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  • Martedì 19 maggio 2020

A guardare nei ricordi

Diario sparso degli ultimi quattro anni del Post attraverso gli incipit della sua famosa newsletter

La newsletter quotidiana del Post ha compiuto quattro anni da poco, e cercando nell’archivio ci siamo resi conto di come sia diventata una specie di diario quotidiano a metà tra una lunga stagione di The Office e un utile promemoria di cose che non si ricorderebbe bene neanche la redazione. In questi giorni di lavoro da casa, è anche una specie di promessa che torneremo a quelle scrivanie. Per consuetudine la newsletter spedita agli abbonati poco dopo le 18 – prima di aggiornare con notizie, link, storie e altre cose interessanti della giornata – si apre quasi sempre con un aneddoto o una considerazione che riguarda il lavoro della redazione o la convivenza quotidiana. Ne abbiamo radunati un po’ alla rinfusa, di questi incipit di diario che ormai sono diventati mille.

Le prime pagine dei quotidiani, ogni mattina sul Post, sono una lunga storia: ci siamo chiesti spesso come considerare la contraddizione tra un giornale online che guarda ai cambiamenti e agli sviluppi, e questa attenzione a mezzi di informazione che salvo sporadici aspetti si mantengono molto uguali a se stessi e dentro un declino anche troppo commentato. Però sono tuttora un pezzo importante e affascinante del racconto delle cose, e insomma a maggio del 2011 cominciammo a mettere online queste desuete “prime pagine” e ora sono quasi otto anni che con abnegazione e dedizione il titolare dell’operazione vi si dedica dalle seiemmezza di ogni mattina Santo Stefano escluso. Oggi il direttore ha rievocato l’inizio, e mal gliene incolse.

Ci sono giorni complicati in cui il lavoro si accumula, per alcuni redattori, o procede in parallelo. Oggi c’era chi seguiva contemporaneamente l’attività del Parlamento europeo e la discussione al Parlamento britannico, sottolineando le stranezze logistiche e cerimoniali del secondo.
È stato subito ripreso, con la minaccia più spaventosa di tutte per la redazione esteri:

Succede raramente che un’agenzia fotografica ritiri una fotografia che aveva distribuito ai giornali, ma quando succede di solito lo fa con delle mail minatorie in cui viene intimato il cosiddetto MANDATORY KILL, il ritiro immediato del file, la sua distruzione dai server, l’incenerimento degli stessi. Insomma, quelli prendono molto seriamente il ritiro di una foto che per qualche ragione ritengono inadatta alla pubblicazione. Il MANDATORY KILL di ieri riguardava purtroppo una foto del Rally Dakar che mostrava una moto scollinare una duna (sdunare?), duna che per come era stata scattata la foto sembrava sfidare le leggi della fisica. Ci avevamo costruito tutto un simpatico articolo intorno – forse qualcuno lo avrà anche letto – ma abbiamo poi dovuto mestamente ritirare la foto e aggiornare l’articolo. Ecco, ora sapete perché.

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L’homepage del Post. O la homepage del Post, come scriverebbe il direttore. È in agenda di ripensarla, studiarla, capire se vada bene così o sia il momento di adeguarla a eventuali diversi comportamenti della redazione o dei lettori. C’è in generale il tema ormai vecchio della perdita di centralità delle homepage al tempo dei social. Insomma, ci pensiamo, e ce ne occuperemo, appena smaltite alcune altre priorità. Intanto, ci stanno pensando in tanti, in giro: Repubblica.it, per esempio, ha proprio chiesto dei pareri, due giorni fa. A proposito di Repubblica, anche il Foglio ha notato l’anomala “autocritica” di sabato. Invece sulla Stampa stamattina Massimo Gramellini ha deciso di concludere la sua rubrica smentendola, “ma facciamo finta che sia tutto vero”.

Da tempo c’è un sensibile declino della fruizione delle immagini su internet: un po’ siamo assuefatti e bombardati da gallery mediocri e acchiappaclic, un po’ il mobile disincentiva la visione delle foto, e insomma anche qui al Post con la nostra attenzione e adorazione per le foto belle, notiamo da tempo un calo di interesse. Oggi riunione per capire il da farsi, se assecondare, reagire, adattarsi, cosa inventarsi: che è pieno di belle foto, in giro.

Tensione in redazione oggi: alcuni irrispettosi commenti nei confronti di una sonda spaziale sono stati repressi con severità da Emanuele Menietti, esperto cosmico ufficiale del Post. Anche un dibattito sull’uso del verbo atterrare, parlandosi di Marte, non ha osato attecchire. Veniamo quindi sobriamente alle notizie delle ultime 24 ore.

