I dilemmi della destra dopo le amministrative

Le tante sonore sconfitte non hanno un'unica spiegazione, e le decisioni dei prossimi mesi di Salvini e Meloni non saranno facili

(Mauro Scrobogna /LaPresse)
(Mauro Scrobogna /LaPresse)

Dopo la sostanziale scomparsa del Movimento 5 Stelle al primo turno delle amministrative, è stata la coalizione della destra a uscire sconfitta dai ballottaggi: complessivamente, il centrosinistra ha vinto in 15 dei 20 capoluoghi di provincia e regione in cui si è votato, in quattro casi in città dove prima governava qualcun altro, e comprese le cinque più importanti in cui ha staccato nettamente i candidati avversari.

A uscire male dalle amministrative sono, per motivi e con modalità diverse, sia la Lega di Matteo Salvini che Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, i due partiti più forti e importanti del centrodestra. E curiosamente chi ha ottenuto le uniche vittorie è Forza Italia, che aveva espresso il nuovo presidente della Calabria Roberto Occhiuto e il sindaco di Trieste, unico capoluogo di regione vinto dalla coalizione, Roberto Dipiazza.

Tra i leader del centrodestra, un certo consenso sulle ragioni delle sconfitte sembra riguardare la scelta dei candidati, che in molti casi erano sconosciuti fino a pochi mesi fa e si sono rivelati inadeguati a campagne elettorali di alto profilo.

Ma se questo era emerso da tempo, il bilancio finale delle amministrative ha suggerito, come ha ammesso Meloni, che la scelta di candidare quasi esclusivamente persone esterne alla politica – Enrico Michetti a Roma, Luca Bernardo a Milano, Paolo Damilano a Torino, Fabio Battistini a Bologna, e anche Catello Maresca a Napoli – non abbia affatto pagato. L’unico sindaco eletto dal centrodestra nei capoluoghi, Dipiazza, è infatti un navigato politico al suo quarto mandato.

Allo stesso modo, quasi tutti i neo sindaci del centrosinistra sono politici: l’ex ministro e nuovo sindaco di Roma Roberto Gualtieri, il sindaco uscente di Milano Beppe Sala, i consiglieri comunali Stefano Lo Russo (nuovo sindaco di Torino) e Matteo Lepore (di Bologna). Gaetano Manfredi, eletto a Napoli, è invece un accademico, per quanto abbia già fatto il ministro.

Allo stesso tempo, c’è il rischio di attribuire eccessiva rilevanza ai risultati di queste amministrative, a cui ha partecipato una minoranza degli elettori. A livello nazionale l’affluenza è stata sotto al 44% (nel 2016 era stata del 50,5%), e per esempio a Roma di meno del 41%. Significa che a votare per Gualtieri sono state 565mila persone sulle circa 2,3 milioni che ne avevano diritto: 3 romani su 4, insomma, non hanno votato per lui.

La scarsa partecipazione è tra gli aspetti più commentati di queste elezioni, ed è stata abbondantemente usata dai leader di destra come spiegazione e giustificazione per la sconfitta. In realtà, comunque, i flussi elettorali mostrano come a perdere numericamente voti siano stati proprio i candidati del centrodestra.

Ma ci sono diverse altre questioni. Meloni ha constatato favorevolmente che in Italia si sta tornando a un sistema “bipolare”, che vede cioè contrapposte due sole coalizioni invece di tre, come era successo negli ultimi dieci anni: da una parte il Partito Democratico, gli altri partiti più piccoli di centrosinistra e sinistra e il Movimento 5 Stelle; dall’altra il centrodestra. Se la prima coalizione è molto eterogenea e avrà probabilmente seri problemi di convivenza, gli ultimi mesi hanno fatto emergere dei dubbi importanti anche sulla tenuta del centrodestra, che fino a qualche tempo fa sembrava piuttosto forte e compatto.

La prima questione è la rivalità e lo scontro per la leadership tra Meloni e Salvini, che da tempo sembrava destinato a risolversi con un’affermazione della prima, più forte nei sondaggi e con maggiore inerzia politica.

Nonostante i grandi risultati nei sondaggi, però, Meloni non ha mai ottenuto una vittoria elettorale e la disfatta del suo candidato a Roma, Michetti, ha un po’ ridimensionato il suo potere contrattuale. L’assalto neofascista alla CGIL di Roma poi ha messo in difficoltà lei e altri dirigenti del partito, da tempo accusati di avere legami o perlomeno di tollerare l’estremismo di destra nelle espressioni locali del partito. Proponendosi come leader della coalizione, Meloni sta cercando da tempo di darsi un profilo più istituzionale, ma il concentrarsi del dibattito sul problema dei gruppi neofascisti e le loro violenze e infiltrazioni nella politica non l’hanno aiutata.

Salvini, che fino a un paio di anni fa non sembrava poter essere messo in discussione come leader della destra, ha iniziato a perdere rilevanza con la caduta del primo governo Conte e poi con la pandemia. Da allora ha evidentemente faticato a dare coerenza e unità al partito e alla sua strategia politica, come dimostra la sua ambigua permanenza nel governo Draghi, che contesta e critica quotidianamente sulle norme per contrastare la pandemia, votando spesso contro, ma continua in realtà a sostenere.

Salvini non sembra essere riuscito a conciliare la parte del partito più sovranista, euroscettica e radicale, e quella più moderata e istituzionale, rappresentata da Giancarlo Giorgetti e da presidenti di Regione come Luca Zaia e Attilio Fontana, considerata più vicina all’influente bacino di voti degli imprenditori del Nord Italia.

È difficile prevedere come si risolverà questa situazione. Le previsioni di una divisione con Forza Italia e la parte moderata della Lega da una parte, e il resto del partito di Salvini e Fratelli d’Italia dall’altro, non sembrano in realtà corroborate da elementi concreti. Non risolverebbe peraltro la rivalità tra Salvini e Meloni. Ma si porrà probabilmente nelle prossime settimane la questione della permanenza nel governo della Lega, che dopo le manifestazioni e le discussioni sull’obbligo del Green Pass sul luogo di lavoro sembra sempre più isolata e estranea alla linea politica di Draghi.

C’è comunque una scadenza piuttosto ravvicinata entro la quale la destra dovrà decidere che strategia seguire, e cioè l’elezione del prossimo presidente della Repubblica prevista per metà gennaio.

Secondo gli analisti politici, la posizione attuale di forza del centrosinistra potrebbe aiutare il segretario del Partito Democratico Enrico Letta in quella che in tanti sostengono sia la sua strategia: favorire la permanenza di Draghi come capo del governo fino alla fine della legislatura, nel 2023: eleggendo quindi qualcun altro come presidente della Repubblica tra tre mesi. La destra era abbastanza esplicitamente contraria a quest’ipotesi, e sembrava intenzionata a proporre di eleggere Draghi al Quirinale già a gennaio per poi andare a elezioni anticipate. Ma gli ultimi risultati potrebbero aver cambiato le cose, ridimensionando le ambizioni elettorali più immediate di Lega e Fratelli d’Italia.