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  • Lunedì 23 novembre 2020

La sanità italiana è frammentata, la sanità digitale ancora di più

I sistemi informatici sono diversi da regione a regione e faticano a dialogare anche all'interno delle stesse ASL e ospedali, e nell'epidemia si sono visti i risultati

(Michele Lapini/Getty Images)
(Michele Lapini/Getty Images)

Se i sistemi sanitari italiani di fatto sono 21, quelli delle 19 regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, i sistemi informatici sanitari con cui ci si può ritrovare ad avere a che fare, direttamente o indirettamente, sono molti di più. In questi nove mesi di epidemia da coronavirus, le manifestazioni di questa frammentazione sono state tante, ed è diventato evidente a molti quello che di cui prima avevano percezione in pochi: non è una frammentazione che si sviluppa soltanto su base regionale, ma anche all’interno delle stesse ASL, addirittura degli stessi ospedali.

I dati sanitari di chi vive in Italia, dai referti degli esami del sangue ai dettagli su quel ricovero ospedaliero di qualche anno fa, dallo storico delle terapie farmacologiche alle vaccinazioni fatte, sono sparpagliati, registrati in formati diversi e spesso difficili da consultare non soltanto per i pazienti, ma anche per i medici di famiglia, per gli specialisti, per gli ospedali. Oppure per circa un terzo degli italiani sono raccolti nel Fascicolo Sanitario Elettronico, che però – almeno per il momento – è uno strumento per l’assistenza individuale al paziente che non può essere usato per scopi collettivi.

Della farraginosità dei sistemi informativi – un termine più appropriato rispetto a “sistemi informatici” – della sanità italiana si è accorto chi ha dovuto prenotare online un tampone su siti che andavano continuamente offline, chi ha atteso per giorni un SMS dell’ASL dopo aver ricevuto il referto positivo di un tampone, o chi si è ritrovato nella kafkiana situazione di essere in una regione diversa da quella del proprio medico di famiglia durante il lockdown. Oppure non si è accorto di niente di tutto questo: perché in Italia ci sono anche posti dove questi sistemi funzionano bene e dialogano efficientemente tra di loro.

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«La frammentazione del patrimonio informativo su un paziente è tale per cui non si riesce ad avere un quadro completo sul suo conto: tra strutture diverse, ma anche all’interno della stessa struttura e ancora di più nella medicina territoriale, che spesso non ha possibilità di condividere le informazioni col resto del sistema sanitario» spiega Fabrizio Massimo Ferrara, docente di Informatica e Sistemi informativi all’Università Cattolica del Sacro Cuore e coordinatore scientifico del Laboratorio sui sistemi informativi sanitari dell’ALTEMS (Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari).

Il problema è che qualunque sistema informatico di un’azienda sanitaria è formato normalmente da tante applicazioni diverse, costruite seguendo quella che viene spesso definita “logica a silos”: cioè per compartimenti stagni che raccolgono al loro interno informazioni legate alla propria specialità clinica, ma che poi dialogano tra loro con fatica, quando dialogano. «Spesso non è niente di più di una posta elettronica un po’ organizzata» dice Ferrara.

È il motivo per cui, in gran parte degli ospedali, i dati sul coronavirus sono stati raccolti a mano in infinite tabelle di Excel, in mancanza di piattaforme dedicate, condividendole via mail. Ed è stato evidente per i medici di famiglia che hanno dovuto o devono ancora comunicare le segnalazioni alle ASL per posta elettronica o per telefono: aumentando drasticamente la possibilità di errori dovuti a procedure un po’ manuali e un po’ automatiche, come nel caso delle centinaia di mail di segnalazioni perse a un certo punto alla ASL di Torino.

«Il processo di informatizzazione e digitalizzazione frammentato deriva da un mercato che anziché lavorare sui grandi progetti tende a vendere software e hardware a livello locale» spiega Mauro Moruzzi, esperto di e-Health e ideatore del Fascicolo Sanitario Elettronico. Per questo ogni regione ha i suoi sistemi informatici, alcuni più efficienti di altri. Quando è arrivato il momento di affiancare a questi sistemi una piattaforma nazionale, come quella che registra le segnalazioni su Immuni, sono emersi insormontabili problemi di integrazione. 

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Software molto specifici e dati raccolti in formati non standardizzati significa che spesso, anche volendo innovare i sistemi, le aziende sanitarie sono vincolate a rimanere con il fornitore originario, per non perdere i dati o per evitare i costi del loro trasferimento. In molti casi, il miglioramento dell’efficienza dei servizi ha coinciso con una loro ulteriore complessità, invece che con una maggiore integrazione con applicazioni e sistemi diversi.

