Che deve fare un rettore

«Succede, mettiamo, che un docente della loro università, un docente già parecchio chiacchierato, posti su Twitter una foto di Hitler con un commento simpatetico; oppure che su Facebook o su Twitter o su Instagram un altro docente parli male del Presidente della Repubblica, o degli ebrei, o delle donne»

(Al Drago/Getty Images)
(Al Drago/Getty Images)

Succederà ancora, è inevitabile, quindi forse ha senso riflettere pacatamente sulla cosa.
I rettori delle università italiane bisogna capirli. Vengono eletti da colleghi, personale tecnico-amministrativo, studenti: in qualche modo devono rendere conto a loro. Ma soprattutto devono rendere conto a un consiglio d’amministrazione, al Senato accademico, alla Consulta dei Direttori. E poi anche un po’ al potere politico locale, ai giornali, al “popolo del web”. Succede, mettiamo, che un docente della loro università, un docente già parecchio chiacchierato, posti su Twitter una foto di Hitler con un commento simpatetico; oppure che su Facebook o su Twitter o su Instagram un altro docente parli male del Presidente della Repubblica, o degli ebrei, o delle donne; oppure che un altro docente in una conversazione su Zoom sbraiti che Giorgia Meloni è una scrofa, una rana dalla bocca larga, e altro turpiloquio; oppure che un altro docente metta in circolo una foto scattata in una libreria Feltrinelli in cui il libro di Giorgia Meloni è girato a testa in giù, con allusione a Mussolini a Piazzale Loreto; eccetera.

Succede questo: gradi diversi di inopportunità e di maleducazione, ma resi simili dal fatto che l’inopportuno-maleducato non è un cittadino qualsiasi ma un docente universitario. Dopodiché i social network si riempiono di messaggi di protesta, i messaggi arrivano ai siti dei quotidiani, poi in TV, poi cominciano ad arrivare le email allarmate e indignate dei colleghi. Insomma, gli offesi sono tanti, sono rumorosi, e poi – cosa che toglie ogni dubbio anche al più cauto, al più liberale dei rettori – hanno ovviamente ragione: non si postano foto di Hitler con commenti simpatetici, non si parla male degli ebrei, non si dà della scrofa a una parlamentare, non… Dall’altra parte, il docente gaffeur è solo, è un maschio di una certa età (il dettaglio non è un dettaglio) che ha un problema di gestione della rabbia ma che soprattutto non ha capito bene come funziona la comunicazione in rete, è rimasto indietro rispetto ai tempi, e infatti poi quando capisce in quale ginepraio si è cacciato si profonde in scuse; ma anche considerato tutto questo ha ovviamente torto, perché non si postano foto di Hitler con commenti simpatetici, non si parla male degli ebrei, non… Soprattutto se si insegna all’università.

Bisogna capirli, i rettori, se reagiscono con prese di distanze, censure, richiami, e poi – dopo un rapido processo – con misure più serie come la sospensione dello stipendio, la minaccia del licenziamento se succedesse ancora, l’invito a tacere di qui al pensionamento che del resto si cercherà di accelerare, per la soddisfazione del consiglio d’amministrazione e di molti colleghi. Bisogna capirli anche per un’altra ragione forse meno evidente a chi non lavora nell’università, e cioè che l’università è anche ormai un’azienda di medie o grandi dimensioni, che deve attirare studenti e bravi ricercatori, perché studenti e bravi ricercatori portano con sé finanziamenti, e si capisce che ogni università – producendo quella cosa difficilmente misurabile che è la conoscenza – gioca le sue carte soprattutto sul piano della reputazione, e le gaffe dei suoi docenti minacciano di danneggiarla, questa reputazione, e insomma – se si preferisce usare il gergo aziendale, che del resto aderisce benissimo alla situazione – minacciano di indebolire il brand.

Ma capirli non significa approvarli. In occasioni del genere i rettori dovrebbero invece fare molto poco, forse addirittura niente. Non perché le gaffe o le sciocchezze commesse dai loro docenti non possano danneggiare la reputazione delle rispettive università: la danneggiano (anche se molto meno di quanto si pensa, dato che, con i ritmi della comunicazione in rete, ciò che viene a galla oggi torna a fondo domani, e niente si perdona ma tutto si dimentica); ma perché il loro dovere non è quello di proteggere il brand o di tutelare, come si dice, gli stakeholder dell’università. Il loro dovere consiste nel sorvegliare il comportamento dei docenti all’interno dell’università: la didattica, la ricerca, la partecipazione alla vita accademica, la correttezza nei rapporti con i colleghi, gli studenti, il personale tecnico-amministrativo. All’esterno dell’università – sempre che non abusi del suo ruolo e si metta a parlare a nome dell’università stessa – il docente è un cittadino come gli altri, e ha diritto di esprimere le sue opinioni, quali che esse siano, entro i limiti della legalità. Questo principio è stato ben espresso dalla rettrice di Ca’ Foscari, che ha dovuto reagire all’ultimo piccolo scandalo (diffusione da parte di un docente dell’università di una foto scattata in una libreria Feltrinelli con i libri di Giorgia Meloni a testa in giù): «informata dell’uscita del post da parte di un docente, pubblicato a mero titolo personale», la rettrice «si dissocia dallo stesso, fermo restando il valore irrinunciabile della libertà di espressione che ha rango costituzionale nel nostro Paese ed è ribadita nello statuto dell’Università».

Esattamente. Solo che non si capisce bene per quale ragione l’istituzione, attraverso la sua rettrice, si senta in dovere di esplicitare la propria volontà di dissociarsi da quella che è con ogni evidenza, appunto, un’opinione espressa «a mero titolo personale», e poco dopo deplori lo «sgradevole incidente, provocato da un’iniziativa del tutto individuale dalla quale Ca’ Foscari prende le distanze», e aggiunga che «l’Ateneo si riserva di valutare tutti i passi necessari a fare chiarezza sull’accaduto»: posto che l’accaduto è già sufficientemente chiaro. O meglio, questo zelo nella dissociazione si capisce benissimo alla luce di quanto ho detto sopra: che le sciocchezze dei docenti stingono, tanto o poco, anche sull’immagine dell’università: e l’immagine vale, l’immagine costa.

E tuttavia, qui come in altri ambiti dell’attività umana, bisogna tenere presente che esiste una legge più alta, e a me non dispiacerebbe che il prossimo rettore coinvolto in faccende del genere la ricordasse a chi l’ha dimenticata: «Il mio parere personale è che si tratta di parole, frasi, atteggiamenti deplorevoli, nella sostanza e nei modi. Come rettore non ho niente di rilevante da dire, perché quello che i docenti fanno al di fuori dall’università non mi riguarda. Sempre come rettore, so bene che la vicenda provocherà un piccolo danno reputazionale al nostro ateneo, ma preferisco sopportare in silenzio questo danno piuttosto che tradire una delle missioni fondamentali dell’università, che consiste nel proteggere la libertà delle opinioni, anche e soprattutto quando queste opinioni possano essere giudicate odiose».

Claudio Giunta
Claudio Giunta

Claudio Giunta (Torino, 1971) insegna Letteratura italiana all’Università di Trento, ed è uno specialista di letteratura medievale. Il suo ultimo libro è Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca

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