Giusy Vitale, prima donna di mafia

Prima a guidare un gruppo mafioso e prima a essere collaboratrice di giustizia: è stata arrestata ieri in una grossa operazione di polizia

Giuseppa (Giusy) Vitale, in una foto del 26 giugno 1998 (ANSA/FRANCO LANNINO)
Giuseppa (Giusy) Vitale, in una foto del 26 giugno 1998 (ANSA/FRANCO LANNINO)

Nell’operazione antimafia che lunedì 5 luglio ha portato a Palermo all’arresto di 85 persone, spicca soprattutto un nome, quello di Giusy Vitale, già arrestata alla fine degli anni Novanta come capo del mandamento mafioso (cioè della zona di influenza) di Partinico (Palermo), poi diventata collaboratrice di giustizia. E che ora, secondo i carabinieri del Comando provinciale di Palermo e la Direzione Investigativa Antimafia, sarebbe tornata a essere capo della sua famiglia. Assieme agli altri arrestati è accusata di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico di droga, reati in materia di armi, estorsione e corruzione.

Secondo le indagini, la famiglia di Partinico, alleata anche se in modo precario con altre famiglie palermitane (gli scontri tra famiglie sono continui, tanto che i carabinieri palermitani temono che si sia alla vigilia di una nuova guerra di mafia), faceva arrivare la cocaina in Sicilia grazie all’accordo con fornitori della ‘ndrangheta e del clan laziale dei Casamonica. Nell’inchiesta è stata coinvolta anche una guardia carceraria in servizio nel carcere Pagliarelli di Palermo che aiutava i boss detenuti a comunicare con l’esterno. In cambio – ed è agli atti nel mandato di arresto – riceveva formaggi, carne, vestiti, benzina a metà prezzo e il lavaggio gratuito dell’auto ogni volta che lo chiedeva.

Ma è, appunto, quello di Giusy Vitale il nome importante di questa inchiesta. Perché, come capo di una famiglia mafiosa, è rappresentante, assieme ad altre, di un cambio storico ormai avvenuto nelle organizzazioni criminali, mafia e ‘ndrangheta soprattutto (nella Camorra le donne avevano ruolo di leadership già prima). Le donne non sono più relegate al ruolo di postine tra carcerati e affiliati in libertà. Né sono solo madri che educano i figli “all’omertà mafiosa”. E non sono più neppure semplici protagoniste di accordi tra clan.

Un tempo, dopo scontri e guerre tra famiglie mafiose, si celebravano matrimoni che sancivano la pace: le donne, come avveniva tra le dinastie reali, avevano il compito di riappacificare famiglie rivali. Ombretta Ingrascì, autrice di libri sul ruolo delle donne nelle organizzazioni criminali, descriveva così il fenomeno: «Il sangue della sposa durante la prima notte di nozze, rappresentando la giusta restituzione del sangue versato nel corso della guerra, sancisce la fine della faida».

Fino alla fine degli anni Novanta le donne di mafia furono solo fedeli compagne dei mariti capi. Rosaria Castellana, moglie di Michele Greco, detto “il papa”, disse di non sapere nulla delle attività del marito: «La mia vita trascorre tra casa e chiesa». E Antonietta Brusca, moglie di Giovanni Brusca, uno degli autori dell’attentato a Giovanni Falcone, poi pentito e ora libero, quando arrestarono il figlio disse «di averlo educato nel timore di Dio».

Anche la magistratura era abituata a considerare le donne solo come eventuali aiuti dei capi maschi. Così nel 1983, quando assieme al celebre mafioso Giovanni Bontade vennero processate la sorella Rosa, Epifania Lo Presti e Francesca Battaglia, sorella e moglie di un mafioso di Bagheria, il Tribunale di Palermo accolse la richiesta di soggiorno obbligato solo per l’uomo. Disse il giudice Michele Mezzatesta: «Troppo lontane per ideologia, mentalità e costumanza sono le cosiddette “donne di mafia” dalle “terroriste” (le donne coinvolte nella lotta armata delle Brigate Rosse e di altri gruppi di estrema sinistra, ndr) che purtroppo hanno avuto un ruolo di attiva partecipazione alle bande armate che tuttora attentano alla sicurezza dello Stato e all’ordine democratico».

