Una storia d’amore o di plagio

Com'è cambiata la vita di una giornalista di Bloomberg che si è innamorata di un imputato di cui seguiva il caso, «l'uomo più odiato d'America»

Martin Shkreli nell'agosto del 2017 a New York (Drew Angerer/Getty Images)
Martin Shkreli nell'agosto del 2017 a New York (Drew Angerer/Getty Images)

Nel luglio del 2018 Christie Smythe era una stimata giornalista di cronaca giudiziaria per Bloomberg News. Poi, in otto mesi, stravolse la sua vita: lasciò il lavoro, divorziò e dichiarò il suo amore a un uomo condannato a 7 anni di carcere, di cui aveva seguito il caso per lavoro, raccontandone per prima i crimini e l’arresto. Lui non era uno qualunque, bensì «l’uomo più odiato d’America», come lo aveva definito una volta BBC: Martin Shkreli, che oggi ha 37 anni come Smythe ed è noto anche come “Pharma Bro”. Era un imprenditore del settore farmaceutico, condannato per frode e diventato famoso per aver aumentato da 13 a 750 dollari il costo del Daraprim, un farmaco di cui aveva appena ottenuto la licenza, fondamentale contro alcune malattie parassitarie e usato anche dai malati di cancro e di AIDS.

La storia è stata raccontata domenica sul sito di Elle dalla giornalista Stephanie Clifford a partire da un’intervista con la stessa Smythe, ed è stata seguita con un certo clamore sui giornali e sui social network. Dopo la sua pubblicazione, infatti, Smythe si è dovuta difendere su Twitter dalle accuse di essere stata manipolata e dalla commiserazione dimostratale da molti commentatori: «Capisco che per molti sia difficile accettare che 1. Martin non sia uno psicopatico e 2. che una donna possa fare con la sua vita qualcosa che gli altri non approvano (senza conseguenze per loro). Ma va bene».

Smythe è cresciuta nella periferia di Kansas City, in Missouri, e fino alle superiori era una timida ragazzina di provincia «spaventata dal suono della sua stessa voce». Poi scoprì la passione per il giornalismo e tirò fuori una tempra indipendente e coraggiosa; studiò giornalismo alla University of Missouri e lavorò per due piccoli giornali.

Nel 2008 si trasferì a New York e nel 2012 venne assunta da Bloomberg per seguire le vicende giudiziarie del tribunale federale di Brooklyn. Era un lavoro stressante e altamente competitivo – il sito teneva il conto di quanti secondi i suoi giornalisti davano una notizia prima degli altri – ma Smythe reggeva e se la cavava bene. Anche la sua vita personale sembrava soddisfacente: nel 2014 sposò l’uomo che era il suo compagno da 5 anni, con cui condivideva «una perfetta piccola vita alla Brooklyn», come l’ha definita nell’intervista a Elle.

Mentre Smythe scalava la sua personale storia di successo nel giornalismo, Martin Shkreli ne imbastiva una più temeraria e controversa. Lui a Brooklyn ci era nato, nel 1983, da genitori albanesi che facevano i custodi scolastici. Aveva iniziato a lavorare nella finanza da giovanissimo e poco dopo i vent’anni aveva già aperto due fondi di investimento. In particolare nel 2009 aveva aperto il MSMB Capital Management, che in pochissimo tempo aveva perso 700mila dollari: a fine novembre 2010 il suo valore complessivo era di 700 dollari.

Shkreli però era riuscito a tenerlo nascosto, e nel 2011 aveva mentito a un investitore convincendolo a mettere un milione di dollari nel fondo; da allora continuò a oscurare il reale stato di salute del fondo e organizzò operazioni finanziarie per confondere le acque. Nel 2011 fondò Retrophin, un gruppo di aziende biotecnologiche con l’obiettivo di curare malattie rare, anche se alcuni lo accusano di aver utilizzato la società solo per coprire i buchi di MSMB. Nel 2014 il consiglio d’amministrazione di Retrophin votò per sostituire Shkreli, che si dimise e l’anno successivo fondò Turing Pharmaceuticals, un’azienda con obiettivi simili. Quando era amministratore delegato, gli impiegati di Retrophin erano incoraggiati a usare finti account Twitter per fare battute pesanti commentando il mercato azionario e incoraggiare la vendita di azioni a breve termine di altre società biotecnologiche.

