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  • Venerdì 22 ottobre 2021

Restare lucidi, sul cambiamento climatico

Non è facile, dicono gli autori della newsletter "Medusa" nel loro primo libro, ma la storia della scienza aiuta

(AP Photo/Leo Correa, File, La Presse)
(AP Photo/Leo Correa, File, La Presse)

Parlare e ragionare del cambiamento climatico non è facile. È un argomento complesso, spesso percepito come distante dalla vita quotidiana, e al tempo stesso – soprattutto negli ultimi anni – risulta piuttosto onnipresente, sentito e risentito. Quando si sceglie di rifletterci si corre sempre il rischio di deprimersi, per le sue implicazioni e per la mancanza di soluzioni nel futuro prossimo. Ciò non toglie che il cambiamento climatico sia probabilmente la questione più importante da affrontare per l’umanità, oggi e nei prossimi decenni, e che serva capirlo bene e discutere delle sue conseguenze, anche quelle culturali, per tutte le persone.

Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi lo fanno da quattro anni attraverso l’apprezzata newsletter Medusa e ora anche con un libro, Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo), che cerca di connettere i punti tra le conoscenze scientifiche e tecniche sul cambiamento climatico, il modo in cui divulgatori ma anche e soprattutto scrittori e artisti lo raccontano, le iniziative di attivismo per contrastarlo, il nostro rapporto con la natura le innumerevoli storie in mezzo. Pubblichiamo un estratto dal quarto capitolo, su un episodio della storia della scienza del clima.

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A casa ho ritrovato una vecchia copia delle Scienze, del maggio 2005. In quegli anni sui giornali si parlava poco di riscaldamento globale, in Italia si usava quasi solo l’etichetta «effetto serra». Nell’aria c’erano 382.45 ppm di CO2 e antropocene era una parola che iniziava appena a riverberare nei convegni di climatologia – forse pronunciata più che altro davanti al tavolo del coffee break, e non ancora durante le discussioni ufficiali.

La storia di copertina della rivista è firmata da William F. Ruddiman, paleoclimatologo, geologo marino e professore emerito di scienze ambientali. Per quarant’anni, da ricercatore, Ruddiman aveva letto le tracce dei cambiamenti climatici nei sedimenti oceanici e nelle variazioni dei mari (a volte gli studiosi della storia del clima sembrano sul serio aruspici contemporanei, stregoni che cercano segni di un passato remoto, sepolto in posti non meno improbabili delle budella di un animale: anelli di alberi secolari; bolle di aria antica intrappolate in carote di ghiaccio lunghe a volte qualche chilometro; campioni di fondali oceanici estratti da appositi battelli; frammenti scavati a mano nei sedimenti lacustri).

Negli ultimi anni di carriera, Ruddiman era stato eletto direttore di dipartimento all’università della Virginia, e a ridosso del pensionamento aveva formulato la teoria a cui avrebbe legato per sempre il proprio nome: l’ipotesi Ruddiman, ribattezzata poi ipotesi dell’early anthropocene. In quel numero delle Scienze (l’articolo originale era uscito su Scientific American) Ruddiman la spiega per la prima volta al pubblico.

L’ipotesi di Ruddiman suggerisce che il riscaldamento globale sia iniziato migliaia di anni prima della rivoluzione industriale, e che sia stato innescato in particolare dalla diffusione delle pratiche agricole. In quegli anni Ruddiman, dopo un lungo successo accademico, godette di qualche momento di notorietà. Da allora però la sua ipotesi è ferma nel limbo delle suggestioni che non sono riuscite a farsi teoria. Ma andiamo con ordine.

Sappiamo che con la costruzione degli impianti manifatturieri, delle centrali elettriche a carbone, dei veicoli a motore, con l’arrivo della modernità in buona sostanza, le società industriali hanno iniziato a diffondere in maniera massiccia anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera. E sappiamo che l’accumulo di questi gas finirà per alterare il clima terrestre – e lo stava già facendo nel 2005.