È in corso un lavoro di ottimizzazione ecotecnologica della redazione del Post: è stato nominato un “Responsabile Della Raccolta Differenziata” che incentiverà una distribuzione consapevole dei rifiuti prodotti qui dentro. Sembra una cosa banale e tardiva, ma sappiate che nei palazzi per uffici la differenziata non è così facilitata (soprattutto per i torsoli di mela), e il confronto con le imprese di pulizie complesso. Comunque, per maggiore efficienza l’RDRD ha prodotto delle spartane etichette per i bidoni, vintage.

Il direttore del Post sta chiudendo il programma del Festival di Pescara, di cui si occupa da cinque anni, e oggi a pranzo ha finto di introdurre dei conviviali elementi di conversazione per ottenere in realtà delle consulenze soprattutto sulla serata finale (quella a cui Morgan diede buca per due volte l’anno scorso, tema intoccabile): si è parlato anche di Al Bano e Mengoni, nei momenti più alti dell’elencazione. Invece sono dati per certi almeno due direttori di quotidiani e un rilevante rappresentante delle istituzioni.

C’è quella categoria di eventi/notizie che al Post crea scompiglio ogni volta: i rituali folkloristici/zoologici/stagionali ogni anno uguali ma ogni anno spettacolari. La fioritura dei ciliegi in Giappone, le cerimonie del Kumbh Mela in India, gli stormi di storni nei cieli inglesi, i dannati tori di Pamplona, l’autunno del New England, e decine ancora. Cosa facciamo? Mostriamo di nuovo le solite foto, uguali all’anno scorso, che comunque sono belle e magari qualcuno non le ha mai viste?  Beh, le solite torri umane a Tarragona, diciamolo, quest’anno hanno foto anche migliori del solito.

Una volta certi alberghi e locali avevano delle “cabine telefoniche” interne con pesanti porte e pareti insonorizzate e una specie di oblò, dove si potevano usare dei telefoni pubblici. Forse servirebbe qualcosa di simile qui al Post, dove la promiscuità complica un po’ la ricerca di privacy e le telefonate private vengono gestite: sul pianerottolo, nel ripostiglio, nella doccia (abbiamo una doccia, in effetti) o affacciati fuori dalla finestra, ma la stagione non aiuta.

Allora, mettiamoci d’accordo su questa cosa: nella newsletter di ieri abbiamo vergognosamente scambiato due termini di due questioni, totalino quattro. Un casino: tra Renzi e Zagrebelsky, tra la Libia e la Siria (gli articoli linkati erano invece corretti). Dovesse risuccedere (“Noooo! Non succederà più! Ma che, scherzi?”), facciamo che se anche ce ne accorgiamo subito come ieri, non vi molestiamo con altre mail di erratecorrigi o scuse o assestamenti, a meno che non si tratti di vita o di morte, tipo una fine del mondo a minuti. E che ci scusiamo il giorno dopo, con calma. Ok? Il fotografo olandese è stato ucciso in Libia, e Scalfari l’ha data vinta a Renzi. Scusate.

Oggi c’è stato dibattito su come chiamare Meghan Markle: “Meghan Markle”, direte voi. E anche parecchi di noi: esiste però una corrente di pensiero (anche piuttosto agguerrita) che pretenderebbe che da sposata fosse solo Meghan, oltre a tutti i suoi nuovi titoli. La vicenda è complessa (E Catherine Middleton? E Diana Spencer? Ed Elizabeth Mountbatten-Windsor?), ma su Meghan Markle noi restiamo repubblicani, rispettosamente.

A un certo punto oggi in giro per la homepage del Post c’erano dieci punti interrogativi: e quindi ci siamo fatti delle domande. Non tutti chiudevano un titolo, ma i titoli in forma di domanda sono un vecchio tema di dibattito nelle redazioni che dibattono. Qualcuno è radicalmente contrario (“dobbiamo dare risposte, non fare domande”), noi li pensiamo utili nei casi in cui la domanda citi una curiosità condivisa a cui cerchiamo di rispondere, senza trovare certezze. Ma usati con moderazione.

Dice che i lettori vogliono sapere di più, condividere anche quello che c’è dietro agli articoli, e a come vengono prodotti: beh, sappiate allora che eventuali disservizi nel Post in questi mesi sono da attribuire alla protratta chiusura della passerella di Porta Genova, passaggio fondamentale della giornata del Post. Ora tocca fare tutto un giro, e pare che durerà ancora mesi. Al Wall Street Journal queste cose non succedono.

Visto che comunichiamo per lo più scrivendoci e quindi alziamo poco lo sguardo dai computer, tendiamo a usare le chat anche per qualche appunto di logistica.
Avvertiamo se ci allontaniamo dal computer, se occupiamo la sala riunioni, se ci assentiamo per una telefonata o un’intervista, se andiamo a prendere un pacco che abbiamo ricevuto. Anche chi non è in redazione in quel momento riceve queste comunicazioni organizzative. Senza quel minimo di necessario contesto, lette da lontano a volte sono piuttosto singolari.