Nel frattempo i dati sanitari continuano ad aumentare, a essere catalogati in posti diversi, e la loro riorganizzazione diventa sempre più complicata: con evidenti conseguenze sull’efficienza e l’efficacia dell’assistenza sanitaria, perché aumenta il rischio di errori nei passaggi di consegne che ci sono nella cura di un paziente. Ma anche sul carico di lavoro degli operatori, e quindi sui costi complessivi della sanità.

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Non è soltanto una questione di strumenti tecnologici. Anzi, per molti esperti quello è un problema secondario. Intervenendo a un incontro organizzato dal sito VareseNews Umberto Rosini, responsabile dei sistemi informativi per la Protezione Civile, l’uomo che concretamente gestisce la raccolta dei dati quotidiani sull’epidemia, ha spiegato che oltre alle infrastrutture «manca la formazione delle persone che devono andare a caricare il dato».

«È una questione di conoscenza del dato e di saperlo gestire: noi possiamo mettere su qualsiasi struttura, qualsiasi collegamento tra le amministrazioni, ma di fatto quel dato deve essere inserito lì da qualcuno». Il fattore umano è «importantissimo» secondo Rosini, e la formazione del personale è ancor più fondamentale delle risorse tecnologiche, che a suo avviso ci sarebbero. «Non abbiamo un sensore che non appena un paziente viene adagiato su un letto inserisce su un database un +1».

La pandemia ha provocato una generale accelerazione del ricorso al digitale nella sanità, che si è concretizzata principalmente nell’utilizzo della telemedicina, cioè nell’erogazione di prestazioni sanitarie – principalmente visite – a distanza. «Prima del Covid di fatto in nessuna regione si era esplorata con continuità la telemedicina. C’erano delle esperienze pilota, soprattutto nel Nord Est, ma nessuna regione aveva messo delle linee guida specifiche, nonostante il ministero della Salute avesse pubblicato quelle nazionali già nel 2014» spiega Francesco Petracca, ricercatore del CERGAS dell’università Bocconi. «Ad oggi, ad aver recepito e adattato quelle linee guida sono ancora soltanto nove regioni».

Ma riorganizzare e innovare i sistemi informativi della sanità è una questione più complessa. Secondo Moruzzi, questo processo deve necessariamente passare dal Fascicolo Sanitario Elettronico, raro caso di struttura digitale presente in tutta Italia: almeno in potenza, visto che alcune regioni devono ancora attivarlo pur avendo da anni a disposizione la struttura. È il posto in cui già 22 milioni di italiani possono consultare i referti degli esami del sangue, ricevere le ricette elettroniche dal medico di base e fare tante altre operazioni in modo semplice e nello stesso posto.

«È un sistema basato su tanti nodi sparsi in tutte le aziende sanitarie, intercettati da repository regionali che poi si collegano anche a un sistema nazionale» spiega Moruzzi, secondo cui un potenziamento del FSE avrebbe potuto aiutare anche nella sorveglianza epidemiologica. Estraendo anonimamente i dati dai fascicoli, si sarebbero potute creare delle mappe delle fragilità fisiche degli italiani, in modo da individuare demograficamente e territorialmente le fasce più a rischio.

Quest’operazione però è molto complessa, per stessa ammissione di Moruzzi. Il FSE rimane principalmente uno strumento per la cura individuale del paziente, secondo Petracca. Un fascicolo unico, per l’appunto, con tutti i documenti sanitari che riguardano il cittadino. Documenti peraltro spesso in PDF, leggibili da software appositi, ma con una certa percentuale di rischio d’errore che complica la raccolta e l’utilizzo dei dati sulla collettività, ricorda Ferrara: «non è uno strumento di gestione, ma di consultazione».

Secondo Ferrara, i necessari interventi di riorganizzazione dei sistemi informativi sanitari dovrebbero auspicabilmente partire da direttive nazionali, ma inevitabilmente «passano dalle sensibilità delle singole aziende». Le strategie di innovazione difficilmente riguarderanno «soluzioni monolitiche di un unico fornitore», piuttosto saranno soluzioni che manterranno i sistemi già utilizzati ma integrandoli tra loro, organizzando i dati raccolti in modo che siano standardizzati e di proprietà dell’azienda sanitaria e non del fornitore informatico.