L’Italia ha un problema di obiettori di coscienza tra i ginecologi

La scelta dell'obiezione viene fatta sia per convinzioni etiche che per motivi professionali, ed è un grosso limite per il diritto all'aborto

di Domenico Riccio

Una manifestazione femminista per la Giornata internazionale della donna, l'8 marzo 2017, a Roma (Cosimo Martemucci/Pacific Press / ZUMA /ansa)
Una manifestazione femminista per la Giornata internazionale della donna, l'8 marzo 2017, a Roma (Cosimo Martemucci/Pacific Press / ZUMA /ansa)

La legge italiana garantisce il diritto all’aborto da più di quarant’anni, ma per alcune donne ancora oggi avere accesso agli interventi di interruzione volontaria di gravidanza è difficile. Basta guardare i dati dell’ultima Relazione del ministro della Salute sull’attuazione della legge 194/1978, aggiornata al 2018, per rendersene conto: il 69 per cento dei ginecologi italiani è obiettore di coscienza, cioè si rifiuta di praticare le interruzioni volontarie di gravidanza. In cinque regioni e nella provincia autonoma di Bolzano la percentuale arriva o supera l’80 per cento, fino ad arrivare al 92,3 per cento di ginecologi obiettori del Molise. Sono inoltre obiettori anche il 46,3 per cento degli anestesisti e il 42,2 per cento del personale sanitario non medico.

Queste percentuali sono la ragione per cui nel 35,1 per cento delle strutture con un reparto di ginecologia o ostetricia non è possibile accedere all’interruzione volontaria di gravidanza. Succede nonostante la legge 194 del 1978, quella che afferma il diritto all’aborto, vieti «l’obiezione di struttura», cioè stabilisca che il numero di medici obiettori di un ospedale non deve impedire che vi si pratichino interventi di interruzione volontaria di gravidanza.

È tuttavia sempre la legge 194 a prevedere la possibilità di non operare per i medici che sollevino obiezioni di coscienza. Questo aspetto della legge, già controverso all’epoca della sua approvazione, ha creato due problemi: da un lato ha limitato il diritto ad accedere all’interruzione volontaria di gravidanza, dall’altro ha reso più difficile per i medici non obiettori fare carriera.

Ci sono infatti vari motivi per cui i medici si dichiarano obiettori. Silvia De Zordo, antropologa ricercatrice all’Università di Barcellona, li ha analizzati in uno studio condotto tra il 2011 e il 2012 all’interno di quattro ospedali di Roma e Milano. Il più scontato è la fede religiosa e la convinzione che l’embrione sia una «forma di vita» da salvaguardare. Sia la religione cattolica, la più diffusa in Italia, che altri credi, considerano l’aborto una forma di omicidio e ci sono associazioni cattoliche che si impegnano per diffondere questa concezione e invitare il personale sanitario all’obiezione di coscienza.

Alcune hanno addirittura degli spazi, i cosiddetti “sportelli”, negli ospedali pubblici.

Una manifestazione contro l’aborto a Roma, il 19 maggio 2018 (Giuseppe Ciccia/Pacific Press via ZUMA/ANSA)

Ci sono però anche altre ragioni dietro la scelta dell’obiezione, che dipendono più dal funzionamento del sistema sanitario e dalle possibilità per i medici di fare carriera, e che secondo lo studio di De Zordo hanno un impatto maggiore delle convinzioni personali: «La maggioranza degli obiettori [intervistati per lo studio, ndr] non considerava l’aborto un crimine o un peccato, ma un problema sociale e di salute pubblica».

Alcuni medici ad esempio diventano obiettori per evitare di essere discriminati dai colleghi e da primari obiettori. Altri lo fanno perché gli interventi di interruzione di gravidanza sono operazioni poco complesse, di routine, e quindi sono considerate dai medici pratiche poco gratificanti.

Come spiega De Zordo: «Una volta che si impara a far bene un’aspirazione, fare interruzioni volontarie di gravidanza nel primo trimestre diventa effettivamente un lavoro molto semplice e monotono». Negli ospedali con molti obiettori peraltro, i medici che accettano di praticarle sono spesso costretti a farne un gran numero o a ridursi a fare solo quello per compensare al lavoro che non viene svolto dai colleghi obiettori. Questo fenomeno è evidente anche dai dati raccolti dal ministero: la media nazionale di interruzioni volontarie di gravidanza praticate dai medici non obiettori è di 1,2 a settimana, ma in alcune strutture questo numero può arrivare a 8, 9 e addirittura 14.

Anche dove gli obiettori sono meno, i primari – spesso maschi e obiettori – costringono i medici più giovani a trascorrere anni negli ambulatori dove si fanno le interruzioni di gravidanza, organizzando i turni di lavoro in modo che a loro venga assegnato questo tipo di operazione. Negli ospedali con un maggior numero di medici obiettori questo rischio è accentuato dal fatto che sono in pochi a praticare l’interruzione di gravidanza.

