Quelli che non guariscono dalla COVID-19

Sempre più testimonianze e studi suggeriscono che per una percentuale significativa di malati – anche giovani e poco gravi – i sintomi durino settimane e persino mesi

Una paziente in via di guarigione dalla COVID-19 in un ospedale di Istanbul. (Chris McGrath/Getty Images)
Una paziente in via di guarigione dalla COVID-19 in un ospedale di Istanbul. (Chris McGrath/Getty Images)

Otto mesi dopo la scoperta del coronavirus SARS-CoV-2 e della malattia che provoca, la COVID-19, conosciamo molte più cose sulle caratteristiche del virus e sui suoi effetti, che nella stragrande maggioranza delle persone contagiate sono lievi e durano un paio di settimane. Sempre più indizi e studi suggeriscono però che in una certa percentuale di individui la COVID-19 abbia effetti assai più duraturi. In Italia è stato usato il termine “sindrome post-COVID-19”, mentre nei paesi anglosassoni si è diffusa l’espressione “long-haulers”: le persone che si portano dietro i sintomi legati al coronavirus a lungo, a volte per mesi.

Sappiamo ancora poco di chi siano, quanti siano, quali rischi corrano e se e quanto rimangano contagiosi, quelli che non guariscono per così tanto tempo. Le loro testimonianze sono diverse e frammentarie, e le conclusioni che si possono trarre sono ancora basate più sull’aneddotica che sugli studi pubblicati. Ma l’esperienza di moltissime persone, raccolte in questi mesi da medici, giornalisti e sui social network, mette in discussione alcune cose che pensavamo ormai di sapere sul virus, in particolare sulla durata dell’infezione e sulle possibili conseguenze delle infezioni apparentemente lievi e che interessano le persone più giovani e in salute.

Sono probabilmente centinaia di migliaia le persone nel mondo ad avere sintomi a distanza di settimane e mesi dal contagio: individui a cui finora la medicina e le istituzioni hanno dedicato poche attenzioni e risposte. Oltre ai problemi fisici, queste persone devono fare i conti con le difficoltà del rientro al lavoro, e con la scarsa sensibilità pubblica nei confronti della cosiddetta “long COVID”, sconosciuta ai più.

Gli studi sulle persone che non guariscono completamente dalla COVID-19 dopo due o tre settimane sono ancora pochi, e condotti su campioni ristretti di persone. Tra i sintomi più comunemente segnalati ci sono difficoltà respiratorie, stanchezza e malessere diffusi, mal di testa, dolori al petto, problemi gastrointestinali e nausea, ma ne sono stati segnalati anche decine di altri.

Paul Garner, docente alla Liverpool School of Tropical Medicine, ha raccontato sul suo blog di non riuscire a rimanere alzato dal letto per più di tre ore, a oltre tre mesi dal contagio. Layth Hishmeh, un 26enne inglese, ha detto al Financial Times che quattro mesi dopo essersi ammalato soffre ancora di diarrea, mente annebbiata, palpitazioni e grande affaticamento. La scrittrice Jodie Noel Vinson ha raccontato sul New York Times di avere vomito e forti dolori intercostali a quattro mesi dai primi sintomi.

Sono sintomi che possono essere molto diversi da quelli più comunemente associati alla COVID-19 – febbre, tosse, difficoltà respiratorie, perdita di gusto e olfatto – e questo rende spesso difficile riconoscerli e ricondurli a una malattia che conosciamo da pochi mesi e sulla quale mancano ancora informazioni. Ad aumentare la confusione, una considerevole percentuale di queste persone non era stata inizialmente sottoposta al tampone, perché presentava sintomi lievi oppure diversi da quelli più comuni, e non ha quindi mai ricevuto una vera diagnosi.

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Ed Yong, giornalista scientifico dell’Atlantic che ha approfondito vari aspetti dell’epidemia da coronavirus, ha raccontato alcune storie di persone che presentano sintomi a mesi di distanza dall’infezione da coronavirus. Una di loro, Lauren Nichols, si è ammalata il 10 marzo: cinque mesi dopo, ad agosto inoltrato, soffriva ancora di problemi gastrointestinali, nausea mattutina, battito cardiaco irregolare, perdita della memoria a breve termine, ipersensibilità alla luce e ai rumori e problemi ginecologici. I suoi sintomi iniziali non erano stati giudicati compatibili con la COVID-19, e per questo non era stata sottoposta ai test. Avendo 32 anni, il dottore non era preoccupato.

L’età relativamente giovane, così come i sintomi inizialmente non molto gravi, sembrano essere tratti comuni di questa categoria di persone. Al momento non sono state individuate patologie pre-esistenti che possano rendere più probabile la persistenza di problemi fisici a distanza di diverse settimane dal contagio.

David Putrino, neurologo specialista nella riabilitazione al Mount Sinai Hospital di New York, che ha seguito e registrato le storie cliniche di 1.400 “long-haulers”, dice di aver rilevato una maggioranza di donne e un’età media di 44 anni. Due terzi di quelli che hanno fatto il test sierologico sono risultati negativi, ha detto a Yong, nonostante abbiano avuto sintomi compatibili con la COVID-19.

Margot Gage Witvliet è un’epidemiologa americana che continua a manifestare sintomi a mesi dal contagio e ha raccontato la sua esperienza sul sito The Conversation. Ha scritto che era risultata negativa al primo tampone, e che le era stata diagnosticata l’infezione soltanto a posteriori. Non migliorando a settimane dal contagio, ha detto di aver cercato informazioni sui sintomi a lungo termine della COVID-19, faticando a trovare informazioni nonostante la sua professione. Si imbatté però in alcuni gruppi di auto-aiuto che sono diventati molto popolari sui social network, che i “long-haulers” hanno usato per condividere le proprie esperienze e per chiedere maggiori attenzioni.

