Dietro agli investimenti cinesi in Europa spesso ci sono aziende di stato

Lo sostiene lo studio di una società olandese, secondo cui a molte acquisizioni partecipano investitori pubblici che a volte passano inosservati

Un braccio robotico prodotto da Kuka, azienda tedesca acquisita nel 2015 da un gruppo cinese. (AP Photo/Shizuo Kambayashi)
Un braccio robotico prodotto da Kuka, azienda tedesca acquisita nel 2015 da un gruppo cinese. (AP Photo/Shizuo Kambayashi)

Negli ultimi anni aziende e gruppi di investitori cinesi hanno acquisito centinaia di società europee. Alcune di queste acquisizioni sono molto note, come quella di Kuka, azienda tedesca che si occupa di robotica e che è stata comprata da un consorzio cinese nel 2016, altre sono meno famose e riguardano aziende di minor valore. Secondo uno studio realizzato dalla società di consulenze olandese Datenna BV e raccontato dal Wall Street Journal, in centinaia di queste acquisizioni l’acquirente cinese era una società partecipata dal governo della Cina, partecipazione che in certi casi non è mai stata resa pubblica.

Lo studio ha preso in considerazione 650 investimenti cinesi fatti dal 2010 a oggi, e ha scoperto che nel 40 per cento circa delle transazioni c’è stato un coinvolgimento di compagnie controllate o possedute dallo stato cinese. In molti di questi investimenti, la presenza dello stato cinese era spesso nascosta dietro a strutture societarie complesse o è avvenuta tramite l’utilizzo di intermediari europei. Secondo il Wall Street Journal, in un report sugli investimenti esteri pubblicato l’anno scorso l’Unione Europea ha contato 57 acquisizioni da parte di aziende di proprietà dello stato cinese tra il 2010 e il 2017. Datenna invece ha individuato 161 transazioni in cui l’influenza cinese è “alta”: significa che l’entità che controlla l’acquirente fa parte dello stato. In altre 103 transazioni l’influenza è invece definita come “moderata”: significa che lo stato ha una quota nell’acquirente, ma non necessariamente la quota di controllo. Un portavoce dell’UE, sentito dal giornale americano, ha detto che il report è in aggiornamento.

Datenna è una società di analisi fondata da Jaap van Etten, un ex diplomatico olandese, e fa consulenza sulle caratteristiche del mercato cinese. Uno dei suoi strumenti più pubblicizzati è un sistema di valutazione dell’assetto societario delle aziende cinesi per individuare quello che Datenna definisce “ultimate beneficial ownership”, cioè chi controlla effettivamente un’azienda.

In alcune delle acquisizioni analizzate la partecipazione di un’azienda pubblica cinese è nota e non ha creato nessuno scandalo. L’esempio più famoso è probabilmente quello di Pirelli, che dal 2015 è controllata da ChemChina, la multinazionale pubblica cinese che si occupa di industria chimica: l’acquisizione non creò allora particolari problemi, né li crea oggi. In generale, non è inconsueto che aziende pubbliche facciano acquisizioni sul mercato.

Con la Cina tuttavia le cose si complicano, perché è in corso con Stati Uniti ed Europa una competizione tecnologica e industriale molto aggressiva. Tra Stati Uniti e Cina è in atto una ben nota guerra commerciale. Ma anche la Commissione europea, nell’aprile del 2019, pubblicò un documento in cui definiva la Cina come “un competitor economico che rincorre la leadership tecnologica e un rivale sistemico che propone modelli alternativi di governo” (la definì anche un “partner con cui cooperare”). Per questo, da qualche tempo gli investimenti cinesi in Occidente sono guardati con maggiore attenzione, e in alcuni casi con sospetto.

C’è un altro problema posto dallo studio di Datenna: come mostra la discrepanza con i dati dell’UE sul coinvolgimento dello stato cinese, in molte delle acquisizioni fatte negli ultimi anni la presenza pubblica cinese era in qualche modo nascosta o non chiara. Circa il 15 per cento delle transazioni è stato fatto mediante controllate o tramite acquisizioni precedenti, che significa: non è l’azienda di stato a fare l’acquisto, ma un’azienda controllata dall’azienda di stato. In altri casi, le compagnie acquirenti non sono quotate in borsa, e questo rende difficile conoscere la loro struttura societaria. A settembre, la Corte dei conti europea ha pubblicato uno studio sulla reazione europea agli investimenti cinesi spiegando che fin dagli anni Ottanta la Cina incoraggia le imprese di stato a investire in settori strategici all’estero, e giudicando finora la risposta europea frammentaria e incompleta. Le istituzioni UE, scrive la Corte dei conti, non hanno ancora fatto “un’analisi formalizzata e completa dei rischi e delle opportunità che derivano dalla strategia di investimento della Cina”.

Tra i casi studiati da Datenna e descritti dal Wall Street Journal c’è per esempio quello di Anteryon Optical Solutions, una società olandese che si occupa di semiconduttori, una tecnologia strategica e molto contesa. Nel 2019 l’azienda cinese Jingfang Optoelectronics ha comprato il 73 per cento di Anteryon per 32,25 milioni di euro. Ma Jingfang, attraverso un sistema di società che hanno quote l’una nell’altra, è controllata al 66 per cento da un fondo del governo cinese. Un altro esempio è quello di Fuba, azienda tedesca specializzata nella radiotrasmissione tra veicoli, acquistata nel 2015 dal Northeast Industries Group: risalendo la catena delle proprietà, Datenna ha scoperto che Northeast è controllata da un organo del Consiglio di stato cinese.

Nel suo studio, Datenna ha contato 56 acquisizioni in Italia dal 2010. Nel 16 per cento di queste, l’influenza del governo cinese è “alta”, nel 21 per cento è “moderata”, anche se non è chiaro dai dati in quanti casi quest’influenza fosse già nota e in quanti non lo fosse.

Il Wall Street Journal ha notato che molti stati europei non hanno strumenti efficaci per evitare acquisizioni estere di aziende che operano in settori strategici, al contrario degli Stati Uniti dove il Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti, noto come CFIUS, è al centro di tutte le principali dispute commerciali dell’amministrazione Trump. In Italia il governo ha a disposizione il cosiddetto “Golden power”, cioè il potere di opporsi all’acquisto di partecipazioni in una società o imporre determinate condizioni per l’acquisizione. Il governo può inoltre porre veti sull’adozione di delibere aziendali. Il “golden power” italiano vale soltanto per determinati settori strategici come la difesa, la sicurezza nazionale, i trasporti, l’energia e le comunicazioni. Quest’anno i settori strategici sono stati allargati per comprendere anche la sanità e l’alimentazione, la finanza e il settore assicurativo.

La Commissione europea già da qualche tempo ha incoraggiato tutti gli stati membri a dotarsi di sistemi di controllo degli investimenti esteri, e l’anno scorso ha approvato un nuovo regolamento che prevede, tra le altre cose, che quando uno stato membro si trova a valutare un investimento estero è obbligato a notificarlo a tutti gli altri stati. Questo nuovo regolamento, che si chiama EU FDI Screening Regulation (FDI sta per “foreign direct investment”, investimento estero diretto), entrerà in vigore l’11 ottobre.