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  • Martedì 8 settembre 2020

L’Italia aveva o no un piano segreto per il coronavirus?

Lo citano esplicitamente i verbali di alcune riunioni del comitato tecnico-scientifico tenute fra febbraio e aprile, ma il ministero della Salute nega che sia mai esistito

Il ministro della Salute Roberto Speranza durante l'informativa legata al Coronavirus in Senato, 6 Agosto 2020. ANSA/VALERIO PORTELLI
Il ministro della Salute Roberto Speranza durante l'informativa legata al Coronavirus in Senato, 6 Agosto 2020. ANSA/VALERIO PORTELLI

Negli ultimi giorni diversi quotidiani si sono occupati di un presunto piano elaborato fin dai primi giorni dell’emergenza coronavirus dal comitato tecnico-scientifico (CTS) della Protezione Civile per contrastare la pandemia, e mai applicato. Oggi, martedì 8 settembre, il Corriere della Sera ha pubblicato ampi stralci di questo piano e l’immagine della copertina. Secondo il Corriere il documento era lungo una quarantina di pagine e conteneva tre scenari che simulavano l’andamento dell’epidemia in Italia, dal peggiore al migliore, e una serie di misure da attuare in caso di necessità fra cui il reperimento di mascherine e altri dispositivi di protezione individuale, e l’aumento dei posti nei reparti di terapia intensiva negli ospedali.

Il piano, di cui Repubblica e il Corriere della Sera avevano scritto già alla fine di aprile, è diventato ormai un argomento di dibattito politico: l’opposizione ha accusato il governo di avere avuto un «piano segreto» di cui ha tenuto all’oscuro l’opinione pubblica, e che non ha mai attuato perché ha sottovalutato l’impatto dell’epidemia; il governo e la Protezione Civile si sono difesi spiegando che in realtà non è mai esistito alcun piano segreto rimasto inattuato, e che si tratta di un enorme malinteso.

Ovviamente il problema non è tanto che il governo avesse un piano “segreto” – è normale che fra gennaio e febbraio si ipotizzassero scenari e misure di emergenza – quanto che le spiegazioni fornite per ora non siano state sufficienti. La posizione pubblica del governo rispetto al presunto piano è cambiata più volte nel corso del tempo: e né il ministero della Salute né la Protezione Civile hanno spiegato estesamente le loro ragioni, limitandosi ad alcune lacunose interviste e ricostruzioni.

La storia, dall’inizio
I verbali del CTS, resi disponibili di recente sul sito della Protezione Civile, contengono soprattutto gli ordini del giorno delle riunioni tenute dai 26 esperti che ne fanno parte – nominati il 5 febbraio dal governo – e delle loro comunicazioni con funzionari e tecnici del governo.

L’esistenza di un piano viene citata la prima volta nel verbale dell’incontro tenuto il 24 febbraio, pochi giorni dopo la scoperta dei primi casi di coronavirus in Lombardia e Veneto. Il verbale parla di un «piano di organizzazione della risposta dell’Italia in caso di epidemia» e si specifica che «deve essere completato», con particolare attenzione all’«allestimento delle rianimazioni», cioè dei reparti di ospedale che avrebbero dovuto gestire i casi più gravi. Il verbale si chiude con il «consenso» fra i membri del CTS affinché il piano non venga girato ai giornali.

Il piano riemerge dopo una decina di giorni: nel verbale della riunione del 2 marzo, il CTS «concorda di adottarlo nella versione finale», e viene sottolineata la necessità che il documento rimanga «secretato». Con tutta probabilità il CTS intendeva invitare i suoi membri e chiunque leggesse il verbale alla riservatezza, dato che per la legge italiana l’unico organo che può imporre il segreto di stato è la presidenza del Consiglio.

Il CTS parla di nuovo del piano nella riunione successiva, il 4 marzo, aggiungendo qualche dettaglio: nel verbale si legge che il piano è stato elaborato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) – il principale centro di ricerca e consulenza tecnico-scientifica della sanità pubblica in Italia – assieme al ministero della Salute e all’ospedale Spallanzani di Roma, che in quel momento era il più coinvolto nelle prime fasi di gestione del coronavirus. Il CTS invita l’ISS ad aggiornare il piano «in considerazione dell’avvenuta evoluzione della dinamica epidemiologica nel paese», cioè dell’individuazione di centinaia di casi avvenuta nei primi giorni di marzo.

Nei giorni e nelle settimane successive, però, il piano sparisce dai verbali del CTS, a parte una sporadica citazione il 9 marzo, e riemerge soltanto nel verbale della riunione del 27 aprile, alcuni giorni dopo che Repubblica e il Corriere della Sera hanno raccontato dell’esistenza di un piano mai attuato il cui obiettivo, secondo quanto pubblicato dal Corriere della Sera, era individuare «una serie di eventuali azioni da attivare in relazione allo sviluppo degli scenari epidemici, al fine di contenerne gli effetti». Insomma, una serie di provvedimenti di emergenza per contenere il più possibile la diffusione del virus nei primi, cruciali giorni dell’epidemia.