La successione di associazioni mentali è stata abbastanza tortuosa, ma Gabriele Gargantini del Post era tornato da Oslo e a un certo punto siamo finiti a parlare dei musei navali, e poi del Fram, e poi di Thor Heyerdahl, e il direttore ha tirato fuori con una certa acrobazia l’epica impresa dei fratelli Amoretti (che poi divenne di un solo Amoretti e del suo amico) nel 1999. Dovremmo raccontarla daccapo, un giorno di questi. Comunque, abbiamo scoperto che lui in questo momento sta circumnavigando la penisola. A Milano intanto è agosto e si trova parcheggio, notava qualcuno: senza i traumi di quel famoso video sul parcheggio sotto casa, o la necessità di geniali invenzioni come questa.

Oggi era il compleanno di Gianni Barlassina del Post, ma la torta che aveva generosamente portato è stata rifiutata dal posto qui sotto dove abbiamo pranzato, per regolamenti sanitari: avremmo dovuto esibire “la lista degli ingredienti e la prova d’acquisto”, e Gianni non aveva sventatamente con sé la lista degli ingredienti. Sapevatelo, vi venissero idee simili.

C’è una vecchia lezione di giornalismo che ha devastato gran parte degli articoli che leggiamo tuttora, quella che prescrive la necessità di una “chiusa”, ovvero una conclusione un po’ solenne e lapidaria, come una pennellata finale, che autocompiaccia l’autore e faccia perdere tempo o sbadigliare il lettore: la “chiusa”, infatti, ha finito per diventare una routine anche su articoli di semplice cronaca, espletata scegliendo quasi sempre in un novero limitato e insignificante di frasi fatte e proverbi, che oggi in redazione abbiamo cominciato a elencare dopo esserci imbattuti in un articolo di cronaca che si concludeva con “Ci sarebbe molto da dire su quanto è successo”.
Chi vivrà vedrà.
Ogni commento è superfluo.
Ai posteri l’ardua sentenza.
Eccetera.

È una strana serata di partita della Nazionale: che non conta per la classifica, però c’è un certo friccico ner core lo stesso. Un po’ di noi la guarderà in redazione (anche se eravamo tentati dall’Irish Pub all’angolo), e non abbiamo ancora trovato una posizione diplomatica definitiva sull’uso del termine “britannico” per l’Irlanda. Ci è stato contestato per rispettabili ragioni storiche e di identità, ma da un punto di vista geografico-toponomastico sono “isole britanniche”. Ordinaria amministrazione linguistica, sempre meglio che litigare ancora su “sindaca” (oggi il Corriere dopo tanto perorare i femminili scrive in un titolo “primo cittadino” di Virginia Raggi).

Siamo i primi ad ammettere un certo abbassamento del livello del dibattito, ma oggi qui si è parlato di ingredienti dell’insalata di riso estiva, e sarebbe scorretto da parte nostra fingere con voi che abbiamo affrontato il tema della crisi del liberismo. Il confronto principale – dopo cipolla a spicchi contro cipollina sottaceto – è stato intorno alla compatibilità dei würstel, sostenuta da una maggioranza ma su cui il direttore si è messo di traverso.

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Temi insoluti di rovello linguistico nel weekend: 1. ha senso definire la Vallonia “una regione del Belgio” (lo è, tecnicamente) quando le “regioni” del Belgio sono due, tolta Bruxelles autonoma, e sono l’essenza del Belgio? Non è come chiamare l’Inghilterra “una regione del Regno Unito”? 2. come traduciamo “lo aspetto dietro la palestra” che Biden ha detto a Trump? Così, o col più spiccio e un po’ ambiguo “lo aspetto fuori”?
Alla fine si fa una scelta e si resta coi dubbi. Così è la vita.

Ormai capita sempre più spesso che si venga iscritti a newsletter a propria insaputa, e se ne ricevono ogni giorno di nuove. Qualcuna è pure interessante, ma una volta l’etichetta imponeva di chiedere, prima. Questa newsletter, dateci atto, la riceve solo chi si è iscritto (con l’eccezione di una manciata di amici del Post a cui l’abbiamo rifilata a tradimento: sperando siano ancora amici). Comunque, il tasto per disiscriversi è in fondo, e vi vorremo bene lo stesso. Solo un po’ meno.

A un certo punto stamattina abbiamo litigato sul prezzo del latte. Si parlava di questa cosa qui, ma se ne parlava in chat di redazione, e questo complica abbastanza la chiarezza (il livello di guardia si raggiunge quando Slack avvisa “several people are typing”) e a un certo punto non si sapeva più chi stava attaccando Padoan, chi difendeva Padoan, chi sapeva quanto costa il latte, chi non lo riteneva importante e chi era allergico al latte (e quindi beve latte di capra, 2 euro e 29 al litro). Giriamo la riflessione a voi: posto che la domanda è sempre un’arma micidiale, è importante che un ministro dell’Economia sappia quanto costa un litro di latte? (secondo alcuni qui, è importante che se non lo sa dica una cifra a caso, per limitare i danni). Al Post invece interessano i fatti, e quindi abbiamo mandato un inviato al Carrefour.