Giusy Vitale sancì invece il cambiamento del ruolo delle donne all’interno dei clan mafiosi. Nel 1998 fu la prima donna condannata per associazione mafiosa. E nel 2005 fu la prima donna di mafia a diventare collaboratrice di giustizia. Nacque a Partinico, poco più di 40 chilometri da Palermo. Da piccola faceva la “postina”, recuperava messaggi dai latitanti e li consegnava poi ai suoi fratelli. Disse, durante un interrogatorio: «Non potevo assolutamente avere nessuna relazione con ragazzi della mia età, vivevo solo in mezzo ai grandi. Mio fratello Leonardo, di quattro anni più grande mi fece anche lasciare la scuola perché non voleva che parlassi con nessuno».

Di cosa faceva la sua famiglia sapeva tutto, imparava tutto. Quando i suoi due fratelli divennero latitanti e poi vennero arrestati fu abbastanza naturale che il comando passasse a lei. Doveva essere un comando temporaneo ma non fu così.

Giusy Vitale, come le altre donne, non poteva partecipare alle riunioni dei capi perché le donne ne erano escluse e non poteva neanche essere affiliata ufficialmente. Però chiese incontri ai boss di Corleone, a Giovanni Brusca e soprattutto a Leoluca Bagarella. Si fece conoscere e dimostrò di saper portare avanti gli affari. Gli introiti della famiglia, dovuti soprattutto al traffico di stupefacenti, aumentarono. Gli investigatori di Palermo iniziarono a capire che Vitale rappresentava qualcosa di nuovo nel mondo mafioso.

La arrestarono quasi subito, pochi mesi dopo aver assunto il comando. Rilasciata nel 2002 fu arrestata di nuovo nel 2003 per aver ordinato a suo marito, Angelo Caleca, di uccidere il membro di un clan rivale. Divenne collaboratrice di giustizia nel 2005. Suo fratello Leonardo disse: «Ho saputo che una mia ex consanguinea sta collaborando. Noi la rinneghiamo sia da viva che da morta e speriamo che lo sia al più presto». Lei spiegò che aveva deciso di collaborare dopo una visita di suo figlio, allora di sei anni. Disse: «Voglio essere una madre, crescere bene i miei figli». Uscita dal carcere chiese il divorzio, nel frattempo si era legata a un altro collaboratore di giustizia.

Dopo Giusy Vitale altri nomi di donne si sono imposti all’attenzione degli investigatori. Maria Rosa Campagna, moglie di Turi Cappello, boss catanese, fu arrestata nel 2017 perché gestiva l’importazione in Sicilia di centinaia di chili di cocaina all’anno dalla Colombia. Patrizia Messina Denaro, sorella del latitante più ricercato in Italia, condannata a 14 anni di carcere, era il capo riconosciuto del clan di Castelvetrano. Maria Angela Di Trapani guidava invece il mandamento mafioso palermitano di Resuttana. Nelle intercettazioni gli uomini del clan la chiamavano solo «la padrona». L’elenco potrebbe continuare a lungo.

Un’indagine del 2019 di Transcrime, centro interuniversitario dell’Università Cattolica di Milano, ha calcolato che un terzo degli azionisti di società confiscate alle mafie è donna: un’incidenza che è quasi il doppio della media delle aziende italiane nell’economia legale.

Giusy Vitale, secondo i giornali, aveva abbandonato la vita da mafiosa. Le cronache dicevano che aveva lasciato la Sicilia assieme ai suoi figli per rifarsi una vita lontano dall’organizzazione criminale. Fino a due giorni fa quando, secondo l’accusa, è stata arrestata per essere tornata a capo del suo mandamento, occupata a dare ordini agli uomini della sua famiglia.