Sappiamo troppe cose sul rapimento di Silvia Romano

E molte arrivano da interrogatori che avrebbero dovuto rimanere confidenziali, scrive Daniele Raineri sul Foglio

 Ansa/Matteo Corner
Ansa/Matteo Corner

Sul Foglio di oggi Daniele Raineri ha cercato di spiegare cosa non sembra aver funzionato nella gestione della liberazione di Silvia Romano da parte delle autorità italiane. Tra le altre cose, scrive Raineri, il suo rientro in Italia è stato gestito come uno «show» e ai giornali sono arrivate tantissime informazioni che sarebbero dovute rimanere private e che avrebbero dovuto essere gestite con maggior cautela: quella sulla conversione all’Islam di Romano, per esempio, di cui lei sembra aver parlato solo durante un interrogatorio e con una psicologa, poco dopo la liberazione.

Ora, non sappiamo nulla delle scelte di fede di Silvia Romano e riguardano soltanto lei, ma che l’annuncio della sua conversione dopo diciotto mesi nelle mani di una delle fazioni più crudeli del pianeta in una nazione come la Somalia, dove la vita non vale nulla, sia stata la prima cosa passata ai media quando lei era ancora a Mogadiscio suona disfunzionale. E non è soltanto quello.

Il giorno dopo l’arrivo a Roma tutti i quotidiani avevano il resoconto delle quattro ore di domande e risposte tra lei e gli inquirenti. Può sembrare normale, non lo è. Abbiamo saputo in quanti covi era stata spostata, quanti rapitori la tenevano in ostaggio, che cosa mangiava. Una volta persino spaghetti, dettaglio ripetuto da tutti. Quello che dovrebbe essere un momento confidenziale, il debriefing di un ostaggio nel corso di un’indagine, è stato passato alle redazioni in tempo per la tipografia. E se ci fosse stata qualche informazione molto dura, avremmo letto pure quella?

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