Oggi uno di noi al Post ha scritto in chat “secondo me vince il sì”: faremo il suo nome solo se ci prende, altrimenti lo sfotteremo privatamente, ma ammirati dal fegato (come diceva quello: “metti un 3 nella schedina del Totocalcio: non esce mai, ma se esce sbanchiamo”).

Ieri sono circolati dei dati di traffico di Audiweb che mostravano un calo del Post del 71% rispetto a un anno fa, e un po’ di amici ci hanno scritto preoccupati. Forse i dati li ha visti anche il cameriere del ristorante dove abbiamo pranzato oggi, perché quando abbiamo chiesto il dolce ha risposto “guardate che non è compreso nel menu pranzo”. Per rassicurare tutti e farla breve – che è noiosa da spiegare – un anno fa Audiweb contava insieme al Post una serie di siti “affiliati” del gruppo Banzai, che da due mesi abbiamo escluso dal conteggio. Il Post da solo cresce, grazie a tutti (+22,1% di visite a ottobre su un anno prima, dato di Google Analytics).

La consueta sintonia di vedute al Post stamattina è stata un po’ scompigliata da una discussione sulla titolazione del pezzo che citava una vecchia battuta di Carrie Fisher sul proprio futuro necrologio. In osservanza al suo spiritoso desiderio – e al suo noto spirito – avevamo dapprima titolato “È morta Carrie Fisher, strangolata dal suo reggiseno”. Poi sono nati dei dubbi che qualcuno potesse prendere il titolo sul serio e non leggere l’articolo, o che comunque non fosse corretto attirare dei clic a partire da una battuta incomprensibile senza aver letto l’articolo. E abbiamo ripiegato su una cosa più didascalica. Scusaci, principessa, come dicevano quelli.

Abbiamo tutti le nostre storie eroiche o sfortunate di aerei presi o persi all’ultimo minuto, di pietosi impiegati delle compagnie aeree o gate irrimediabilmente chiusi, di piccoli errori che si trasformano in potenziali disastri logistici. Stamattina il direttore ha vissuto e condiviso la sua:

Oggi abbiamo un sacco di cose, quindi non perderemo tempo in ciance: solo per usare compiaciuti la parola “ciance”.

Non vi farete un’idea rassicurante dell’efficienza del Post, ma noi puntiamo sul fattore umano: e insomma, ora si sta rompendo la serratura della porta della redazione e necessita di un intervento impegnativo. Il direttore ha proposto che restiamo chiusi dentro per sempre (“tanto che altro avete da fare?”): due hanno riso.

Mentre a Milano arrivava Barack Obama, una nutrita compagine del Post si riuniva per una riunione in pausa pranzo qui nei dintorni (con l’ordine del giorno “cosa prendiamo di primo?”). Il tema è poi stato dirottato dai racconti dell’ospitale oste (che probabilmente è una ridondanza) che ha inserito un punto di vista nuovo nelle discussioni di questi anni sulla corruzione e la supplenza della magistratura: «Gli affari andavano benissimo, prima di Tangentopoli: poi da un giorno all’altro non venne più nessuno dei nostri soliti clienti».

Ci sono delle notizie su cui la diffidenza degli sgamati attiva subito un allarme, come quella del presunto gioco scellerato del “Blue whale”: sono leggende metropolitane che si perpetuano o hanno qualche elemento originale di verità che nessuno sa più ricostruire affidabilmente? Ma soprattutto, a cercare di raccontarle con le attenzioni del caso, si rischia di diffonderle comunque, o di farle diventare vere per qualche stupido meccanismo di emulazione? Non è che abbiamo la risposta, ma ce lo chiediamo: stavolta ne abbiamo scritto, perché continua a girare e riaffiorare in forme poco giornalistiche.

È stata una brutta nottata, cominciata così.

Oggi da queste parti era l’ultimo giorno di scuola e il parco dove a volte ci sediamo per mangiare era pieno di ragazzini che saltavano nella fontana, si lanciavano la farina e si spruzzavano di schiuma da barba urlando. Erano così belli che abbiamo rinunciato volentieri al nostro solito muretto a bordo vasca, e ci siamo messi in un angolo in disparte, per non disturbarli, a ricordarci di quando noi eravamo loro, e di quella felicità lì.

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In tutta la nostra attenzione – lontana dalla perfezione – agli errori, spesso adottiamo anche noi un errore tra gli errori frequente tra chi commette errori: ovvero chiamare eufemisticamente “refuso” un errore, per autoassolverci e farlo suonare meno grave. Oggi abbiamo diramato una circolare interna: non si chiami “refuso” quello che non è un refuszo. Che si comincia così e si finisce a candidare Boris Becker alle elezioni di Londra.