Le storie di Smythe e Shkreli si intrecciarono all’inizio del 2015, quando una fonte raccontò alla giornalista che era in corso un’indagine contro di lui per frode azionaria. Smythe sapeva chi fosse, fece le sue ricerche, scrisse il suo articolo e poi gli telefonò, come da prassi: anziché il consueto «no comment», si sentì dire che «non ha alcuna idea di quel che sta dicendo», nello stile aggressivo e arrogante che Shkreli avrebbe dimostrato anche in futuro. Smythe decise comunque di pubblicare l’articolo e, per prima, diede notizia dell’indagine; la cosa non ebbe seguito, Shkreli era ancora uno sconosciuto.

Non lo fu più qualche mese dopo, dall’agosto del 2015, quando Shkreli acquistò la licenza del Daraprim e ne aumentò il prezzo. La notizia finì su tutti i giornali del mondo, Shkreli attirò su di sé i commenti degli allora candidati alle elezioni per la presidenza americana: la Democratica Hillary Clinton disse che la «manipolazione dei prezzi» era «scandalosa» e il Repubblicano Donald Trump lo definì un «moccioso viziato». Shkreli si difese dalla valanga di critiche su Twitter e con una diretta streaming piuttosto aggressivo. Qualche mese dopo fece di nuovo parlare di sé per aver comprato all’asta l’unica copia del disco Once Upon a Time dei Wu-Tang Clan, per 2 milioni di dollari. Shkreli disse di averlo fatto per avvicinare cantanti famosi interessati ad ascoltare il disco, e promise che se Trump fosse stato eletto lo avrebbe reso disponibile online, ma se avesse invece vinto Clinton lo avrebbe distrutto (dopo la vittoria di Trump condivise l’introduzione e una canzone).

A dicembre a Smythe arrivò la voce che Shkreli stava per essere arrestato, e capì che questa volta il suo articolo non sarebbe passato inosservato ma che si sarebbe scatenata «una schadenfreude di massa». Fu la prima, insieme alla collega Keri Geiger, a dare la notizia dell’arresto: «internet si accese», ricorda ora.

Shkreli venne rilasciato su pagamento di una cauzione di 5 milioni di dollari e si dimise anche da amministratore delegato della Turing Pharmaceuticals. Il mese dopo telefonò a Smythe per dirle che avrebbe dovuto darle ascolto ai tempi della loro prima telefonata. Se è vero che la loro è una storia di manipolazione, questo ne fu l’inizio. Smythe riuscì a strappargli un incontro quattro giorni dopo e portò con sé la telecamera nella speranza di fargli un ritratto a tutto tondo. Lui la accolse a casa sua in felpa nera e capelli unti e iniziò a mostrarle, con la richiesta che non li pubblicasse, i registri che mostravano che aveva ripagato tutti i suoi investitori: «si vedeva che era un tipo onesto, non dava l’idea di essere un truffatore».

Su ammissione della stessa Smythe, Shkreli «continuò a giocare con me per un po’» e, dopo averle promesso un’intervista televisiva, la concesse a un rivale. Lei, dovendo coprire il caso, continuò a tenere buoni rapporti con lui, che una sera le telefonò per dirle che voleva cambiare avvocato e chiederle chi gli consigliava. Smythe si sentì «lusingata», sembrava che lui non avesse nessun altro a cui rivolgersi, era «a pezzi e fragile, temetti che si sarebbe suicidato perché gli stavano succedendo tante cose tutte insieme». Dopo avergli consigliato un avvocato, Smythe riattaccò e si mise a scrivere un coccodrillo nel caso si fosse ucciso davvero.

Nella primavera del 2016 Smythe riuscì a fissare un nuovo incontro di persona, in un bar vicino alla casa di Shkreli. Lui ordinò un bicchiere di vino, lei fece lo stesso e iniziarono una chiacchierata da primo appuntamento: le raccontò della sua infanzia complicata, scoprirono che entrambi soffrivano d’ansia e constatarono di avere avuto successo, da outsider, in campi competitivi e spietati. Dopo quell’incontro incoraggiante e amichevole, Shkreli riprese il suo atteggiamento ambiguo: prometteva interviste, forniva mozziconi di prove, poi le ritirava e scompariva per settimane.

