La crisi della sharing economy

Le aziende basate sulla condivisione di spazi o mezzi di trasporto, come Airbnb e Uber, hanno un presente drammatico e un futuro incerto

(Mario Tama/Getty Images)
(Mario Tama/Getty Images)

«Mi sono sentito come il capitano di una nave colpita di lato da un siluro», ha detto un paio di giorni fa Brian Chesky, cofondatore e amministratore delegato di Airbnb. Il siluro, evidentemente, è la crisi globale conseguente all’epidemia da coronavirus, che sta creando grandissime difficoltà anche alle aziende che, come Airbnb, fanno parte della cosiddetta sharing economy. Cioè tutte quelle aziende che offrono servizi basati sulla condivisione di un luogo (una casa, ma anche un ufficio) o di un mezzo di trasporto (un’auto, ma anche una bicicletta, uno scooter o un monopattino elettrico) o, più in generale, sull’utilizzo, grazie a internet, di qualcosa di cui non si è proprietari.

Gran parte della sharing economy (o “economia della condivisione”) è in crisi perché le restrizioni e i timori legati alla pandemia di COVID-19 hanno enormemente limitato i viaggi e gli spostamenti, e più in generale la voglia delle persone di usare e condividere qualcosa usato da altri. È un problema per le aziende (alcune delle quali valgono diverse decine di miliardi), per le loro decine di migliaia di dipendenti e anche per tutte le persone che da aziende come Uber o Airbnb guadagnavano molti o tutti i loro soldi.

Airbnb, che per quest’anno aveva previsto di quotarsi in borsa, ha risposto al «siluro» provando a puntare sull’offerta di “esperienze online” (per esempio lezioni di flamenco e corsi di cucina). Ma la sua attività principale resta senza dubbio quella legata all’affitto di alloggi, a proposito della quale Chesky ha annunciato un “Programma avanzato di pulizia” che sarà disponibile da maggio e che «riguarderà le forniture, le tecniche di sanificazione, le istruzioni per pulire stanza per stanza». In altre parole, dato che quando torneranno a spostarsi le persone cercheranno ancora più di prima pulizia e sicurezza, l’azienda sta provando a farsi trovare pronta.

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Ad aprile Airbnb ha anche chiesto prestiti per due miliardi di dollari: si trova infatti nella complicata situazione di dover garantire le cancellazioni fatte da moltissimi suoi clienti, ma di dover allo stesso tempo tutelare in qualche modo le persone che usano Airbnb per guadagnare soldi e si sono trovate con le prenotazioni cancellate (tra le altre cose, l’azienda ha istituito per loro un fondo da 250 milioni di dollari).

Uber, allo stesso modo, si trova nella condizione di avere pochissimi clienti – ci sono stime che parlano, per marzo e negli Stati Uniti, di spese sull’app scese dell’83 per cento – e di avere però molte persone che si guadagnavano da vivere facendo gli autisti per l’app e ora guadagnano invece poco o niente e che, in molti casi, si trovano ad avere pochissime garanzie. Ai suoi autisti senza lavoro, Uber ha suggerito di provare a reinventarsi facendo consegne a domicilio attraverso il servizio Uber Eats, ma ci sono due problemi: uno è che già molte persone stanno lavorando su Uber Eats (dove tra l’altro si guadagna molto meno che facendo l’autista), un altro (dal punto di vista dell’azienda) è che, come ha scritto il New York Times, Uber Eats è stato finora un servizio in cui Uber ha operato in perdita.

Per Uber si parla anche del possibile licenziamento del 20 per cento degli oltre 20mila dipendenti dell’azienda, mentre una delle sue principali concorrenti, Lyft, già ha deciso di licenziare quasi mille persone, il 17 per cento di tutti i suoi dipendenti. A febbraio Uber aveva fatto sapere di aspettarsi, per quest’anno, entrate per oltre 16 miliardi di dollari. Qualche giorno fa ha detto invece di non essere in grado, data la situazione, di fare nuove previsioni per il 2020.

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WeWork, l’azienda statunitense che affitta spazi per il co-working in tutto il mondo, se la passa persino peggio. Già prima del coronavirus aveva avuto diversi e grandi problemi, che tra le altre cose avevano portato al licenziamento di oltre duemila persone. Ora si trova addirittura a offrire spazi per il lavoro in condivisione a persone che in certi casi non hanno un lavoro e che, se ce l’hanno e possono, preferiscono con ogni probabilità lavorare da casa.

La situazione in cui si trovano Airbnb, Uber e WeWork – ognuna delle quali si è anche mossa per dare una mano durante questa situazione di crisi – è per molti versi simile a quella in cui si trovano, anche in Italia, moltissime altre aziende della sharing economy. Ci sono differenze – le biciclette in condivisione non hanno lasciato autisti senza lavoro – ma si tratta in quasi tutti i casi di servizi per i quali la domanda è improvvisamente e drasticamente diminuita.

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È possibile che nelle prossime settimane, soprattutto nei prossimi mesi, la situazione migliori anche per molte aziende della sharing economy. C’è anche chi sostiene che, chi potrà, sceglierà più volentieri di usare uno scooter in condivisione o di noleggiare una bicicletta pur di non prendere un mezzo pubblico con altre persone; o di starsene da solo in una casa presa su Airbnb anziché dover frequentare un albergo, dovendoci incrociare molte più persone. Tenendo sempre a mente che molte grandi aziende della sharing economy ancora non erano arrivate a generare utili, il problema è che nel mondo dei prossimi mesi, forse anni, potrebbero esserci semplicemente meno persone disposte a spostarsi e a farlo pagando dei servizi.

Se è facile immaginarsi che qualcuno possa scegliere di preferire un’auto a noleggio a un autobus per andare e tornare da un aeroporto, è anche facile prevedere che, almeno per un po’, le persone ad andare e tornare dagli aeroporti saranno comunque meno rispetto al passato.