La storia dell’Operazione Salomone

30 anni fa, nel giro di due giorni, il Mossad trasferì 15mila ebrei etiopi in Israele, temendo che sarebbero stati perseguitati

Un gruppo di ebrei etiopi su uno degli aerei usati per l'operazione Salomone, 25 maggio 1991 (AP Photo/Jacqueline Arzt, File)
Un gruppo di ebrei etiopi su uno degli aerei usati per l'operazione Salomone, 25 maggio 1991 (AP Photo/Jacqueline Arzt, File)

Tra il 24 e il 25 maggio del 1991, trent’anni fa, 34 aerei militari e civili della compagnia di bandiera israeliana El Al riuscirono a portare in circa 36 ore quasi 15mila ebrei etiopi da Addis Abeba in Israele. L’operazione è conosciuta come “Operazione Salomone” e fu la terza di un vasto programma di salvataggio organizzato dal governo israeliano e gestito dal Mossad, il servizio segreto israeliano, per salvare la vasta comunità dei cosiddetti Beta Israel, che significa “Casa di Israele”.

Gli ebrei neri d’Etiopia
Sulle origini della comunità ebraica che un tempo viveva in Etiopia sono state fatte molte ipotesi, ma non ci sono certezze storiche sulla loro origine. Secondo diversi storici le prime notizie documentabili sulla comunità risalgono al 600-700 d.C. Diversi ebrei etiopi fanno risalire le proprie origini a un’epoca ancora precedente, ai tempi della distruzione del tempio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi nel 587 a.C. e alla conseguente diaspora del popolo ebraico.

Le persecuzioni degli ebrei etiopi da parte delle popolazioni vicine di religione musulmana e ortodossa cominciarono verso l’anno mille e proseguirono per diversi secoli. Dalla metà dell’Ottocento, grazie al contatto diretto con studiosi e rabbini, i Beta Israel – chiamati a lungo “falascia”, termine oggi sconsigliato perché ha acquisito connotazioni negative – cominciarono a capire di far parte di una ben più vasta comunità a cui poter fare riferimento; il mondo ebraico, anche se con qualche resistenza, conobbe allora la loro esistenza.

Cominciarono ricerche sulle origini del loro credo religioso e valutazioni sulla loro presunta “purezza”, e a lungo molti continuarono a non considerarli veri ebrei. Come risultato i Beta Israel furono esclusi dalle correnti principali dell’ebraismo. Fu in seguito alla costituzione dello stato d’Israele nel 1948 che le autorità israeliane decisero di riconoscerli come ebrei destinatari della Legge del ritorno, quella che garantisce a tutte le persone di religione ebraica di insediarsi in Israele e ottenere la cittadinanza.

La fuga dall’Etiopia di alcune famiglie di Beta Israel, attraverso il confine con il Sudan, cominciò all’inizio degli anni Settanta, a causa della situazione politica. Nel 1974 l’imperatore Hailè Selassiè fu deposto da un colpo di Stato organizzato da alcuni ufficiali dell’esercito sostenuti dall’Unione Sovietica. Nel 1977 il potere fu assunto dal colonnello Mènghistu Hailè Mariàm, che instaurò un regime dittatoriale organizzando una violenta repressione di tutti coloro che riteneva fossero suoi oppositori, compresi gli ebrei neri. La situazione si aggravò per le conseguenze di due carestie, alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta. Molti etiopi e molti ebrei etiopi abbandonarono il paese rifugiandosi nei campi profughi del Sudan, dove il governo musulmano però non si dimostrò accogliente.

La situazione spinse Israele a organizzare dei piani di salvataggio. Nacquero così l’operazione Mosè (tra il novembre del 1984 e il gennaio del 1985), l’operazione Saba (nel marzo del 1985, realizzata anche grazie ad alcuni aerei da trasporto statunitensi) e soprattutto, qualche anno dopo, l’Operazione Salomone.

L’Operazione Salomone
Nel 1989, con la caduta del muro di Berlino e l’inizio della fine dell’Unione Sovietica, gli equilibri politici cambiarono anche in Etiopia: il governo militare di ispirazione comunista al potere dal 1974 – che era stato sostituito nel 1987 da un governo civile formato da un partito unico, con Mènghistu ancora al potere – entrò in crisi. La paura che gli ebrei neri ancora presenti in Etiopia potessero diventare bersaglio di nuove violenze spinse il governo israeliano a predisporre un nuovo e ultimo piano di evacuazione.

All’inizio si cercò di organizzare l’operazione con l’autorizzazione delle autorità etiopi. Il governo israeliano prese contatti con Mènghistu, che diede il proprio consenso in cambio della fornitura di armi e munizioni. Il rilascio dei permessi per l’espatrio venne però continuamente rinviato, le richieste di Mènghistu e dei suoi sostenitori aumentarono fino a quando, nel maggio del 1991, la situazione precipitò e Mènghistu scappò dal paese. Per il timore che le forze di opposizione si vendicassero con i Beta Israel per il sostegno che Israele aveva dato a Mènghistu, il trasferimento venne organizzato nel giro di pochi giorni sotto la direzione del Mossad.

L’operazione Salomone cominciò il 24 maggio del 1991. Furono coinvolti 34 aerei, sia civili che militari. I Beta Israel furono radunati vicino all’aeroporto di Bole a Addis Abeba, praticamente senza bagagli, e gli aerei di linea vennero completamente svuotati di sedili e paratie. A ogni persona venne attaccato sulla fronte un adesivo con un numero progressivo, come identificazione provvisoria, e in circa 36 ore furono evacuati circa 14.500 ebrei etiopi. All’arrivo in Israele vennero nuovamente identificati, nutriti e vestiti. Il primo ministro israeliano di allora, Yitzhak Shamir, proclamò di aver «adempiuto a un obbligo morale».

Gli ebrei neri oggi
Molti degli israeliani di origine etiope che vivono oggi in Israele, circa 150mila persone in tutto, non sono riusciti a integrarsi nella società israeliana, vivono in povertà e hanno difficoltà a trovare lavoro. Negli anni hanno subito ricorrenti violenze da parte della polizia, e ancora oggi sono vittime di razzismo.

C’è poi una componente della comunità dei Beta Israel la cui situazione è ancora più complicata: sono i Falash Mura – un termine utilizzato in origine come dispregiativo e che vuol dire “esiliati” – ovvero i discendenti di etiopi ebrei che oltre un secolo fa si convertirono al cristianesimo, spesso sotto la costrizione dei missionari europei. Da allora molti di loro hanno ricominciato a praticare l’ebraismo, ma per Israele non hanno mai potuto usufruire della Legge del ritorno.

Il governo israeliano non li riconosce come “completamente ebrei”: per migrare in Israele hanno bisogno di un permesso speciale e una volta entrati nel paese sono sottoposti a un processo di conversione, destinato anche a chi pratica già la religione ebraica. Nel 2015 Israele aveva approvato un piano per accogliere tutti i Falash Mura ancora in Etiopia, circa 10mila persone, entro la fine del 2020. Il piano era stato però sospeso qualche mese dopo, quando il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva annunciato che non c’erano soldi a sufficienza, e ad emigrare furono solo in 2mila.

Nell’ottobre del 2020 il governo israeliano aveva approvato un nuovo trasferimento in Israele di 2mila Falash Mura, degli 8mila che sono ancora in Etiopia. La misura, seppur considerata un primo passo per risolvere il problema, era stata criticata da molti attivisti israeliani etiopi, che vorrebbero che tutti i membri della comunità venissero accolti in Israele. I trasferimenti erano cominciati nel dicembre del 2020 e si erano conclusi nel marzo del 2021.