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  • Giovedì 11 giugno 2020

L’enorme perdita di gasolio in Siberia rischia di raggiungere il Mar Glaciale Artico

Nonostante gli sforzi fatti per contenerla, è arrivata nel lago Pyasino che attraverso un suo emissario è collegato con il mare

(Vasiliy Ryabinin via AP)
(Vasiliy Ryabinin via AP)

Il 29 maggio, vicino a Norilsk, nella regione russa del Krasnojarsk della Siberia settentrionale, c’è stato un incidente in una centrale elettrica: una cisterna ha perso circa 20mila tonnellate di gasolio, che si sono riversate nei fiumi Ambarnaya e Daldykan, colorandoli di rosso e arrivando a decine di chilometri dal luogo dell’incidente. L’impianto è gestito dalla NTEK, una sussidiaria della Norilsk Nickel, una delle più importanti società al mondo di estrazione e fusione di nichel e palladio.

Nonostante il presidente russo Vladimir Putin avesse dichiarato lo stato di emergenza dopo l’incidente e nonostante gli sforzi fatti negli ultimi giorni per contenere la perdita, il gasolio è arrivato fino al lago Pyasino. Al momento è confinato nel lago, che ha un bacino di oltre 700 chilometri quadrati e che da ottobre a giugno è prevalentemente ghiacciato, ma la preoccupazione delle autorità è che con l’arrivo del caldo il gasolio possa raggiungere il fiume Pyasina e arrivare nel Mar Glaciale Artico. Alexander Uss, governatore del Krasnoyarsk, ha detto che al momento le autorità stanno facendo tutto il possibile per contenere la perdita nel lago ed evitare che il gasolio arrivi nel fiume Pyasina, un’eventualità che causerebbe un disastro ambientale.

La perdita di gasolio vista dall’alto (European Space Agency via AP)

Già ora però i danni ambientali prodotti dalla perdita sono enormi, nonostante siano stati rimossi circa 23mila metri cubi di terreno inquinato. Secondo gli ambientalisti di Greenpeace ci vorranno decine di anni per rimediare agli effetti che la perdita di gasolio ha avuto sulle acque dei fiumi, sugli animali che bevono quell’acqua e sulle piante che crescono nella zona. Greenpeace ha paragonato l’incidente a quello avvenuto nel 1989 nello stretto di Prince William, in Alaska, quando una petroliera di proprietà della ExxonMobil si incagliò su una scogliera disperdendo in mare 40,9 milioni di litri di petrolio.

L’incidente è avvenuto a causa dal cedimento dei pilastri che sostenevano un serbatoio di gasolio, e secondo Sergei Dyachenko, direttore delle operazioni di Norilsk Nickel, la causa non sarebbe da attribuire all’azienda ma all’anomalo riscaldamento climatico. L’intera area è stata infatti costruita sul permafrost, il terreno perennemente ghiacciato che contraddistingue la Siberia e altre zone del Nord Europa e del Nord America e che, a causa dell’aumento delle temperature, si sarebbe sciolto.

Nel frattempo è stata avviata un’indagine per appurare le cause dell’incidente e tre dirigenti dell’impianto, tra cui il direttore Pavel Smirnov, sono stati arrestati: secondo gli inquirenti si sarebbero dovuti fare grandi lavori di riparazione all’impianto nel 2018, ma i dirigenti non hanno fatto nulla e hanno continuato a farlo funzionare pur conoscendo i possibili rischi.

Gli ambientalisti hanno accusato però la società di stare usando il riscaldamento globale come scusa per non assumersi le proprie responsabilità nel non aver fatto adeguati controlli sulla stabilità della struttura. Sia il WWF che Greenpeace hanno detto che il rischio che il permafrost si sciogliesse e portasse al cedimento di edifici era conosciuto da tutti, e che le autorità locali e la società avrebbero potuto evitarlo mesi prima mettendo in sicurezza il serbatoio.