Il 22 aprile un dirigente del ministero della Salute – Andrea Urbani, direttore generale della programmazione sanitaria – racconta al Corriere della Sera che il piano esiste, è stato applicato, ed era «secretato» perché «la linea è stata non spaventare la popolazione e lavorare per contenere il contagio».

Appena due giorni dopo, Goffredo Zaccardi, il capo di gabinetto del ministro della Salute Roberto Speranza, scrive al CTS per chiedere se il piano di cui hanno appena scritto i giornali sia mai stato messo a verbale (le comunicazioni sono state desecretate assieme ai verbali). Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato, risponde a Zaccardi che in realtà il piano «è più correttamente da configurarsi come uno studio che ipotizza possibili differenti scenari della diffusione epidemica» e «non è allegato ai verbali ma è stato esaminato ed è agli atti del Comitato tecnico scientifico».

La comunicazione fra Zaccardi e Miozzo rimane riservata: pubblicamente non si parla più del presunto piano fino alla fine di agosto, quando dopo una richiesta di accesso agli atti Repubblica ottiene e pubblica quello che secondo il CTS è l’unico documento riconducibile al piano: uno studio presentato al CTS il 12 febbraio da Stefano Merler, un matematico che lavora per la Fondazione Bruno Kessler.

Lo studio è intitolato Scenari di diffusione di 2019-NCOV in Italia e impatto sul servizio sanitario, in caso il virus non possa essere contenuto localmente e fra le altre cose, secondo Repubblica, ipotizzava due scenari di contagio a seconda dell’andamento dell’indice R0, che indica la quantità di individui che in media vengono contagiati da una persona con una malattia infettiva. Scrive Repubblica:

I due scenari considerati plausibili dallo studio sono R0 1.3 e 1.7. Questi i risultati. Nel primo scenario i casi di contagio in Italia sarebbero stati circa un milione, nel secondo, addirittura due. Di questi, i casi gravi che richiedono cure, oscillano fra 200 e 400 mila. Il fabbisogno totale di letti in terapia intensiva varia fra 60 e 120 mila. […] Il documento non fa stime sul numero di morti, ma secondo Merler, il tasso di letalità registrato in quel momento in Cina applicato agli scenari italiani, produceva un risultato spaventoso: fra 35 e 60 mila morti da Covid-19. [Al momento i casi individuati in Italia sono 277mila, mentre i morti circa 35mila, ndr]

Dopo la nuova rivelazione di Repubblica, il CTS nega che sia mai esistito un vero e proprio piano, e il ministero della Salute si attesta sulla stessa posizione. In un’intervista pubblicata il 5 settembre, Miozzo dice a Repubblica che il presunto piano coincideva con lo studio di Merler, che le misure non sono state decise in anticipo ma «giorno per giorno», e che il malinteso è stato causato dalle interviste di Urbani, che «ha usato quell’aggettivo, segreto». Miozzo aggiunge che dopo la desecretazione dei verbali del CTS «è tutto pubblico, ora». Anche Roberto Speranza, durante la festa organizzata dal Fatto Quotidiano, ha dato una spiegazione simile: il presunto piano coincideva con lo studio di Merler, che è stato tenuto riservato «per non diffondere allarme».

Lunedì 7 settembre, Repubblica ha precisato che lo studio di Merler non era poi così segreto, ma che semplicemente si cercò di non farlo filtrare ai giornali: al ministero della Salute fu sottoposto da Alberto Zoli, il membro del CTS che era stato nominato dal comitato delle regioni, che quindi in linea teorica erano a conoscenza del documento. In una intervista del giorno dopo al quotidiano, lo stesso Merler ha affermato che «un piano pandemico serve. È difficile, forse anche inutile, farne uno vero adesso. Ma passata questa epidemia dobbiamo investire tempo e risorse per farlo. Abbiamo pagato un prezzo altissimo per non averlo aggiornato per dodici anni».

Cosa non torna?
In questa vicenda ci sono alcuni aspetti che a distanza di mesi risultano ancora poco chiari. Per prima cosa, l’esatta consistenza del piano: in un primo momento il CTS ne parlava come una serie di misure elaborate dall’ISS, dal ministero della Salute e dallo Spallanzani, dopo quasi due mesi era diventato uno studio di scenari possibili che non conteneva proposte concrete, mentre l’ultima versione è che il piano coincida con lo studio presentato il 12 febbraio da Stefano Merler. Può essere che il piano abbia cambiato forma nello sviluppo dell’epidemia: ma né il ministero né il CTS finora lo hanno detto apertamente.

Non è chiaro, infatti, perché il governo non ammetta più – dopo averlo fatto a fine aprile – l’esistenza di un primo piano che conteneva misure e indicazioni specifiche: Riccardo Luna ha scritto su Repubblica che le prime versioni contenevano infatti «dati su posti letto, terapia intensiva, rianimazione; azioni da compiere in caso di primo contagio. Si parla anche della necessità di mascherine e dispositivi di protezione sanitaria per medici e infermieri». Lo studio di Merler non contiene nessun dato del genere.

Infine, non sappiamo nemmeno perché il governo e il CTS insistano sul fatto che non c’è più nulla di segreto: al momento non sono pubblici né lo studio di Merler, né le versioni del piano citate nei verbali di febbraio e marzo del CTS.