non possiamo controllare», ha scritto Gray.

Il secondo passo da compiere, prosegue Gray, è comprendere il significato da attribuire all’incidente, ammesso che ce ne sia uno. Nel suo caso, associò la morte di Brian a qualcosa di oscuro in lei, in grado di attirare la morte. Altre persone, dice, a volte interpretano gli eventi tragici come prove a loro sottoposte da Dio, o al contrario come la prova dell’inesistenza di Dio, o come la prova della crudeltà del mondo. «Oggi, dopo aver analizzato criticamente le mie convinzioni in terapia, riconosco di non essere peggiore – né migliore – della maggior parte delle persone. Le brave persone a volte commettono errori orribili. Uccidere Brian senza volerlo non definisce il mio carattere o la mia anima», ha scritto Gray.

Infine la riparazione morale richiede di reagire in qualche modo all’incidente, concretamente, evitando che il senso di colpa, la vergogna e la paura guidino le proprie scelte future. Nel caso di Gray, questo passaggio fu rappresentato anni dopo dalla volontà di fondare un’organizzazione utile per altre persone che sperimentano sofferenze simili a quella che lei provò a 22 anni. Ma vale allo stesso modo per qualsiasi altro tipo di impegno quotidiano nella società: «Non potremo mai rimediare al fatto di aver tolto una vita, ma possiamo decidere di rendere il mondo un posto migliore».

Gray non ha mai avuto figli, è divorziata e in buoni rapporti con il suo ex marito. Parlando di sé e delle altre persone con cui ha a che fare tutti i giorni nell’associazione ha scritto: «Cerchiamo la forza di accettare la responsabilità dei nostri errori e di trattare noi stessi e gli altri con comprensione. Qualsiasi altra strada non fa che aumentare il costo di queste tragedie».

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Dove chiedere aiuto
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