Mai più, prima puntata

«Esiste un’intelligenza non novecentesca? La stiamo formando da qualche parte, in qualche scuola, in qualche azienda, in qualche centro sociale? Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con una rabbia pericolosa?»

(Carlos Alvarez/Getty Images)
(Carlos Alvarez/Getty Images)

(E di questa altra morte quando parliamo?, la morte strisciante, che non si vede. Non c’è Dpcm che ne tenga conto, non ci sono grafici quotidiani, ufficialmente non esiste. Però ogni giorno, da un anno, lei è lì: tutta la vita che non viviamo, per non rischiare di morire. Meno male che non la stiamo contando, che non la misuriamo in numeri: non riusciremmo a guardarli, dal disastro che racconterebbero, farebbero impallidire quelli già tragici della prima morte, gli unici che abbiamo la forza di guardare negli occhi. Contiamo i cuori che si fermano negli ospedali, ma non quelli che se ne vanno, che semplicemente se ne vanno.
E di questo commiato silenzioso, mansueto, collettivo, generale, vertiginoso, scandaloso, quando parliamo?
Adesso.

Ciò che sta succedendo è che umani capaci di vivere non lo fanno più. Non viaggiano, restano a casa, lavorano senza incontrarsi, non si toccano, non si occupano dei loro corpi, conservano pochissime amicizie e al massimo un amore; da tempo riservano al solo ambiente famigliare, notoriamente tossico, gesti come abbracciarsi, lasciarsi guardare in faccia, dividere il pane; disponendo di artisti capaci di generare emozione e bellezza, non li incontrano più; possiedono bellissime opere d’arte ma non le vanno a vedere, e musica raffinatissima che non vanno ad ascoltare; non mandano più i figli a scuola, e d’altronde neanche a fare sport, feste e gite; non escono dopo il tramonto, quando è festa si chiudono in casa. Stanno dimenticando, a furia di non farli, gesti che ritenevano importanti, o quanto meno graziosi: applaudire, urlare, andare lontano, insegnare girando tra i banchi, limonare con qualcuno per la prima volta, andare dai nonni, suonare uno strumento per un pubblico, discutere con gente di cui puoi sentire l’odore, ballare, fare una valigia, andare a sposarsi accompagnati da tutti quelli che ti vogliono bene, giocare a bowling, scambiarsi il segno della pace a Messa, uscire da casa senza sapere ancora dove andare, camminare in montagna, respirare nel buio di un cinema, tenere la mano a qualcuno che muore. Sistematicamente, e con grande determinazione, predicano la solitudine, la scelgono e la impongono, come valore supremo: lo fanno anche con coloro a cui non era destinata affatto, come i ragazzi, i malati e le persone felici. Completano questa grandiosa ritirata dal vivere facendo un uso massiccio e ipnotico di oggetti, i device digitali, che erano nati per moltiplicare l’esperienza e ora risultano utili a riassumerla in un ambiente igienizzato e sicuro. Per concludere: vivono appena.

Ufficialmente è una decisione lucida, razionale. Sorpresi da una pandemia, rinunciano a vivere per non morire. Ma non è così semplice, come l’ingorgo logico dovrebbe costringere a capire. Mi prendo la responsabilità di provare a descrivere la cosa in un altro modo: una certa ottusa razionalità meccanica si è a tal punto fissata sulla soluzione di un problema, da perdere di vista il quadro più complessivo della faccenda, vale a dire quel che chiamiamo il senso della vita. È già successo ripetutamente con le guerre del secolo scorso: l’ossessiva applicazione razionale alla soluzione di un problema (lì spesso era politico/sociale) portava regolarmente a un crollo del valore della vita umana e a una colossale mortificazione del diritto all’esperienza e alla felicità. È un errore che conosciamo, è generato dall’indugiare eccessivo su un frammento, nell’incapacità di avere uno sguardo generale, più alto, più dall’alto. Un deficit di intelligenza. Può portare a veri disastri quando si smetta di ascoltare la vibrazione del mondo, il suo respiro reale, e si finisca per fidarsi solo di quegli avatar che chiamiamo numeri. Di solito, quando ciò accade, ci si appella alla grande capacità che gli umani hanno di soffrire. Tatticamente è una mossa feroce, ma corretta. Detta un compito, inevitabile e giusto.

Così soffriamo, ubbidendo, di questo soffrire, ognuno a modo suo, in ordine sparso, ormai logorati, sempre meno lucidi. Di tanto in tanto troviamo sollievo nel pensare, nel ragionare, trovandovi una radura clemente, socchiusa in questo strano viaggio.)

Rimesse in sella dalla pandemia, le élites novecentesche se ne stanno ben salde ai tavoli di comando della cosa pubblica, dirigendo le operazioni strategiche contro il virus. Ancora una volta si stanno esibendo nel loro numero preferito: there is no alternative, il famoso TINA. Qualsiasi cosa decidano, la ragione per cui lo fanno è sempre la stessa: non c’è altra possibilità.
Ma è vero?

Per cercare un risposta, prendiamo un esempio circoscritto. Una decisione tra le altre. Chiudere le scuole. Mentre scrivo, ad esempio, in Piemonte, dove vivo, si sta decidendo di chiudere le scuole di ogni ordine e grado per le prossime tre settimane. Spiegazione: there is no alternative. Ma è vero? Più o meno credo di sapere la risposta: se costruisci la scuola in quel modo, se ti fidi di quella particolare comunità scientifica, se gestisci una Regione in quel modo, se disponi di un sistema sanitario fragile, se l’educazione ti sembra meno essenziale che la produzione del reddito, allora è vero: non c’è alternativa, devi chiudere.

E adesso concentriamoci su quel se.

La figura logica è chiara: se io sbaglio una serie di gesti, arriverà un momento in cui fare una cosa sbagliata sarà l’unica cosa giusta da fare. Traduciamola nel nostro contesto: quella che per brevità chiameremo intelligenza novecentesca non trova soluzioni che non siano obbligate perché quel che sta giocando è un suo finale di partita, la posizione dei pezzi è da tempo determinata da strategie decise nel secolo corso, i pezzi persi non si possono più recuperare, e la stessa postura mentale del giocatore non è adatta a giocare contro un avversario che, invece, muove con una tattica completamente nuova.

Risultato: there is no alternative.

Dato che la cosa porta inevitabilmente a enormi sofferenze collettive, in buona parte gratuite, diventa un gesto di necessaria rabbia sociale interrogarsi su un punto che ormai, per quel che capisco io, è diventato IL punto: esiste un’altra intelligenza, più adatta alle sfide che ci aspettano? Esiste un’intelligenza non novecentesca? La stiamo formando da qualche parte, in qualche scuola, in qualche azienda, in qualche centro sociale? Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con una rabbia pericolosa?
Tutte queste domande ne portano in grembo un’altra, istintiva, quasi naturale: non è che per caso l’intelligenza che stiamo cercando è in realtà sotto gli occhi di tutti, ha già preso il potere, e non è altro che quella che chiamiamo intelligenza digitale? Siamo quindi presi in trappola nella morsa tra Draghi e Zuckerberg? Is there any alternative?

Vorrei provare a scrivere un testo, su queste cose.
A puntate. Poche. Questa è la prima.

Alessandro Baricco
Alessandro Baricco

Alessandro Baricco è scrittore e fondatore della Scuola Holden di Torino. Inizia con questo articolo la sua collaborazione con il Post.

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