Cosa faceva ridere i Romani

Alcuni meccanismi delle commedie latine sono invecchiati – hanno duemila anni, del resto – ma altri sono ancora rintracciabili nella comicità contemporanea

Ricostruire il senso dell’umorismo di un certo popolo e di un certo periodo storico è spesso quasi impossibile: o perché mancano elementi di contesto per cogliere le battute oppure perché, più banalmente, sono arrivati fino a noi pochissimi testi originali. Gli antichi Romani sono un’eccezione: abbiamo un’idea piuttosto precisa di come si viveva a Roma, e soprattutto sono state conservate decine di commedie degli autori più apprezzati.

Un recente articolo su Antigone, una rivista online che si occupa di letteratura greca e latina, ha messo in relazione il senso dell’umorismo di allora con il nostro, evidenziando differenze e similitudini. L’articolo di Antigone è stato scritto da Orlando Gibbs, ricercatore del Trinity College di Cambridge specializzato nelle commedie latine.

Le commedie di cui si occupa Gibbs sono state scritte fra il Terzo e il Secondo secolo a.C., quando Roma era ancora una Repubblica, dai due più famosi commediografi latini, Plauto e Terenzio. Queste commedie hanno alcune caratteristiche precise che le rendono uniche, come ad esempio il fatto che venissero recitate in strada o in teatri provvisori in legno, che fossero frequentate da tutte le classi sociali, e che fossero perlopiù ambientate in Grecia, dato che la commedia veniva percepita come un genere di derivazione greca.

Ma per il resto, osserva Gibbs, i meccanismi comici che funzionavano allora sono comprensibili anche da noi, sebbene risultino un po’ triti (dopotutto, hanno più di duemila anni). Gibbs ne ha individuati quattro che possiamo ritrovare anche nelle rappresentazioni comiche di oggi.

Il primo, ben noto a chi ha studiato a un certo punto del suo percorso scolastico la letteratura latina, è quello dei personaggi stereotipati. Il pubblico romano non era sommerso di prodotti culturali e artistici come lo spettatore contemporaneo, e per essere intrattenuto aveva bisogno di riferimenti certi: in moltissime commedie, dice Gibbs, erano presenti personaggi con connotazioni molto evidenti come «il soldato arrogante ma incompetente, l’untuoso arrampicatore sociale, la prostituta meschina, il servo astuto, il vecchio senza senso dell’umorismo», e così via.

Personaggi stereotipati, anche se di genere diverso, si possono trovare anche nelle fiabe che raccontiamo ancora oggi ai bambini: molte seguono per esempio lo schema individuato dall’antropologo russo Vladimir Propp e prevedono personaggi come l’aiutante, la principessa-premio, il donatore, il falso eroe.

Alcuni personaggi stereotipati dei romani sono comunque giunti fino a noi: la figura del servo astuto o servus callidus, che trama contro l’anziano padrone e spesso parteggia con i più giovani, è sovrapponibile a quella di Iago nei drammi di William Shakespeare o più di recente a quella dell’elfo domestico Dobby nella saga di Harry Potter.

Nell’antica Roma come oggi, poi, le caratteristiche dei personaggi sono esplicitate anche nei loro nomi. In Plauto troviamo decine di personaggi dai nomi “parlanti” come il protagonista del Soldato fanfarone, Pyrgopolinicesche in greco si può tradurre con “distruttore di città”. Ancora oggi esistono tantissimi nomi parlanti nella cultura popolare. Il protagonista del cartone animato dei Pokemon, per esempio, si chiama Ash Ketchum: il suo cognome richiama il verbo inglese catch, “catturare”, cioè l’azione più famosa riconducibile ai Pokemon, seguita da una sillaba che si pronuncia in modo simile a ‘em, cioè loro, il complemento oggetto. A volte il nome parlante prende in giro una caratteristica fisica del personaggio: nell’Eunuco di Terenzio uno dei personaggi si chiama Gnatho, letteralmente “mascellone”.

Il secondo meccanismo comico sopravvissuto fino ad oggi è lo schema che prevede una frase spiazzante, una pausa, e la spiegazione – inconsueta e perciò buffa – della frase spiazzante.

In una delle prime commedie di Plauto il giovane innamorato Charinus si rivolge al pubblico e dice: musca est meus pater, “mio padre è come una mosca”; nil clam illum potest haberi, “non gli puoi nascondere niente”. Ancora oggi è l’impianto tipico delle barzellette più comuni, come per esempio tutte quelle che iniziano con “Qual è il colmo per…?”: al protagonista succede o dice qualcosa di inaspettato, il narratore fa una pausa, e poi fornisce una spiegazione buffa.

Il terzo meccanismo è quello che Gibbs chiama “il gioco”, cioè una situazione prolungata in cui succede qualcosa di incongruo e che viene risolta nel finale.

Nella Gomena di Plauto a un certo punto c’è uno schiavo che risponde svogliatamente licet, “okay”, a ogni richiesta del padrone, che gli chiede se davvero risponde così a ogni sua richiesta. A quel punto lo schiavo rivolge una serie di domande puntuali al padrone, il quale anche lui risponde sempre licet, e lo schiavo gli domanda: “davvero rispondi sempre così?”.

Il “gioco” può prendere diverse forme, anche se solitamente si basa sul dialogo fra due personaggi e alcune ripetizioni: in una scena del film Tre uomini e una gamba di Aldo, Giovanni e Giacomo, per esempio, un medico se la prende con Aldo perché prova più volte a fare una diagnosi del malore capitato a Giacomo senza essere un medico; alla fine, però, la diagnosi del medico sarà identica a quella fornita da Aldo.

Il quarto meccanismo è forse quello più contemporaneo, e prevede la cosiddetta “rottura della quarta parete”: cioè quell’espediente per cui uno dei personaggi interrompe la finzione della scena e si rivolge direttamente al pubblico, uscendo dalla narrazione e prendendone le distanza, cosa che gli consente di scherzarci sopra.

Nelle commedie latine succedeva più volte, e nella maggior parte dei casi l’intera narrazione era descritta e anticipata da un prologo recitato da un personaggio: Gibbs spiega che probabilmente lo si deve al fatto che prima dei tempi di Plauto e Terenzio le commedie venivano improvvisate dagli attori, che si limitavano a seguire un canovaccio. In un contesto del genere, in equilibrio fra rappresentazione e realtà, rompere la quarta parete era un espediente come un altro per fare ridere.

Oggi è uno dei meccanismi principali della stand-up comedy, in cui i comici parlano in piedi e da soli davanti a un pubblico scherzando spesso sulla propria condizione e la propria performance, come se la stessero commentando. Ogni tanto capita di vederlo anche nelle serie tv comiche: la protagonista di Fleabag, per esempio, parla spessissimo verso la telecamera rivolgendosi allo spettatore.

Una differenza notevole fra la comicità di allora e quella di oggi è che ai tempi dei Romani le commedie venivano organizzate e sovvenzionate dall’aristocrazia, dominata da uomini e protettrice dello status quo della società: per questo nelle commedie non esiste o quasi traccia di pensieri radicali, e gli espedienti comici normalizzano situazioni che oggi troviamo soltanto nella comicità di natura conservatrice, come l’oggettivazione della donna o l’insulto razzista. Filtrando tutto questo, però, molti elementi essenziali della comicità, allora come oggi, rimangono simili.