Uno di questi, il Long COVID SOS, ha ottenuto la scorsa settimana un colloquio con il direttore generale dell’OMS, che ha riconosciuto il problema e ha promesso risposte. In altri casi, ai gruppi si sono uniti ricercatori e medici che hanno cercato di raccogliere e organizzare le testimonianze, producendo rapporti come quello del Body Politic, basato sulle risposte di 640 pazienti.

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Tra i pochi studi condotti finora sul tema ce n’è uno italiano, pubblicato da un gruppo di medici del Policlinico Gemelli di Roma guidato dal geriatra Angelo Carfì. Tra il 21 aprile e il 29 maggio, 143 pazienti che erano ricoverati per il coronavirus sono stati dimessi, hanno accettato di partecipare alla ricerca e si sono “negativizzati” al test. Di questi, a due mesi dalla comparsa dei primi sintomi, soltanto il 12,6 per cento era totalmente privo di sintomi; il 32 per cento aveva ancora uno o due sintomi; il 55 per cento tre o di più. Nessuno aveva febbre o denunciava sintomi associati alle infezioni più gravi, ma è stato diagnosticato un peggioramento delle condizioni di vita per il 44 per cento dei partecipanti.

Le conclusioni dello studio sono basate su un campione piccolo, e saranno necessarie molte altre ricerche per capire meglio in cosa consista questa evoluzione della COVID-19, che però sembra riguardare una percentuale rilevante di pazienti. Altri studi simili condotti nel Regno Unito e in Germania – a loro volta su piccoli campioni di alcune decine di pazienti – sono arrivati a conclusioni simili, suggerendo che a manifestare sintomi della malattia a due mesi e più dal contagio sia la maggioranza dei pazienti, indipendentemente dalla gravità delle infezioni e dalle malattie pre-esistenti.

Quello sulla corretta definizione di “guarito da coronavirus” è stato uno dei primi dibattiti che hanno messo in luce le tante cose che ancora non sappiamo sulla COVID-19. Nelle statistiche ufficiali, in questa categoria sono finiti spesso i pazienti dimessi dagli ospedali, anche se non erano ancora risultati negativi al tampone e se continuavano a manifestare sintomi più lievi. Gli indizi sulla possibilità che l’infezione lasci effetti anche dopo mesi complicano ulteriormente l’identificazione delle persone guarite.

Le scarse conoscenze sul fenomeno dei sintomi a medio e lungo termine del coronavirus fa sì, tra le altre cose, che chi ne soffre abbia difficoltà a spiegare e giustificare per esempio la propria assenza dal lavoro, incontrando talvolta scetticismo perfino nei medici, che per esempio attribuiscono i loro problemi a cause psicologiche. Qualcosa però si sta muovendo: lo scorso 31 luglio, il CDC, uno degli organismi che si occupano di salute pubblica negli Stati Uniti, ha riconosciuto che anche le persone giovani e senza malattie pre-esistenti possono avere sintomi a lungo termine per via della COVID-19.

Una preoccupazione è che questi effetti possano diventare cronici, specialmente se non riconosciuti e perciò trascurati. Tra le richieste principali di chi ne soffre c’è infatti che vengano finanziate più ricerche, per trovare possibili soluzioni. Putrino dice che il 90 per cento dei “long-haulers” con cui ha lavorato presenta i sintomi della encefalomielite mialgica, meglio conosciuta come sindrome da fatica cronica: per chi ne soffre, anche gli sforzi più modesti possono provocare crolli fisici che durano giorni. Altri sintomi rilevati frequentemente da Putrino ricordano la disautonomia, un malfunzionamento cronico del sistema nervoso che influisce sulle azioni involontarie dell’organismo, come il respiro o il battito cardiaco.

Sul Guardian, la docente di malattie infettive dell’infanzia dell’Università di Edimburgo Debby Bogaert ha spiegato di avere avuto i sintomi del coronavirus per mesi, chiarendo che non ci sono per ora ipotesi concrete sul perché questo succeda. Potrebbe dipendere da una replicazione del virus che non si arresta o che riprende dopo la “negativizzazione”, oppure in una risposta anomala del sistema immunitario che continua anche dopo la scomparsa del coronavirus. O ancora, che i danni ai polmoni, all’apparato circolatorio e ad altri organi causati dalla COVID-19 siano più gravi ed estesi di quelli conosciuti finora, e richiedano più tempo del previsto per scomparire. Akiko Iwasaki, immunologa di Yale, ha ipotizzato che il virus possa rimanere nell’organismo in alcuni organi specifici, sfuggendo ai tamponi naso-faringei.

L’esistenza di sindromi post-virali che durano mesi dopo il contagio è nota, anche se a lungo sono state trascurate o sottovalutate. In passato ne sono state ipotizzate in relazione a malattie respiratorie simili alla COVID-19 e causate dai coronavirus, come la SARS e la MERS, oltre ad altre infezioni virali come ebola.

L’esistenza di questo fenomeno, secondo Bogaert, è un argomento a favore di una maggiore estensione dei test: la possibilità che i sintomi si protraggano a lungo anche per chi fin dall’inizio ne presenta di lievi rende importante una diagnosi tempestiva della COVID-19, senza la quale può essere ancora più difficile riconoscerne e curarne gli eventuali effetti a lungo termine.