La problematica gestione dei migranti in Friuli Venezia Giulia

Il numero di persone provenienti dalla cosiddetta "rotta balcanica" sta aumentando, e la regione ha indebolito il suo sistema di accoglienza: oggi arriva Lamorgese

Alcune persone migranti a Trieste, vicino alla stazione ferroviaria, 25 agosto 2020 (ANSA/ MAURO DONATO)
Alcune persone migranti a Trieste, vicino alla stazione ferroviaria, 25 agosto 2020 (ANSA/ MAURO DONATO)

Oggi la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese sarà a Trieste, in Friuli Venezia Giulia, per parlare con il presidente della regione, i sindaci e i prefetti, dei migranti in arrivo dalla cosiddetta rotta balcanica. Dai dati risulta che la rotta sia stata la più attiva nel 2020, con un +60 per cento rispetto allo scorso anno in termini di arrivi: il lockdown causato dall’epidemia da coronavirus ha sospeso gli arrivi in primavera, ma ora si sta assistendo a un’ondata ritardata che la regione fatica a sostenere. Diversi sindaci, il presidente della regione, il sindacato di polizia e anche alcuni deputati hanno dunque chiesto, in varie forme, un intervento del governo.

La cosiddetta “rotta balcanica” – che originariamente partiva dalla Turchia verso la Grecia, per poi attraversare i Balcani occidentali e infine arrivare in Croazia, Slovenia e Italia – era stata quasi del tutto chiusa all’inizio del 2016, quando i paesi orientali dell’Unione Europea bloccarono i confini ai richiedenti asilo, che provenivano soprattutto dalla Siria (a causa della guerra civile iniziata nel 2011) e dal Medio Oriente. Al contempo le istituzioni europee strinsero un accordo molto controverso col governo turco affinché impedisse nuove partenze. Di fatto l’accordo interruppe il grande flusso lungo la rotta, portò a un inasprimento dei controlli alle frontiere in tutto l’est Europa e finì per bloccare circa 50 mila persone in Grecia e diverse migliaia in Macedonia e Serbia, costrette dunque a cercare una rotta alternativa che passasse per la Bosnia.

In generale, l’assenza di azioni congiunte ed efficaci per una reale gestione dei flussi migratori ha portato i vari paesi ai confini esterni dell’Unione – così come i paesi terzi di transito – ad agire in modo autonomo, spesso violando i diritti umani fondamentali e il diritto internazionale, come testimoniato da diversi report, articoli giornalistici e dossier. Queste violazioni sono state commesse anche dall’Italia con la cosiddetta politica delle riammissioni, portata avanti in base a un accordo bilaterale (molto discusso e da molti giudicato illegale) firmato a Roma nel 1996: stabilisce che i migranti identificati vicino al confine, entro i dieci chilometri, vengano “accompagnati” dall’altra parte, anche se vogliono chiedere protezione internazionale – e quindi avrebbero diritto a sottoporla – e anche se i paesi in cui a catena verranno riportati non gli offrono alcuna sicurezza.

Oltre a quella dei respingimenti, la politica portata avanti dal presidente della regione Massimiliano Fedriga, della Lega, è stata l’indebolimento del sistema di accoglienza diffuso, che secondo molti è alla base della situazione complicata degli ultimi mesi. Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, ha spiegato che i problemi legati all’accoglienza in Friuli Venezia Giulia hanno a che fare con i cosiddetti “decreti sicurezza”, con lo smantellamento dell’accoglienza diffusa e con «l’azzeramento delle risorse». Sarebbero flussi gestibili, insomma, se la politica non avesse deciso deliberatamente di indebolire la sua capacità di farlo.

Nel 2018, sostenendo che andasse incentivato il “rientro assistito”, la giunta regionale del Friuli Venezia Giulia aveva approvato una delibera che tagliava di oltre un milione di euro la spesa per l’accoglienza, cancellando una serie di interventi destinati a servizi territoriali, inserimento abitativo, istruzione, educazione, corsi di lingua e formazione professionale.

Al sistema di accoglienza già in difficoltà si è poi sommata l’emergenza sanitaria e la mancanza di luoghi idonei per la gestione della quarantena. Schiavone ha spiegato che in provincia di Udine, per esempio, «non è mai stata creata una struttura di accoglienza per l’isolamento fiduciario nei primi 14 giorni, come previsto dal decreto del ministero della Sanità del 17 marzo». Sempre a Udine un gruppo di richiedenti asilo sta facendo la quarantena a bordo di due autobus messi a disposizione dalla prefettura: «Dormono lì, mangiano lì, fanno la fila davanti a un paio di bagni chimici, si lavano con un tubo dell’acqua fornito dalla Caritas (…) Sono controllati da poliziotti e da personale della protezione civile, per impedire che fuggano. Attendono, non possono fare altro. Attendono il termine dei quattordici giorni di quarantena sperando due cose: di non avere il virus, e di essere trasferiti in un alloggio con un tetto sulla testa e un letto vero dove riposare», ha raccontato Repubblica. All’inizio i richiedenti asilo sugli autobus erano una settantina, poi per quaranta di loro la prefettura ha trovato dei posti liberi grazie alla Caritas e allo svuotamento parziale dell’ex caserma di Udine Cavarzerani, dove all’inizio di agosto erano presenti circa 500 persone e dove ci sono state delle proteste auto-organizzate delle persone migranti.

Il presidente della regione Fedriga ha fatto sapere le richieste che presenterà alla ministra Lamorgese: la chiusura dei valichi secondari tra Italia e Slovenia, maggiori controlli ai valichi principali, trasferimento fuori regione di una quota consistente di migranti, la modifica della legge che obbliga i comuni a farsi carico dei minori stranieri non accompagnati e l’uso della tecnologia (droni) per fermare i flussi.