Perché bisogna fare attenzione a paragonare i contagi di oggi a quelli di maggio

Oggi facciamo tamponi a categorie diverse di persone e la situazione negli ospedali è straordinariamente cambiata, tra le altre cose

(ANSA/CESARE ABBATE)
(ANSA/CESARE ABBATE)

Il ministero della Salute ha comunicato venerdì che i nuovi contagiati da coronavirus accertati nelle precedenti 24 ore erano stati 947, con un aumento significativo rispetto al dato del giorno precedente. È il dato quotidiano più alto da giovedì 14 maggio (992 nuovi contagi), quando in Italia si stavano per riaprire negozi, bar, ristoranti e uffici pubblici dopo il lockdown e dopo i primi allentamenti delle restrizioni introdotti a inizio maggio. Il confronto tra i dati di oggi e quelli di metà maggio, tuttavia, racconta solo una minima parte dell’evoluzione del virus in Italia: bisogna fare attenzione a questo tipo di paragoni, perché si rischia di non capire cosa stia succedendo oggi.

Negli ultimi tre mesi, infatti, sono cambiate moltissime cose: le categorie di persone sottoposte al tampone, l’età mediana dei nuovi contagiati, la capacità delle autorità sanitarie locali di svolgere attività di contact tracing (tracciamento dei contatti dei positivi), tra le altre. È cambiata in maniera sostanziale anche la situazione negli ospedali delle regioni più colpite: un dato estremamente importante da considerare, visto che il lockdown era stato introdotto con l’obiettivo principale di evitare il collasso del sistema sanitario e le sue conseguenze.

Partiamo dai numeri.

I numeri del 14 maggio e quelli del 21 agosto sul contagio da coronavirus sono simili solo per quanto riguarda i nuovi contagiati. Il 14 maggio le morti legate al coronavirus erano state 262, il 21 agosto 9; le persone ricoverate in terapia intensiva erano 855, oggi 69; i ricoverati in altri reparti erano 11.453, oggi 919; quelli in isolamento domiciliare erano più di 64mila, oggi sono 15.690. La differenza tra questi numeri è straordinaria e implica soprattutto che oggi la pressione sugli ospedali sia significativamente inferiore rispetto a quella di metà maggio, dove comunque la tendenza di nuovi contagi e nuovi ricoveri era in sensibile calo.

Per quello che ne sappiamo, la discrepanza di questi numeri non si deve al fatto che il virus sia “mutato”, come alcuni hanno suggerito in queste settimane (per ora ci sono solo ipotesi sul fatto che il virus possa essere “mutato”).

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La cosa più importante da tenere a mente è che oggi stiamo testando tipologie di persone diverse. A metà maggio, poco meno di un mese dopo il picco dell’epidemia, le varie regioni italiane avevano iniziato soltanto da qualche settimana a testare anche persone non ricoverate in ospedale – operatori sanitari, ospiti delle RSA, tra le altre – e in maniera poco sistematica. Come noto, moltissime persone tra marzo e aprile hanno contratto il coronavirus, anche con sintomi importanti, e non sono mai state testate. Inoltre, in quelle settimane non si testavano ancora in maniera diffusa i contatti dei positivi nei posti di lavoro, e in generale le autorità sanitarie locali stavano solo cominciando a reclutare personale da destinare al tracciamento dei contatti dei positivi. Oggi tutta questa parte funziona molto meglio, sia per la migliore organizzazione dell’intero sistema, sia per la minore pressione sul sistema sanitario.

Come ha scritto Matteo Villa, ricercatore dell’ISPI, negli ultimi mesi l’Italia è diventata sempre più “brava” a intercettare il virus, quindi a trovare le persone positive: e questo si osserva guardando la cosiddetta “letalità apparente”, cioè il numero di morti sul numero dei casi accertati 7-12 giorni prima, che si dovrebbe confrontare con la cosiddetta “letalità plausibile”, cioè quella ottenuta se si riuscisse a individuare tutti i casi positivi presenti nel paese. Più si è capaci a individuare i casi positivi, più la “letalità apparente” si avvicina a quella “plausibile”.

A fine marzo l’ISPI aveva quantificato la “letalità plausibile” in 1,15 per cento.

Se a metà maggio la “letalità apparente” era superiore al 14 per cento, oggi è all’incirca l’1,4 per cento, un dato molto vicino a quello della “letalità plausibile” calcolato dall’ISPI. Essere diventati più bravi a rintracciare i casi positivi significa aver iniziato a cercarli al di fuori degli ospedali e di alcune categorie particolari, di fatto avvicinando i numeri ufficiali diffusi dalle autorità sempre di più a quelli reali.

Questo significa che i nuovi casi positivi reali di metà maggio erano molti di più dei nuovi casi reali comunicati il 21 agosto, perché oggi siamo diventati più bravi a trovare i nuovi positivi anche se hanno pochi sintomi o nessun sintomo. E spiega anche perché diversi ospedali che a maggio ospitavano ancora pazienti positivi al coronavirus, come l’ospedale di Bergamo, sono praticamente tornati alla normalità: i pazienti con la COVID-19 vengono mandati in altri ospedali lombardi, come gli Spedali Civili di Brescia. Secondo i dati comunicati dagli stessi Spedali, a metà maggio i pazienti con la COVID-19 ricoverati nella struttura erano 213, di cui 15 in terapia intensiva; oggi sono 56, di cui 4 in terapia intensiva (e oggi, a differenza di maggio, i ricoverati provengono anche da ospedali di altre province).

La situazione attuale negli ospedali italiani è stata affrontata anche nell’ultimo rapporto settimanale dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), riferito alla settimana tra il 10 e il 16 agosto. Il rapporto dice: «Sebbene sia segnalato, in alcune Regioni, un aumento nel numero di ospedalizzazioni, in nessuna delle Regioni/PPAA [province autonome] sono stati identificati segnali di sovraccarico dei servizi sanitari e i focolai presenti sono prontamente identificati ed indagati». 

La minor pressione sugli ospedali dipende anche dall’età mediana delle persone che oggi contraggono il virus. Come segnala l’ultimo rapporto dell’ISS, oggi l’età mediana dei nuovi contagiati – o almeno, di quelli che risultano positivi al tampone – è di 30 anni, molto inferiore rispetto ai momenti di picco dell’epidemia. Questo significa anche che c’è minore gravità clinica dei casi diagnosticati, perché la maggior parte dei nuovi positivi è asintomatica.

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Tutte queste ragioni spiegano il motivo per cui i dati di metà maggio – quando in Italia stava finendo il lockdown – siano molto poco paragonabili rispetto a quelli di metà agosto – con diverse settimane di aperture quasi totali alle spalle. È diversa la situazione degli ospedali, e sono diverse le categorie di persone sottoposte a un tampone.

Questo non significa che gli aumenti dei nuovi positivi non siano preoccupanti, o che non ci sia il rischio di una cosiddetta “seconda ondata”: l’incremento dei casi negli ultimi sette giorni è stato il più alto registrato in Italia dalla settimana che si era conclusa il 21 maggio, e questa che sta finendo è stata la quinta settimana consecutiva di aumento dei nuovi casi. Per confrontare i dati di oggi con quelli di mesi passati, tuttavia, è necessario considerare anche diversi altri fattori, oltre al dato dei nuovi positivi, e guardare la situazione nel suo insieme.