Nell’autunno del 2016 Smythe fu ammessa al prestigioso corso di giornalismo della Columbia University e durante il corso scrisse anche un articolo su come Shkreli manipolasse i giornalisti. Il suo insegnante, Michael Shapiro, ricorda che parlava in modo «piuttosto candido di come lui l’avesse attirata» e temeva che l’avesse fatto soltanto per farla sentire speciale e grata di aver scelto proprio lei. Smythe fece leggere l’articolo a Shkreli che la convinse a scrivere un libro su di lui, una specie di biografia che avrebbe mostrato la sua genialità imprenditoriale. Shapiro le fece notare che il loro era un rapporto ambiguo e la mise in guardia dallo scrivere un libro su qualcuno «così manipolatore»: «ti rovinerai la vita», le disse. Smythe decise che avrebbe scritto il libro.

Quando il processo iniziò, nel giugno 2017, Smythe non lo coprì per Bloomberg perché era in aspettativa per la biografia. Ogni giorno, però, andava in tribunale e anziché sedersi tra i giornalisti si mescolava al gruppo di amici e sostenitori di Shkreli, per conoscere che tipi erano. Intanto lui dava spettacolo, con il solito atteggiamento beffardo e irritante: roteava gli occhi durante le testimonianze, faceva commenti offensivi sugli avvocati dell’accusa, dava pacche sulle spalle al suo avvocato e, una volta a casa, organizzava dirette streaming in cui giocava a scacchi o miagolava con il suo gatto. Lui e i suoi sostenitori presero anche di mira alcune giornaliste che seguivano la vicenda, offendendole e ridicolizzandole su Twitter. Lentamente Smythe iniziò a prendere pubblicamente le sue difese anche nella speranza, disse poi, di convincere le case editrici a pubblicare il libro.

Durante il processo andò casa di Shkreli e ascoltò il famoso disco dei Wu-Tang Clan «per ricerca»; poi pubblicò su Twitter una foto in cui lo teneva in mano e taggò una giornalista che Shkreli aveva offeso online, dicendo: «non penso che farebbe del male a una donna, nemmeno a una giornalista». Nel frattempo, Shkreli si era insinuato anche nel rapporto con suo marito: lui era convinto la stesse soltanto usando e che lei stesse mettendo a rischio la sua carriera, lei lo accusava di volerla controllare. Decisero di andare in terapia di coppia.

Nell’agosto 2017 Shkreli venne condannato per tre capi d’accusa su otto mentre la sentenza con la pena sarebbe arrivata nel gennaio successivo. Invece ad agosto una buffonata su internet fece precipitare la situazione: Shkreli aveva messo in palio per i suoi follower 5.000 dollari in cambio di una ciocca di capelli di Hillary Clinton; il giudice stabilì che era un’istigazione all’aggressione e ordinò che fosse portato in carcere in attesa della sentenza. Il periodo di aspettativa di Smythe, nel frattempo, era finito e lei si ritrovò a seguire di nuovo il caso per Bloomberg. La decisione del giudice la sconvolse e si diede da fare per assicurarsi che Shkreli avesse in carcere tutto il necessario e che qualcuno si occupasse del suo gatto, travalicando i confini tra rapporto professionale e personale. Quella sera non riuscì a dormire e dovette ammettere a sé stessa la natura dei suoi sentimenti per Shkreli.

Ottenne una visita in carcere a novembre, era lo stesso giorno della sua prima sessione di terapia di coppia. Nella sala d’attesa del carcere, insicura sui gusti di Shkreli, spese 30 dollari in snack dal distributore automatico; quando lo vide lo abbracciò, gli scaldò un hamburger al microonde e si misero al parlare per un’ora intera. Se ne andò un’ora dopo e si diresse all’incontro con il marito, dove arrivò con 52 minuti di ritardo.

