• Media
  • Sabato 13 novembre 2021

Il fondo di investimento che si sta mangiando i giornali statunitensi

Il fondo Alden è specializzato nello spremere gli ultimi profitti di un settore in crisi, ignorando conseguenze e ruolo dell'informazione nelle città americane

(AP Photo/Kiichiro Sato)
(AP Photo/Kiichiro Sato)

La crisi dei quotidiani negli Stati Uniti dura ormai da molti anni, è stata segnata da frequenti chiusure e accorpamenti, e si sviluppa in un contesto particolare: i quotidiani “nazionali” del paese sono pochissimi, New York Times, Wall Street Journal, USA Today e Washington Post. Le altre testate famose, tra cui alcune che hanno tuttora tirature di centinaia di migliaia di copie (Chicago Tribune, Boston Globe, Los Angeles Times) sono definite “giornali locali” e hanno in effetti un’attenzione cospicua alle città di riferimento, grandi o piccole che siano (lo stesso Washington Post è stato a volte considerato locale). Le loro vicende sono molto discusse nel quadro delle difficoltà di risorse economiche dell’informazione, e tra i loro editori ci sono stati grossi sommovimenti anche di recente.

Uno dei più seguiti tra gli addetti ai lavori, ma anche tra i lettori delle testate coinvolte è stata la cessione di un grosso gruppo editoriale e dei suoi quotidiani a un fondo di investimenti accusato di non essere per nulla interessato al giornalismo e alla sua futura sostenibilità, o ai bisogni delle comunità servite da quei giornali. Il fondo si chiama Alden Global Capital, ha sede a Manhattan, a New York, e negli ultimi anni si è specializzato nell’acquistare prominenti riviste e quotidiani locali, spremerli per generare profitti a breve termine, per poi chiuderli o tenerli artificialmente in fin di vita.

La storia di come ci sia riuscito, e dei pericoli per le aziende giornalistiche coinvolte, è stata raccontata tra gli altri da un lungo articolo del giornalista McKay Coppins pubblicato di recente sull’Atlantic, e da altre lunghe inchieste negli scorsi anni (ne ha scritto spesso nei mesi passati anche la newsletter del Post sui giornali, Charlie).

Alden Global Capital è un fondo di investimenti interessato quasi esclusivamente – come del resto migliaia di fondi del genere – a generare profitti per i propri investitori, senza curarsi della sostenibilità delle aziende acquisite nel medio e nel lungo termine, né tanto meno alle conseguenze dirette e indirette del suo approccio: in questo caso sull’occupazione, naturalmente, ma soprattutto sul servizio pubblico di informazione per le comunità “locali”.

L’altra particolarità del fondo Alden è che al contrario di diversi altri fondi non sembra interessato nemmeno a fare finta di avere riguardo per le proprie aziende, che da qualche tempo includono anche storici quotidiani locali come il Chicago Tribune, il Baltimore Sun e il Denver Post. Gli elusivi proprietari del fondo non parlano mai delle proprie ambizioni editoriali, né con la stampa né con i dipendenti, a cui secondo l’inchiesta di Coppins si limitano a chiedere molto esplicitamente di fare il possibile per tagliare i costi di gestione. Alla richiesta di Coppins di citare alcuni articoli che abbia particolarmente apprezzato fra quelli pubblicati di recente dai suoi quotidiani, uno dei due proprietari del fondo Alden ha preferito non rispondere. «Nelle mie molte conversazioni con le persone che hanno lavorato con lui, nessuno ricorda di averlo mai visto leggere un giornale», scrive Coppins.

– Leggi anche: La strana azienda che ha tappezzato di pubblicità il Corriere della Sera

La storia del fondo Alden iniziò negli anni Ottanta e Novanta, quando il suo co-fondatore Randall Smith – un uomo su cui circolano pochissime informazioni – fece una montagna di soldi comprando società sull’orlo del fallimento, da cui estraeva gli ultimi mesi o anni di profitti per poi disfarsene. Nel 1991 il New York Times lo definì bravissimo nel «fare profitti sulle disgrazie altrui». Nel 2001 Smith perse uno dei suoi amici e collaboratori più stretti, il banchiere Brian Freeman, che si suicidò: e da allora diventò il mentore di suo figlio Heath. Sei anni dopo Smith creò il fondo Alden per replicare la strategia dei fondi di investimento nel settore dei giornali. A capo del fondo, oltre a se stesso, mise anche Heath Freeman.

«La strategia alla base del fondo Alden era semplice», scrive Coppins: «perfino in un’industria in crisi come quella editoriale, i giornali continuavano a generare ogni anno centinaia di milioni di dollari di introiti. Freeman e i suoi investitori non dovevano preoccuparsi della stabilità a lungo termine dei propri asset, ma solo di massimizzare i profitti più velocemente possibile».

Se un giornale ogni anno costa 100 milioni e genera introiti per 105, un editore “puro” – che cioè non ha altri interessi a parte il buon andamento del giornale – userebbe  probabilmente 100 milioni di introiti per tenere in piedi il giornale e gli altri 5 per limitati investimenti. Il metodo Alden invece prevede di applicare tagli al personale e alle risorse per fare in modo che il giornale al posto di 100 milioni costi 60. Il resto degli introiti generati nei mesi o anni appena successivi viene invece investito in altre aziende del gruppo, oppure distribuito fra gli azionisti del fondo. A un certo punto il giornale smetterà di avere risorse per funzionare o per produrre contenuti all’altezza: ma nel frattempo il fondo Alden avrà ottenuto dei guadagni più che soddisfacenti.

