I medici non vogliono più lavorare al pronto soccorso

Gli orari sono estenuanti e affiancare la libera professione è difficile: ne mancano duemila, e gli ospedali faticano a coprire i turni

L'ingresso del pronto soccorso dell'ospedale San Filippo Neri di Roma (Foto Cecilia Fabiano/LaPresse)
L'ingresso del pronto soccorso dell'ospedale San Filippo Neri di Roma (Foto Cecilia Fabiano/LaPresse)

La carenza di medici è un problema che in Italia va avanti almeno dal 2019, anno in cui uscirono dal servizio sanitario nazionale oltre 5.000 medici per pensionamenti, e più di 3.000 che andarono a lavorare nel settore privato o come medici di famiglia. Esiste però un problema nel problema, che si è ripresentato col graduale ritorno alla normalità dopo la pandemia: le associazioni di categoria lo chiamano «fuga dai pronto soccorso».

I motivi sono legati soprattutto al sovraccarico di lavoro e ai turni estenuanti che riguardano normalmente i medici dei pronto soccorso, ma il coronavirus ne ha aggiunti altri. Salvatore Manca, presidente della SIMEU, Società Italiana della Medicina di Emegenza-Urgenza, spiega che «nell’anno e mezzo della pandemia, i medici di pronto soccorso sono stati in prima linea per un lungo e stressante periodo di lavoro. Hanno dovuto affrontare turni spesso insostenibili, occupandosi sia del coronavirus sia di tutti i pazienti con altre patologie e problemi. In pochi ora ricordano che nella prima fase della pandemia transitavano dal pronto soccorso tutte le persone che avevano contratto il COVID-19, e che in assenza di linee guida siamo stati noi a costruire percorsi differenti per salvaguardare gli accessi da possibili contagi».

La carenza di medici viene segnalata nei pronto soccorso di tutta Italia. Un caso emblematico riguarda Giarre, in provincia di Catania, dove il reparto di pronto soccorso venne chiuso nel 2015. Nella campagna elettorale del 2017 l’attuale presidente regionale siciliano Nello Musumeci ne promise la riapertura. La promessa è stata mantenuta: il 21 settembre di quest’anno il pronto soccorso di Giarre era stato riaperto. Per far funzionare la struttura erano stati però impiegati medici di cardiologia, chirurgia, ortopedia: visite e interventi già previsti da tempo in ospedale sono stati così annullati. Dopo soli quindici giorni il pronto soccorso di Giarre ha dovuto chiudere di nuovo.

In Toscana i sindacati della dirigenza medica e sanitaria di recente hanno diffuso un comunicato in cui informano i cittadini di «una situazione emergenziale che renderà sempre più difficile accedere a cure che garantiscano equità nel diritto di accesso e qualità nell’assistenza».

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Anche in Piemonte il sindacato spiega che chirurghi, cardiologi e internisti sono costretti a coprire i turni in pronto soccorso, invece di contribuire a ridurre le liste d’attesa delle visite specialistiche. Nelle Marche è stato pubblicato un avviso per la ricerca urgente di medici specializzati in medicina e chirurgia d’accettazione e d’urgenza, cioè quella che riguarda il lavoro in pronto soccorso. Lo stesso avviene in altre regioni.

«La carenza d’organico», dice ancora Manca, «riguarda indistintamente le strutture di tutta Italia. Già oggi nei pronto soccorso mancano 2.000 medici: andando avanti a questo ritmo nel 2025 si rischia di non poter più accogliere i pazienti e di avere pronto soccorso deserti». Le associazioni di categoria stimano infatti che le uscite dei medici andranno avanti almeno fino al 2025, per via delle grandi ondate di pensionamenti dei medici entrati nel settore sanitario pubblico negli anni Ottanta.

Il problema è che i turni, che prevedono svariate notti e giorni festivi, rendono poco attraente il mestiere di medico di pronto soccorso: soprattutto perché impediscono o quasi l’attività da libero professionista. In pratica, il medico di pronto soccorso si ritrova a guadagnare meno dei suoi colleghi di ospedale o dei medici di famiglia.

(ANSA/TINO ROMANO)

Un medico impiegato in un ospedale guadagna al suo ingresso circa 2.500 euro al mese, che dopo 10-15 anni di attività diventano 3.000-3.200 euro. Di solito ha la possibilità di integrare il proprio stipendio lavorando nei ritagli di tempo come libero professionista: se però lavora nel reparto di pronto soccorso, praticare la libera professione è reso più difficile dai turni e dallo stress spesso superiore a quello sperimentato da altri medici. Un medico di famiglia con mille assistiti arriva invece a 4.000 euro lordi (escluse le spese), che diventano 5.500 se i pazienti sono 1.500, cioè il massimo.

Carlo Palermo, segretario nazionale di ANAAO ASSOMED (Associazione Nazionale Aiuti e Assistenti Ospedalieri), spiega che «un tempo lavorare al pronto soccorso e quindi avere a che fare con ogni tipo di patologia era considerato un privilegio. Era, ed è, la porta d’ingresso dell’ospedale, un luogo fondamentale. Ma non è possibile reggere certi ritmi, dover fare sette, otto, anche nove notti al mese, avere problemi a godere le ferie, lavorare con scariche di adrenalina continue e quindi con quantità notevoli di stress. A un certo punto un medico si chiede: “Chi me lo fa fare? Perché devo sacrificare così la mia vita sociale e familiare?”».