Ma forse non è la prima volta che succede una cosa del genere – questa è l’ipotesi –, forse sono già migliaia di anni che l’essere umano modifica il clima del pianeta. All’inizio dell’avventura di Homo sapiens non ne saremmo mai stati capaci. I nostri antenati erano animali ecologicamente ininfluenti, pochi in numero e in continuo movimento, alla ricerca di acqua e cibo. L’atmosfera del pianeta era determinata in quel periodo da un groviglio caotico di fattori naturali che agivano indifferenti all’esistenza umana, come sempre era stato: derive dei continenti, grandi eruzioni vulcaniche, erosione delle alture, avanzata o ritirata dei mari, impatto di meteoriti.

Poi arrivò l’agricoltura. Gli esseri umani presero a vivere nei pressi dei terreni coltivati, iniziarono ad allevare il bestiame, crebbero in numero, si moltiplicarono, cominciarono a lasciare un’impronta permanente sempre più profonda sul paesaggio. Disboscarono, allargarono i pascoli, decisero che alcuni pezzi di terra sarebbero stati destinati all’aratro, su altri costruirono case, borghi, villaggi.

Ruddiman, studiando i dati, si convinse che la nascita dell’agricoltura fosse stata il punto di non ritorno: da quel momento la razza umana era diventata capace, a sua insaputa, di condizionare l’atmosfera terrestre a livello globale, di sostituirsi alla natura alla guida del clima. Certo, nulla a che vedere con lo shock della fase industriale: parliamo di un’influenza molto più lieve, ma non meno pervasiva. Le ricostruzioni degli andamenti storici dei gas serra, e una prima analisi delle correlazioni, davano ragione a Ruddiman. Guardando i grafici, sembrava evidente che metano e anidride carbonica, gas prodotti sia da processi naturali autonomi che dall’azione dell’uomo, iniziassero a crescere in modo anomalo, staccandosi dal comportamento previsto, proprio in corrispondenza della rivoluzione agricola.

Ruddiman si spiegava l’anomalia così: l’irrigazione dei terreni doveva aver creato zone acquitrinose artificiali che emettevano metano, mentre l’anidride carbonica extra doveva essersi accumulata per il disboscamento e la combustione di carbone e legna.

Su quel numero delle Scienze l’articolo è decorato con un occhiello che avvisa: «La tesi che il contributo umano al cambiamento del clima sia vecchio di millenni è provocatoria e controversa». La redazione non ha aggiunto altre spiegazioni o commenti, c’è solo il disclaimer, come fosse l’etichetta «Parental Advisory – Explicit Content» che si usava stampare sui dischi hip hop.

Ma si capisce il senso di quella cautela. Ruddiman non ripete la filastrocca di scettici e negazionisti il clima è sempre cambiato, da cui di solito discende il corollario non è colpa degli esseri umani. Dice anzi: gli esseri umani hanno praticamente sempre cambiato il clima. Però alla fine aggiunge – e la conclusione è anche la parte più delicata della faccenda: se avessimo lasciato fare alla natura e ai suoi cicli saremmo andati incontro a una nuova glaciazione diversi millenni fa. Quella glaciazione fu impedita, secondo Ruddiman, proprio dall’andamento anomalo di metano e anidride carbonica, e dal conseguente riscaldamento – una reazione a catena provocata dall’agricoltura e dagli esseri umani a partire da 10.000 anni fa.

E controversa lo fu davvero, quell’ipotesi. Qualcuno ne approfittò per cercare di far passare le emissioni come uno scudo protettivo necessario al pianeta: se è vero che le attività umane hanno già evitato una glaciazione, perché dovremmo smettere? Chi ci assicura che non andremmo verso una nuova glaciazione, a quel punto? Meglio continuare a bruciare combustibili fossili allora. Lo stesso Ruddiman sembrava confuso a riguardo. Nel suo libro L’aratro, la peste e il petrolio, che dopo qualche anno approfondiva le argomentazioni dell’articolo, scrisse: «Parte del dibattito sul riscaldamento globale riguarda il giudizio da dare su questi cambiamenti: sono buoni o cattivi? Questo interrogativo ammette molte risposte».