Stamattina abbiamo fatto una riunione piuttosto ricca di idee sul miglior sfruttamento di alcuni contenuti del Post. Ma abbiamo dichiarato esaurito il potenziale di invenzione quando dopo due ore il direttore ha proposto una versione a tutto schermo delle strisce dei Peanuts, intitolata “Enlarge your Peanuts”.
Poi nel pomeriggio se n’è andato un altro quarto d’ora a discutere se la “simulazione di dolore” nel calcio sia da chiamare simulazione, anche se non è una “simulazione di fallo”.
Vi chiederete dove troviamo il tempo di fare il Post. È tutto fatto a Bangalore, in realtà.

La settimana qui da noi è iniziata con un momento di spaesamento redazionale quando Pietro Cabrio si è fatto messaggero di una obiezione matematico/cronologica/evangelica rispetto a questa notizia: ne è seguita una discussione che è tornata fino alla nascita del Redentore e – malgrado l’inesistenza di un anno Zero – ha concluso che il primo gennaio 2000 era in questo millennio, e non nel precedente (non senza dissensi tuttora).

Tra le scelte di scrittura su cui abbiamo convenuto da anni al Post, una è che non si chiamano le persone col solo nome di battesimo: né che siano famose (“Silvio”, santi numi) né che non lo siano, e meritino un trattamento dignitoso e non infantilizzante. Abbiamo fatto un’eccezione recente parlando di un padre e un figlio con lo stesso cognome, che se no diventava tutto un po’ assurdo e cacofonico.

Questa newsletter ha rischiato di non essere spedita dopo che il direttore aveva annunciato licenziamenti di massa alla scoperta che alcuni redattori gli avevano taciuto un’iniziativa importantissima (vi risparmiamo le ovvie ragioni): la crisi sarà forse superata con un accordo che prevede nuove forme di rispetto quotidiano delle gerarchie. Chi scrive la newsletter è stato autorizzato eccetera.

Negli ultimi giorni abbiamo deciso di sdoganare – un po’ a malincuore – l’espressione “cani molecolari”, che ad alcuni ricorda più animali di questo genere. Poi ci siamo detti anche che forse persino noi – con tutto il lavoro sulla chiarezza e gli spiegoni – diamo ancora per scontate delle cose che per alcuni lettori non sono così implicite: e così proviamo a mantenere quel vecchio obiettivo di fare cose “elitarie per maggioranze” e abbiamo spiegato perché “maschilista e femminista non sono termini equivalenti” e perché un primo ministro donna e omosessuale, in Serbia, è una notizia.

È tornato da un viaggio in Texas (ampiamente documentato su Instagram) il vicedirettore del Post. Vi saluta caramente, che ora è impegnato a scegliere i programmi tv di stasera, compito a cui è stato delegato per riguadagnarsi la fiducia dei rimasti. Poi dovrà sistemare i tag in certi articoli del 2010 e correggere i refusi nei post dei blogger.

Di sicuro teniamo duro nella battaglia ormai perdente per l’uso del pronome “le” al femminile, piuttosto che “gli” da tutte le parti. Ma sulla terza plurale che facciamo, sdoganiamo questo “gli” o no? “Permetterà agli utenti di vedere chi gli ha messo un like” o “chi ha messo loro un like”? Più elegante il secondo ma più incespicante: la Crusca dice via libera a “gli”.

Domani viene una troupe della tv, ci ha avvisato il vicedirettore: sospettiamo che ce lo abbia detto perché gli piaceva scrivere “troupe”, ma a noi anche. Ci ha pure chiesto di non fare le briciole, che poi si vedono nelle riprese.

Il ritorno del vicedirettore del Post dal Texas aveva aperto un dibattito su “dove comincia il Far West” (lui sosteneva di esserci stato, altri non glielo volevano concedere, che abbassasse la cresta). Abbiamo quindi fatto delle ricerche e constatato che l’espressione “Far West” gli americani la usano pochissimo: dicono semplicemente “West” (o “Wild West”, o Frontiera) anche in quel senso lì, e in quel senso lì il West all’inizio cominciava quasi subito, dopo le prime colonie, dopo il Mississippi (e quindi anche il Texas, malgrado sia al centro degli Stati Uniti, era il nostro “Far West”): mentre poi si è chiamato genericamente “far west”, quello che era oltre le Grandi Pianure, proprio a Ovest del paese attuale. Insomma, Costa è andato nel Far West.