Si alimenta così un circolo vizioso: molti giovani ginecologi, per la paura di essere relegati a praticare solo interruzioni di gravidanza e vedere la propria carriera arenata in un ambulatorio, si dichiarano obiettori.

Un’altra motivazione è economica. In Italia l’interruzione volontaria di gravidanza è una delle poche pratiche che per la sanità pubblica non può essere intramoenia, cioè praticata in libera professione all’interno degli ambulatori degli ospedali, facendosi pagare dalle pazienti. Alcuni ginecologi obiettori hanno detto a De Zordo di dichiararsi obiettori solo perché la pratica dell’interruzione di gravidanza non è economicamente gratificante: se potessero portarla avanti negli ambulatori intramoenia non ricorrerebbero all’obiezione di coscienza.

Se le interruzioni volontarie di gravidanza si aggiungessero alle prestazioni sanitarie a pagamento ci sarebbero probabilmente ulteriori problemi di accesso per le donne che vogliono ricorrervi; secondo lo studio di De Zordo, tuttavia, degli incentivi economici potrebbero contribuire a ridurre le obiezioni.

«Con le percentuali di obiezioni osservate non è possibile garantire la piena applicazione della legge 194», disse nel 2019 a Wired Silvana Agatone, presidente della Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194/1978 (LAIGA). Agatone si riferiva in particolare all’articolo 9, «quello secondo cui gli enti ospedalieri devono poter essere in grado di offrire, a prescindere dalla possibilità di ricorrere all’obiezione di coscienza, gli interventi di interruzione di gravidanza».

Per rimediare, alcune aziende sanitarie locali e ospedali hanno provato a promuovere concorsi aperti solo a medici non obiettori, e in alcune regioni – Emilia-Romagna, Puglia e Lazio – si sono svolti. In altri casi questi concorsi sono stati ostacolati: i TAR della Liguria e della Campania ad esempio li hanno bloccati.

Per come è fatta la legge 194 e il sistema sanitario italiano, sono soprattutto le regioni e le aziende ospedaliere locali che dalle regioni dipendono a poter intervenire per rendere più accessibile l’interruzione volontaria di gravidanza. Ma possono anche complicare le cose per chi ha bisogno di questo servizio. Le associazioni e i movimenti che si occupano di diritti delle donne lo segnalano da tempo: alcune regioni guidate da coalizioni di destra stanno adottando metodi sempre più restrittivi riguardo all’interruzione volontaria di gravidanza.

Il 23 febbraio in Lombardia, regione guidata dalla Lega, è stata bloccata la legge d’iniziativa popolare “Aborto sicuro”, che avrebbe permesso un’applicazione effettiva della legge 194. Un mese prima, il consiglio regionale delle Marche, guidato da Fratelli d’Italia, aveva respinto una mozione di Manuela Bora del Partito Democratico che chiedeva di rispettare le linee guida della legge 194 sull’aborto farmacologico: di fatto oggi nella regione i consultori non possono somministrare la pillola abortiva (RU486).

Anche il Piemonte, guidato da Forza Italia, ha vietato l’uso della pillola RU486 all’interno dei consultori andando contro le linee guida nazionali dettate dal ministero della Salute, e addirittura finanziando e rafforzando l’ingresso delle associazioni anti-abortiste nei propri ospedali.

Una manifestazione in difesa del diritto all’aborto, Roma, 2 luglio 2020 (Spp-Jp/Sport Press Photo via ZUMA Press, ANSA)

In generale, il problema dell’accesso all’aborto riguarda alcune regioni e alcune città più di altre. I dati del ministero della Salute dicono che su 558 strutture pubbliche con un reparto di ostetricia e ginecologia, solo in 362 vengono effettuate interruzioni volontarie di gravidanza. Su base nazionale è il 64,9 per cento, nonostante la legge vieti l’obiezione di struttura. Se si scende nel locale, ci sono intere province e regioni dove accedere all’interruzione volontaria di gravidanza è complicatissimo, come nel caso della provincia autonoma di Bolzano o della Campania, dove le strutture in cui si pratica l’aborto sono meno del 30 per cento.

Le disparità a livello regionale possono essere enormi: in Molise la percentuali di medici obiettori è superiore al 92 per cento, mentre in Valle d’Aosta (la regione con la percentuale più bassa) è del 7,7 per cento. Questa disparità è contraria al principio di universalità dell’assistenza ed eguaglianza su cui nel 1978, lo stesso anno di approvazione della legge 194, fu fondato il Servizio sanitario nazionale.

Questo e gli altri articoli della sezione L’aborto in Italia sono un progetto del corso di giornalismo 2021 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.