Negli anni Ruddiman si è ricreduto, oggi dice di essere «estremamente preoccupato per il riscaldamento globale», come tutti. È ancora convinto di avere ragione sulla sua ipotesi, però, anche se il resto della comunità scientifica non l’ha mai accettata. Non l’ha neanche completamente respinta: è presa sul serio, ma secondo la maggioranza dei suoi colleghi non è abbastanza solida. Senza addentrarci nei dettagli, il problema sta in quell’anomalia (quanto è determinante?), nelle cause di quella anomalia (possiamo davvero dire con tanta certezza che è colpa dell’agricoltura o c’è qualcos’altro che ci sfugge?) e nella portata dei cambiamenti climatici che descrive (oggi sappiamo che alle grandi pandemie della storia sono seguiti veloci rimboschimenti in tutto il pianeta, quando i campi abbandonati si riempivano di nuovo di vegetazione e di alberi, e che questo ha effettivamente alterato il clima, ogni volta, per qualche anno, portando a temperature più basse: ma il salto che da qui ci dovrebbe portare a dire che l’agricoltura ha evitato una glaciazione è ancora rischioso).

C’è una citazione che mi diverte molto, l’ho letta da Paolo Nori, è di uno scrittore russo che si chiama Vladimir Šinkarëv e dice: «Quando penso che la birra è fatta di atomi, mi passa la voglia di bere». Ecco, questa frase riassume il disagio diffuso nei confronti della scienza, inquietudine che in parte vivo anche io. Eppure, dopo tanto tempo ho capito alla fine che la birra non perde la sua qualità magica neanche a raccontarla così. Anzi, tutto il mondo è fatto di atomi e viene voglia di viverlo, di esplorarlo e parlarne, e di conoscere persone. L’idea che si possa razionalizzare l’incanto è un fastidio, ma è solo un effetto collaterale della vertigine della conoscenza.

Spesso la scienza è antipatica perché chi la racconta ha dei tic dittatoriali, io parlo e tu impari. La storia delle ricerche di Ruddiman, invece, è un appunto utile, qualcosa da tenere a mente per capire meglio che cos’è la ricerca scientifica: un edificio complesso, che a volte può sembrare monolitico, ma che si posa invece sul terreno del dubbio; che è costituito di questioni minuziose e contorte, spesso noiose, e in cui raramente si intravede l’arcobaleno di meraviglia e stupore venduto spesso dalla divulgazione.
Proprio dopo aver letto L’aratro, la peste e il petrolio di Ruddiman, ho iniziato L’albero intricato di David Quammen. Dopo qualche pagina c’è scritto:

La scienza stessa, per quanto precisa e oggettiva, è un’attività umana. È un modo non soltanto di conoscere, ma di interrogarsi. È un processo, non un corpo di fatti o di leggi. Come la musica, la poesia, il baseball e le partite a scacchi dei grandi maestri, è qualcosa di meravigliosamente imperfetto fatto dalle persone, su cui si riconoscono dappertutto le impronte sbavate della nostra umanità.

Il fatto è che di dubbi, sull’origine antropica della crisi climatica, oggi non ce ne sono. E non ce ne sono da ormai tanto tempo. Non scrivo questo libro per fornire le prove, si trovano già in migliaia di articoli scientifici e di saggi. Non solo tra gli scienziati, ma anche nel pubblico più vasto, da più di trent’anni vengono ripetute le stesse cose, gli stessi allarmi, con un grado di precisione sempre più elevato e una crescente urgenza, discorsi accolti da trent’anni con lo stesso scetticismo e stupore, e poi immediatamente rimossi con la stessa velocità.

(…)

Abbiamo dovuto «scoprire» la CO2. Stiamo ancora cercando di darle un significato, di capire che peso ha all’interno del modo contraddittorio e ingiusto con cui viviamo il pianeta. Studiare il passato è fondamentale, ma ancora più urgente sarebbe capire come possiamo influenzare il futuro. Come cambiare prospettiva, sguardo. Mentre l’aria si riscalda, restare lucidi sarà sempre più difficile.

© Matteo De Giuli, Nicolò Porcelluzzi
© NERO, 2021