Il fondo Alden controlla buona parte dei giornali che possiede tramite la società Digital First Media. Il magazine Nieman Lab ha scoperto che nell’anno fiscale del 2017 Digital First Media ha avuto costi operativi per 780 milioni di dollari e introiti per 939 milioni di dollari. Significa che ha generato 159 milioni di dollari di profitti: una cifra enorme per un settore perennemente in bilico fra costi e ricavi come quello dei giornali. Ma Alden non ha reinvestito i profitti nei suoi giornali, che negli anni successivi hanno subìto ancora più tagli e riduzioni del personale. Scrive Coppins:

Se volete sapere cosa può accadere al vostro giornale locale se viene comprato dal fondo Alden, potete osservare cos’è successo nella contea di Montgomery, in Pennsylvania, dove le elezioni locali di più di una decina di paesi sono coperte da un unico giornalista che lavora dalla sua soffitta, da cui manda domande via mail ai vari candidati. A Oakland, in California, l’East Bay Times di proprietà del fondo Alden ha licenziato 20 dipendenti una settimana dopo aver vinto un premio Pulitzer.

Nella vicina Monterey un’ex giornalista del Monterey Herald ha raccontato che la redazione è stata spinta a smettere di produrre inchieste, per scrivere un numero maggiore di articoli. A Denver, in Colorado, la redazione del Denver Post è stata ridotta di due terzi, sfrattata dal proprio ufficio e trasferita in una zona della città con scarsa qualità dell’aria, tanto che alcuni dipendenti hanno sviluppato malattie respiratorie.

Non è andata meglio al Vallejo Times-Herald, un piccolo quotidiano di Vallejo, in California. Nel 2014 aveva una ventina fra giornalisti, caporedattori e fotografi. Nel 2019, dopo anni di tagli al personale, era rimasto un solo giornalista, John Glidden, per coprire da solo una città di 120mila abitanti. Secondo una stima della NewsGuild, un importante sindacato dei giornalisti negli Stati Uniti, fra il 2015 e il 2017 il fondo Alden ha ridotto del 36 per cento il personale nei quotidiani di sua proprietà.

La chiusura o il ridimensionamento dei quotidiani locali, già colpiti negli anni scorsi dalla diffusione dei social network e dalla crisi dei modelli di business dei giornali tradizionali, è un problema che non riguarda solo gli Stati Uniti. Diversi studi indicano che incidono moltissimo sulla vita di una comunità, specie in quelle più piccole. Nel suo articolo per l’Atlantic, Coppins ricorda che varie ricerche hanno collegato la chiusura di un giornale locale a un’affluenza elettorale più bassa e a una maggiore polarizzazione del dibattito politico. Ancora di più in tempi difficili come questi la loro sopravvivenza dipende spesso dalla disponibilità di editori o famiglie imprenditoriali a sostenerli anche a fronte di scarse redditività o di perdite: spesso per interessi privati di relazioni, promozione di interessi, vanità personale, ma comunque con l’intenzione di scongiurarne la chiusura.

Secondo una recente analisi del Financial Times, oggi negli Stati Uniti un quotidiano su due è invece ormai di proprietà di un fondo di investimento. Ma mentre negli anni scorsi gli acquisti dei fondi riguardavano soprattutto giornali locali piccoli o medio-piccoli, il problema ha assunto una nuova dimensione a maggio, quando il fondo Alden ha comprato la società che controlla alcuni storici quotidiani di grandi città come il Chicago Tribune e il Baltimore Sun, fra gli altri.

Nonostante siano passati soltanto pochi mesi, il Tribune ha già subìto un forte ridimensionamento. Poco prima dell’acquisizione da parte del fondo Alden, il quotidiano era in attivo e si era stabilizzato dopo anni di profonda crisi: ma nei mesi scorsi il fondo Alden ha ridotto al minimo la redazione fra prepensionamenti e incentivi all’esodo. Il Sun non ha ancora avuto tagli significativi, e all’inizio del 2021 la sua redazione aveva costruito una campagna di comunicazione e di ricerca di acquirenti per cercare di scongiurare l’acquisto del fondo Alden, ma la precedente proprietà ha deciso lo stesso di privilegiare l’offerta di quest’ultimo.

«Sembra che ci siamo messi contro il capitalismo», ha raccontato a Coppins Lillian Reed, una giornalista del Sun che aveva coordinato la campagna di mobilitazione. «Sarò io a sconfiggere il capitalismo negli Stati Uniti? Probabilmente no».

Coppins ha provato più volte a contattare Randall Smith, il mentore di Heath Freeman, senza successo. Ha ricostruito che Smith ha interrotto i rapporti con la stampa più o meno negli anni Novanta, e in effetti online circola una sua unica foto. Sul suo conto si sa soltanto che possiede decine di ville, tanto che non si sa nemmeno dove abiti, e che di recente ha fatto una donazione per il comitato elettorale dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

Coppins è riuscito invece a intervistare Freeman, ma non ne ha ricavato una grande impressione.

Freeman non mi è sembrato particolarmente interessato a difendere la reputazione del fondo Alden. Quando ha accettato l’intervista mi aspettavo che dicesse una serie di cose prevedibili: che le riduzioni del personale sono drammatiche ma necessarie; che mantiene il massimo rispetto per il giornalismo locale; che avverte la responsabilità di guidare questi giornali verso un radioso futuro. Avrei saputo che non lo intendeva davvero, e lui avrebbe saputo che io sapevo. Ma almeno avrebbe fatto quello sforzo.

Avevo sottostimato quanto poco i fondatori del fondo Alden tengano alla propria immagine nel mondo del giornalismo. Per Freeman i giornali sono asset finanziari e niente di più: numeri da inserire in una tabella finché non arrivano al massimo di profitti che possono produrre. […] Né Freeman né Smith saranno mai invitati a una cena in loro onore per aver salvato il giornalismo: e probabilmente a loro va bene così.