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A tutto questo si aggiunge che i medici del pronto soccorso sono quelli più esposti agli attacchi esterni. «Purtroppo gli episodi di aggressioni verbali, ma anche fisiche, al personale di pronto soccorso sono sempre più numerosi», dice Palermo. «Queste variabili fanno sì che i colleghi scartino subito il lavoro in pronto soccorso, complice una politica che non ha mai ascoltato sindacati e società scientifiche quando chiedevamo di valorizzare percorsi e carriere», aggiunge Manca.

Secondo la FIASO, Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere, i medici in Italia subiscono circa mille aggressioni all’anno, ma sono molte di più se si calcolano quelle non denunciate. In una situazione di stress, di lavoro con carichi eccessivi e di esposizione a possibile aggressioni, i medici dei pronto soccorso sono quelli che più accusano il burnout, e cioè la sindrome di esaurimento sul piano fisico, mentale ed emotivo.

«Alla carenza nei pronto soccorso», dice Manca, «si cerca di sopperire grazie all’aiuto di medici di altri reparti. Il problema è che molti al pronto soccorso non ci vogliono andare. Inoltre, spostando medici, si sguarniscono gli altri settori».

È un circolo vizioso: i tagli al servizio sanitario nazionale degli ultimi anni hanno ridotto i posti letto negli ospedali. Meno posti letto nei reparti significa, per i pazienti che devono essere ricoverati, restare più a lungo all’interno dei pronto soccorso. A volte il medico si trova così a seguire un paziente per 24 ore o anche di più, mentre il suo compito dovrebbe essere solo un trattamento d’urgenza iniziale. E se non ci sono medici specializzati in medicina d’urgenza, al pronto soccorso ci vanno quelli specializzati in altro, cosa che rende ancora più lunga l’attesa di visite e interventi nei vari reparti.

(ANSA/FILIPPO VENEZIA)

In Italia sono circa 20 milioni l’anno gli accessi al pronto soccorso, che a causa di una crisi strutturale della medicina del territorio si trova ad agire spesso al posto dello studio medico di base.

Attualmente i codici bianchi, e cioè i pazienti con sintomi che non necessitano di una gestione ospedaliera urgente, rappresentano il 13% circa del totale. I codici rossi, cioè i degenti in pericolo di vita, sono il 2%. La grande maggioranza – il 63% – sono i codici verdi,  pazienti che possono avere cure differibili perché non presentano lesioni vitali, mentre il 22% sono i codici arancioni, che hanno alcune funzioni vitali compromesse.

Recentemente è stato introdotto un altro colore per distinguere gli accessi, l’azzurro. Secondo il protocollo di triage del ministero della Sanità, il codice rosso necessita ovviamente di un accesso immediato; l’arancione è per urgenze che vanno gestite entro brevissimo tempo; l’azzurro per interventi che vanno gestiti entro un’ora; il verde per urgenze minori da gestire entro due ore; il bianco per interventi non urgenti da gestire entro quattro ore. Nonostante la netta categorizzazione, sono tempi che molto spesso non possono essere rispettati.

La situazione non sembra destinata a migliorare. Recentemente su base nazionale 450 borse di studio per la specialità di medicina d’urgenza sono andate deserte. Il problema della carenza dei medici riguarda anche il 118, per il quale è previsto un corso di specializzazione di 400 ore. Ma come spiega Emanuele Cosentino, responsabile nazionale del 118 della FISMU, Federazione Sindacale dei Medici Uniti, «le regioni ultimamente hanno fatto sempre meno corsi, il personale si è ridotto, e ci sono medici del 118 che fanno 250-300 ore al mese di lavoro. I giovani che si laureano hanno una enorme vastità di scelta, aumentano le scuole di specializzazione: quindi perché dovrebbero andare a lavorare sulle ambulanze? È un lavoro duro, sul territorio, non hai intorno una struttura, sei solo con l’equipaggio ad affrontare situazioni anche di massima emergenza».

Per arginare il problema della carenza di personale medico molte regioni recentemente si sono rivolte alle cooperative che, dice Manca, «sono di fatto società economiche di intermediazione, o meglio, di fornitura di servizi. Non sono obiettivamente molto diverse dalle agenzie cui rivolgersi, ad esempio, per usufruire del servizio di badanti o baby sitter: assicurano in quelle ore e in quella struttura la copertura del turno, senza badare troppo al tipo di professionista disponibile. Che sia il dottor  X o il dottor Y, quale ne sia l’esperienza, la formazione e anche il livello di riposo, poco importa. Si rende un servizio nelle ore indicate».

Un medico di una cooperativa veneta può essere chiamato per esempio in Molise e poi in Sardegna. «Il proliferare in tutta Italia di queste cooperative è sinonimo dell’alta richiesta e, dal momento che le tariffe pare non siano regolate da appalti o contratti nazionali ma orientate dalla richiesta di mercato, la contrattazione privata verosimilmente causa una corsa al rialzo delle tariffe, che le aziende sanitarie spesso devono accettare a causa della difficoltà nel reperimento di un numero di medici sufficiente per poter coprire i turni previsti dal servizio di Pronto Soccorso», continua Manca. Questo crea ancora più malumore tra i medici dei pronto soccorso: se un medico di una cooperativa può arrivare a guadagnare 90 euro l’ora, uno ospedaliero ne guadagna meno della metà.

«Le soluzioni», conclude Palermo, «ci sarebbero. Innanzitutto ci vogliono nuove assunzioni. Poi si dovrebbero istituire indennità specifiche per i medici di pronto soccorso. È una misura che potrebbe essere inserita già in questa legge di bilancio. Sarebbe importante poi dare ai medici che lavorano in pronto soccorso dieci giorni di ferie o riposo in più. E classificare questa attività per quello che è: cioè un lavoro usurante».