“Esponenzialmente” (o “in maniera esponenziale”) non è un modo come un altro di dire “tanto”: si riferisce alla crescita di un numero al crescere del suo esponente, ovvero – quanto avevate in matematica? – il numerino piccolo in alto che è per esempio “2” quando un numero è “al quadrato”. Ma senza farla tanto complicata, se una cosa cresce di molto, la sua non è una “crescita esponenziale”: deve crescere con aumenti sempre maggiori e molto rapidi. I prezzi degli ombrelloni negli ultimi anni non sono cresciuti “in maniera esponenziale”: sono cresciuti molto.

Mentre scriviamo o prepariamo degli articoli, al Post, diamo spesso loro dei titoli temporanei di lavorazione, prima di scegliere il titolo più chiaro e opportuno una volta finito: di solito sono titoli generici sul tema descritto (“Trattative Libia”, tipo), altre volte qualcuno preferisce usare valutazioni più personali, sperando di non essere sgamato.

Forse dobbiamo mettere un limite agli ambiti di intervento degli spiegoni del Post: oggi eravamo tentati da “perché i pappagalli si chiamano Loreto”, ma abbiamo rinunciato.

Elena Zacchetti, in quanto capo degli Esteri al Post, mostra due tratti essenziali del ruolo: una grande curiosità e un certo cinismo. Quindi oggi ha coinvolto la redazione in questa ricerca: “chi è stato l’ultimo leader di stato a essere ucciso mentre era in carica?”.

Ieri abbiamo sbagliato.
Insieme alla triste notizia della morte di Tom Petty, ieri sera è riapparso un vecchio fantasma della storia del Post, una lezione a cui siamo persino affezionati malgrado si tratti di un errore. Alcuni di voi lo ricorderanno, anche se sono passati sei anni.

Perché non pensiate che le discussioni qui sono sempre così astratte come quella sui progressi dell’Arabia Saudita, oggi parte della redazione ha protestato rispetto all’iniziativa di separare tra loro due grandi scrivanie e i relativi occupanti per favorire l’accesso alla porta d’ingresso della redazione. E due giorni fa si era posta la questione dell’accendere o no la luce verso una cert’ora rispetto a godersi il calare del sole intorno alla trasparente redazione del Post. Sono temi di interior design e condizioni di lavoro non secondari, in ultima analisi, per il conseguimento di un’informazione pluralista e di qualità.

C’è stata della tensione ai vertici del Post, oggi, quando il direttore ha chiesto di correggere in un articolo “ebrezza” e scriverlo con due bi: il vicedirettore ha ritenuto di segnalargli che anche con una bi è considerato corretto, e un possibile dibattito tra regola e prassi è rimasto tutto il giorno compresso in sguardi torvi e porte sbattute.
Ok, no, nessuna tensione: anche volendo sbatterle, non ci sono porte, al Post. Si possono sbattere solo quelle del bagno, ma la serenità regna ebbra. Ebra.
(anche perché il direttore nel frattempo era in treno, da dove riferisce di avere rovesciato il caffè sulla tastiera del computer: se aveste presente come noi quanto zucchero mette abitualmente nel caffè sareste più preoccupati).

Come tutti i gruppi di lavoro, anche la redazione del Post ha sviluppato un proprio lessico che si è ramificato nel corso degli anni: diciamo e scriviamo cose che a spettatori estranei potrebbero sembrare strane, e di molte ci siamo dimenticati l’origine. Non sappiamo più perché diciamo “balzo” per dire “vengo in redazione”, o quand’è stata la prima volta che il peraltro direttore è stato definito peraltro.
Ricordiamo però che per brevità a un certo punto cominciammo a usare “puffare” in sostituzione di “pubblicare un articolo sui nostri account social”. Per estensione, tutta l’attività sui social network è ormai definita internamente “puffing”. Potete immaginare come ci siamo rimasti male quando abbiamo scoperto che per coincidenza non siamo più gli unici a farlo. Ok, in quel caso è il nome del volatile e ha una g in meno, ma siamo comunque tristi.

Arianna Cavallo del Post è stata a qualche sfilata, nei giorni scorsi, e oggi siamo tornati a discutere di come si debba raccontare la Moda con un approccio Post: cercando di spiegare le cose a tutti, anche ai moltissimi profani, ma stando attenti a non diventare superficiali e ingenui rispetto a un mondo che ha articolazioni e dinamiche complesse e profonde. Alla fine la cosa che colpisce sempre tutti, la prima volta, è quanto poco durino le sfilate (10-15 minuti): forse dovremmo partire da questo genere di cose.

Per la ormai fortunata serie “casini che fa il peraltro direttore”, la mattina è cominciata forte. Il fotoromanzo è andato avanti a lungo, sappiate che è finita bene, ma non senza avventure prolungate nel sottosuolo milanese: ora siamo pronti per rapinare una banca col buco.