Prima della sentenza il coinvolgimento di Smythe venne a galla, seppur in modo anonimo. Il pubblico ministero lesse in tribunale delle email che Shkreli aveva inviato dal carcere a un non meglio specificato “individuo-1”, per dimostrare che stava fingendo rimorso per manipolarlo e ottenere uno sconto di pena; Smythe riconobbe che erano email che aveva ricevuto lei, capì che «ormai ero diventata parte della storia» e che non doveva più occuparsi della vicenda: ne parlò con i suoi capi che la misero a seguire d’altro. Nel frattempo le case editrici rifiutarono il suo libro, chiedendole invece un ritratto più pungente. A marzo Shkreli venne condannato a 7 anni di carcere; le disse che, secondo i suoi avvocati, le email che si erano scambiati avevano aumentato la pena di due anni, un pensiero che la fa ancora soffrire.

Smythe prese definitivamente le sue difese: derideva su Twitter i giornalisti che lo criticavano, rispondeva a chi lo insultava sui social e aiutava i fan a contattarlo. Passò il segno e a luglio venne convocata dal suo direttore e dal responsabile delle risorse umane, perché i suoi tweet e il suo comportamento pubblico non erano professionali. Smythe capì subito: li abbracciò e diede le sue dimissioni, che vennero accettate. In quello stesso periodo divorziò dal marito.

Da quel momento tutte le inibizioni che si era imposta crollarono. Andò a fare visita a Shkreli in prigione: lo faceva regolarmente da mesi, prima prendendo il furgoncino che alle sei del mattina portava da Manhattan a un carcere in New Jersey. Poi, quando fu trasferito in Pennsylvania, vinse la paura di guidare e prese la patente. Improvvisamente, mentre si trovavano faccia a faccia nella sala delle visite, gli disse che lo amava; lui rispose che l’amava a sua volta; lei gli chiese il permesso di baciarlo, lui glielo diede, lei lo baciò: «la stanza puzzava di alette di pollo», ricorda. A parte il bacio e qualche abbraccio, non ci furono altri contatti fisici tra loro ma la relazione proseguì attraverso lettere, telefonate, email: «è difficile ricordare un periodo più felice», dice lei. Finirono per parlare di matrimonio e figli e in primavera lei si è fatta congelare gli ovuli nel timore di essere troppo vecchia per restare incinta quando lui uscirà dal carcere.

Dopo un iniziale momento di sconcerto, la famiglia e gli amici di Smythe hanno accettato la sua scelta, trovandola più felice e ritenendola in grado di gestire la situazione. Smythe ha anche cambiato il giudizio sul suo lavoro precedente, dove «non stai mai dalla parte dell’accusato»; ha detto di aver modificato «enormemente la mia prospettiva» e che «ora sembro l’avvocato difensore». Ha venduto per una piccola somma i diritti per fare un film sulla vita di Shkreli e lavora per una start-up nel mondo del giornalismo.

L’ultima volta che ha visto Shkreli di persona è stato a febbraio; poi le visite in carcere sono state sospese a causa del coronavirus. Ad aprile, sempre per via della pandemia, Smythe aveva scritto una lettera alla giudice federale che aveva seguito il caso per chiederle di far uscire Shkreli e permettergli di scontare la pena nell’appartamento di lei a Manhattan, presentandosi come la sua fidanzata e compagna di vita, ma la sua richiesta non venne ascoltata.

Ha raccontato che all’epoca Shkreli era favorevole a rendere nota la loro storia, ma da quando lei ha deciso di farlo lui è scomparso e ha smesso di comunicare con lei: non le resta che attendere, paziente e impotente. Ha solo una foto di loro due insieme, vicino al letto: Shkreli la circonda con un braccio e sorride. Clifford, la giornalista di Elle, ha contattato Shkreli per un commento e lui ha risposto augurando «alla signora Smythe la migliore fortuna nei suoi impegni futuri». Di fronte a questa risposta, Smythe si è messa a piangere e ha spiegato che lui «ondeggia tra la gioia di un futuro insieme e il fatalismo che non funzionerà mai: ora è in questa seconda fase». Smythe ha assicurato che «io ci proverò, lo aspetterò». Shkreli si trova nel carcere federale Allenwood Low, in Pennsylvania; uscirà nel settembre del 2023.