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  • Lunedì 25 maggio 2020

Possiamo fidarci dei dati della disoccupazione in Cina?

Quelli ufficiali continuano ad essere stranamente stabili, e ne circolano di molto differenti

Pechino, 16 maggio 2020 (Kevin Frayer/Getty Images)
Pechino, 16 maggio 2020 (Kevin Frayer/Getty Images)

Nonostante la pandemia e la conseguente crisi economica, i dati ufficiali sulla disoccupazione in Cina sembrano essere «inspiegabilmente costanti» o «sospettosamente stabili», come hanno detto alcuni analisti. Il numero reale dei cittadini cinesi senza un lavoro, sostengono, sarebbe molto più alto di quello dichiarato. C’è però una ragione se il governo continua a sostenere che non sia così: quello del tasso di disoccupazione è infatti un dato politicamente molto sensibile per il Partito Comunista cinese e per la sua presa sul paese.

Stando agli ultimi dati ufficiali comunicati dall’Ufficio nazionale di statistica cinese, a marzo il tasso di disoccupazione nei principali centri urbani del paese si era stabilizzato a quota 5,9 per cento, in discesa rispetto al livello record del 6,2 per cento riportato a febbraio. Il 15 maggio è stato reso pubblico il tasso di disoccupazione di aprile: 6 per cento. Sono cifre bassissime, anche tenendo conto dell’impatto minore che la pandemia ha avuto in Cina rispetto ad Europa e Stati Uniti, e molti le ritengono poco credibili.

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Gli analisti dell’Economist Intelligence Unit, con sede a Londra, sostengono che il tasso di disoccupazione in Cina sia attualmente intorno al 10 per cento, e che 250 milioni di lavoratori cinesi perderanno nei prossimi mesi tra il 10 e il 50 per cento dei loro guadagni. Il 24 aprile una società di intermediazione cinese, la Zhongtai Securities, con sede nello Shandong, aveva stimato che il tasso di disoccupazione fosse oltre il 20 per cento e che il numero dei cinesi senza un lavoro fosse pari ad almeno 60 milioni. Nella ricerca, l’aumento veniva attribuito all’impatto della pandemia sui servizi e sulle piccole imprese, che offrono la maggior parte delle opportunità di lavoro. Il rapporto è diventato però inaccessibile sui social media e uno dei suoi autori ha detto a Bloomberg che era stato ritirato.

Pochi giorni dopo la sua pubblicazione il Global Times, legato al quotidiano ufficiale del Partito comunista cinese, ha pubblicato un’inchiesta per smascherare le teorie “occidentali” secondo le quali i dati ufficiali sulla disoccupazione della Cina sarebbero inaffidabili e molto inferiori alla realtà. La Cina, ha scritto il Global Times, «ha fatto costanti sforzi per migliorare i propri metodi statistici», ma il suo attuale modello di indagine sulla disoccupazione «è in linea con gli standard internazionali e può generalmente riflettere lo stato occupazionale del paese». Nell’inchiesta si sosteneva infine che i media stranieri non avessero una corretta comprensione «delle condizioni uniche e complesse» del paese «e degli sforzi dei funzionari per migliorare i metodi per riflettere i cambiamenti di un mercato del lavoro in continua evoluzione».

Per anni il tasso di disoccupazione ufficiale cinese – che statisticamente viene definito come “disoccupazione urbana registrata” – è stato calcolato sul numero totale delle persone registrate come disoccupate rispetto alla forza lavoro totale dei disoccupati e degli occupati. Ma prevedeva requisiti molto stringenti per rientrare nel calcolo ufficiale, ed escludeva varie categorie con un’incidenza potenzialmente enorme, per esempio i disoccupati nelle zone agricole e i lavoratori migranti, molto rilevanti in termini numerici poiché rappresentano circa un terzo dei lavoratori urbani. Un altro problema nella metodologia era rappresentato dalla reticenza dei cittadini a registrarsi presso gli organi locali di servizio all’occupazione per cercare un lavoro: per evitare complicazioni burocratiche e per lo stigma sociale legato al fatto di essere senza lavoro.

Dal 2002 al 2017 la disoccupazione in Cina è ufficialmente rimasta tra il 4,3 e il 3,9 per cento, subendo modifiche molto lievi anche durante la crisi finanziaria globale del 2008. Nel 2018 il metodo di calcolo è stato modificato per renderlo meno esclusivo e per comprendere, almeno in parte, anche i lavoratori migranti. Ma anche dopo la modifica i tassi sono rimasti sostanzialmente stabili, portando alcuni analisti a dichiarare che fossero dati «praticamente inutili».

Il tasso di disoccupazione è un dato politicamente molto sensibile per il Partito comunista cinese, poiché rappresenta uno degli elementi principali della legittimità del partito stesso e della piena accettazione della sua autorità: «In un certo senso il governo cinese, più di qualsiasi altro governo al mondo, si preoccupa della propria legittimità», ha detto Jin Li, professore di Economia all’Università di Hong Kong. Parte di questa legittimità si basa sul fatto «di offrire un patto, un contratto sociale: tu ti fidi di noi, noi ti diamo un buon risultato economico». Un alto tasso di disoccupazione e un’economia in stallo incrinerebbero quella promessa e metterebbero in crisi la pretesa del Partito all’autorità assoluta.

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La scorsa settimana, per la prima volta nella sua storia, la Cina non ha fornito un obiettivo per il proprio PIL durante l’annuale rapporto sullo stato della propria economia all’Assemblea nazionale del popolo, l’unica camera del Parlamento cinese. Il primo ministro Li Keqiang ha motivato la decisione spiegando che «la grande incertezza della pandemia da coronavirus» condizionerà pesantemente l’economia cinese e ha citato l’importanza dell’occupazione dei neolaureati per la stabilità sociale. Jin Li ha spiegato a Quartz che nella propria narrazione, il Partito comunista offre da sempre ai giovani l’immagine di un paese «grande e indomabile». Gli universitari cinesi sono dunque nati e cresciuti con questo messaggio e con conseguenti alte aspettative sul loro futuro lavorativo. Se le loro aspettative venissero ora deluse, le conseguenze potrebbero essere particolarmente significative.

I milioni di laureati che quest’anno faranno fatica a trovare lavoro sono una delle questioni attualmente più preoccupanti. Si parla di circa 8,7 milioni di studenti che si dovrebbero laureare in estate: un terzo, secondo stime indipendenti, non troverà però un impiego. La preoccupazione delle autorità è piuttosto evidente: qualche settimana fa, per la prima volta, il governo ha annunciato l’estensione delle indennità di disoccupazione e di altre forme di aiuto anche ai lavoratori migranti, da sempre considerati cittadini di seconda categoria ed esclusi dal sistema di previdenza sociale. Il ministero dell’Istruzione ha anche previsto un piano di aiuto per i nuovi laureati che prevede l’aumento del numero delle persone assunte da parte delle imprese di stato e dei reclutamenti nelle forze armate.