A dare le notizie, o raccontare le storie, che è quello che facciamo qui, ci si trova spesso a indicare l’ora in cui una cosa è accaduta, spesso in posti lontani del mondo, dove è notte quando qui è giorno, o viceversa. E insomma, ovviamente, bisogna scegliere se scrivere che ora era in Italia oppure là, e specificarlo: oltre a fare i conti dei fusi orari. E questo è il periodo più a rischio di errori con gli Stati Uniti: dove già i fusi orari sono quattro, ma in più c’è un altro temporaneo sfasamento, che richiede un’utile comunicazione interna da parte del nostro Capo del Tempo.

Al secondo giorno dopo le elezioni la redazione del Post conta qualche caduto, ma sono ore in cui non ci si può fermare.
Con un severo monito il direttore ha esortato i redattori sopravvissuti a stare molto alla larga dalle banali formule belliche e dalle trite metafore applicate alla politica: «Non si scende in campo, non si conquistano seggi, non ci si sfida, non si corre: si ottengono voti, si ricevono, magari si prendono, possibilmente non si raccolgono», ha ricordato col consueto rigore.

Con gli articoli davanti ai nomi dei giornali non c’è regola, solo consuetudini ogni volta proprie: il Times è il quotidiano di Londra (o il New York Times se siete negli Stati Uniti), Time senza articolo è il settimanale americano, Le Monde solo Giuliano Ferrara lo chiama il Monde, coi tedeschi poi è lo Spiegel e la Zeit, il Corriere ha l’articolo, Repubblica no, ma ci sono minoranze per cui sì, la Repubblica.
Noi comunque siamo il Post, non Post-punto-it o il-Post-punto-it. Ma non si legge un articolo “su il Post”: sul Post.

Ieri sera le notizie da Toronto hanno spinto anche noi a scrivere frettolosamente che un furgone aveva “investito la folla”: dopo ci siamo chiesti, ma in questi casi è sempre “una folla”? O persone che camminano su un marciapiede, e il termine è usato sbrigativamente, rappresentando una situazione sbagliata? Ci è sembrato il secondo caso, e abbiamo corretto.

Come sapete, al Post ci sono regole molto rigide per quanto riguarda l’uso dei contenuti altrui. Se si cita, si linka. Non si pubblicano immagini di cui non si possiedano i diritti, o che il fotografo o un ufficio stampa non ci abbia espressamente autorizzato a pubblicare (fa eccezione il caso in cui si trovino all’interno di un tweet o di un post pubblico su Facebook che renda chiara la loro origine: se è così integriamo il tweet o il post nel nostro articolo).
Non si usa materiale grafico di cui non possediamo diritti o autorizzazioni.
Certo, a volte la tentazione è forte. Ma la ferrea disciplina ha sempre la meglio.

Quella cosa di applaudire quando atterra l’aereo divide i popoli: molti lo fanno, molti si fanno venire un esaurimento nervoso quando i primi lo fanno (il direttore del Post chiede di far sapere che con la vecchiaia è diventato più tollerante di un tempo). Poi c’è un altro fenomeno sociale strano, e ne ha scritto Luca Bottura: com’è che in tanti si mettono inutilmente in fila con grande anticipo agli imbarchi, coi posti assegnati e i bagagli ridotti? Comunque vogliamoci bene tutti.

Non è un periodo in cui prevediamo nuovi arruolamenti o collaborazioni, al Post, ma naturalmente ogni giorno qualcuno scrive mandando dei curriculum e delle offerte: oggi ci è arrivato un curriculum il cui titolare esponeva con grande sincerità i suoi limiti e le sue inadeguatezze, e ci siamo chiesti se potesse essere una strategia migliore che non vantare le proprie doti e presunte abilità. Per essere invitato a bere una birra, più probabilmente.

Non sappiamo più come dirvelo, probabilmente abbiamo già usato tutti i titoli possibili. Vi va bene: «Ancora niente governo» o è banale?
Preferite un omaggio ai modi-di-dire-dell’internet come: «E anche oggi si fa il governo domani»? O è più elegante: «Si aspetta ancora per il governo»?
Altre opzioni che abbiamo scartato: «Se ne riparla domani: sorpresi?», «Domani forse avremo un governo ma ormai non crediamo più a nulla», «Domani speriamo di avere un governo perché i nostri familiari non ci vedono da 88 giorni e cominciano a preoccuparsi», «Abbiamo un governo! Scherziamo: dai, non abbassate la guardia proprio adesso!», «Governo: figuriamoci», «Il giorno della marmotta», «Il deserto dei Tartari», «No».

Le Canzoni, un’altra newsletter per gli abbonati del Post.

Come forse sapete, la redazione del Post – insieme a tante altre – utilizza alcuni programmi che mostrano in tempo reale quante persone stanno leggendo ogni articolo che pubblichiamo. I dati sono sempre istruttivi: i lettori del Post sono piuttosto equilibrati nella distribuzione della loro attenzione tra notizie serie e notizie leggere, contenuti “alti” e “bassi”. L’estate però rimescola priorità e preferenze, modifica comportamenti e interessi, e genera qualche cinismo tra i redattori.
Mentre notavamo che la notizia sul nuovo messaggio di al Baghdadi veniva letta molto meno del previsto, qualcuno ha detto tra stupore e sconsolatezza: «Certo che l’ISIS non va più come una volta».

Oggi abbiamo pubblicato questo titolo:
Chi ha scelto chi al Draft NBA 2018
I Phoenix Suns hanno prevedibilmente scelto il centro DeAndre Ayton, mentre Luka Doncic giocherà nei Dallas Mavericks
È nato un dibattito in redazione se non contenesse troppi nomi e termini criptici e se l’ambito della notizia sarebbe stato capito da tutti, senza indicarlo: alla fine lo abbiamo aggiunto – il basket – ma una minoranza ha continuato a sostenere che “l’NBA lo sanno tutti cos’è”, e ora stiamo chiedendo a ogni fattorino che suona alla porta o zia che telefona se sanno cos’è l’NBA.

Ci sono due cose che qui al Post ci danno fastidio di come i giornali trattano gli anniversari. Quando celebrano quelli non tondi (“63 anni fa venne fondata la Autobianchi”: ma perché 63? Non si poteva aspettare almeno il 65?) e quando li celebrano in anticipo (per cui oggi leggerete la commemorazione di una cosa successa “50 anni fa tra due giorni”). Quindi immaginate la sorpresa della redazione:

È un vecchio tormento morale al Post, come definire le “spettacolari” foto di grandi catastrofi senza suonare insensibili – è un contagioso cinismo del giornalista a cui ci sforziamo di resistere, non è facile – nei confronti delle tragedie che implicano: ne discutemmo ai tempi del terremoto neozelandese quando il Post non aveva neanche un anno, poi dello tsunami giapponese, e di molte altre, come ora l’uragano Michael.

Certo, siete tutti abituati a sentirlo dire e a leggerlo, anche noi: ma oggi ci siamo chiesti, è corretto dire “la lotta a” qualcosa? (la lotta alla droga, la lotta al terrorismo, la lotta alla mafia,  la lotta al cacao illegale). Non è che ci ha fuorviato a un certo punto “la guerra a”, che è una cosa diversa? In fondo non diciamo “ho fatto la lotta a te” o “ti ho fatto la lotta”, come con la guerra: suona meglio “la lotta contro” qualcosa o “la lotta con” qualcuno o qualcosa.  E anche Treccani non cita mai “lotta a”. Ora, non proporremo certo la lotta-alla-lotta-a, ma saremo meno indulgenti.

La cosa con cui regolate il volume, quella rotonda, come la chiamate? Ok, ora avete le due freccette, sull’autoradio, ma ci siamo capiti: quella con cui regolate la temperatura dello scaldabagno; o del frigorifero.
Rotella? Manopola? Disco? Selettore? Pomello? C’è stato un affollato dibattito oggi in redazione: poi qualcuno ha detto.
Ghiera.
Un oooh di ammirazione è durato alcuni secondi, poi qualcuno ha ribattuto “scrivi-come-magni!”, e alla fine ha vinto rotella.

Ogni tanto capita che le considerazioni sulle possibili fonti di ricavo alternative del Post prendano delle pieghe creative: per i primi anni ci lambiccammo spesso sull’ipotesi dei necrologi a pagamento, per dire (anche sul porno, in effetti). Ieri la consuetudine interna di coinvolgere i colleghi nelle frequenti operazioni di trasloco milanese dei redattori del Post ci ha fatto riflettere sull’opportunità di costruirne un business. Qualcuno ha pure tirato fuori il nome.

Di solito il grosso delle “Risposta Automatica” a questa newsletter arriva d’estate, quando in tanti vi mettete in vacanza e istruite i vostri software di posta ad avvisare che non leggerete le mail. Però capita anche durante l’anno, in misure minori: e le risposte automatiche più interessanti e indiscrete per noi guardoni delle vite altrui sono quelle che segnalano cambiamenti di vita robusti, non assenze di un giorno o due. C’è quello che si è laureato e non è più in quell’università californiana, quella che ha cambiato lavoro e ha lasciato il posto in banca, quella che si è presa dei mesi di maternità e non vedrà per un po’ questo account di posta. Sembrano buone notizie, insomma, e ci rallegriamo.

Anche se normalmente la loro identità viene protetta in questa newsletter, ci sono giornalisti del Post che si sono accorti che gli aneddoti di vita redazionale che vi raccontiamo riguardano più spesso loro che gli altri. L’osservazione ha creato un clima di diffidenza e ha limitato di molto la spontaneità di alcuni. Stamattina, quando qualcuno ha cercato di coinvolgere una redattrice in una conversazione scherzosa chiedendole un suo contributo, si è arrivati a questo:

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