Storia della felpa col cappuccio

Inizia con i monaci medievali e passa per i giocatori di football, l'azienda Champion e Rocky

(John Roark/The Idaho Post-Register via AP)
(John Roark/The Idaho Post-Register via AP)

Dovendo restare in casa, è possibile che stiate indossando più spesso del solito indumenti comodi e confortevoli, per esempio la felpa con il cappuccio. La sua storia inizia quasi cent’anni fa e attraversa il mondo dei giocatori di football, dei college statunitensi degli anni Sessanta, dei writers del Bronx fino alle recenti passerelle delle aziende di lusso, come ha raccontato il Wall Street Journal.

I primi vestiti con cappuccio, lontani parenti della felpe con cappuccio, furono le cocolle, le tuniche che indossavano i monaci medievali, e i capperoni, le mantelle indossate dai contadini e da chi in generale faceva lavori all’aperto nel Basso medioevo: avevano un cappuccio che terminava con una coda molto lunga, che veniva usata per ripararsi in caso di maltempo. Dal Trecento e soprattutto nel Quattrocento il capperone era portato anche dalle classi nobili, che arrotolavano la coda fino a formare un voluminoso turbante.

Il Wall Street Journal fa notare che un pastore dipinto da Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova, affrescata nei primi anni del Trecento, indossa un cappuccio dall’aria «incredibilmente moderna». Sempre in quel periodo si diffuse l’iconografia della morte incappucciata e con la falce.

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Il passo successivo è stata l’invenzione della felpa, avvenuta negli anni Venti nella Russell Manufacturing Company, in Alabama. Era un’azienda tessile che fabbricava soprattutto intimo in cotone e in maglia per donne e bambini. Nel 1926 Benjamin Russell Jr., figlio del fondatore e giocatore di football, chiese al padre di studiare una soluzione alternativa ai maglioni di lana, indossati all’epoca dai giocatori, che pizzicavano e irritavano la pelle. Così il pezzo di sopra dell’intimo da donna, fatto con un cotone rasato, cioè privato della peluria (tecnicamente con un tessuto a maglia in catena rasato) venne trasformato nella nuova divisa dei giocatori di football: una felpa dallo scollo tondo e con il caratteristico triangolino di tessuto che serviva per raccogliere il sudore dal collo (in inglese felpa si dice sweatshirt, maglietta raccogli-sudore).

La felpa con il cappuccio venne inventata negli anni Trenta dalla Knickerbocker Knitting Mills, il nome con cui venne fondata, a Rochester nel 1919, l’azienda di abbigliamento sportivo Champion. L’idea di applicare il cappuccio alla felpa «fu dettata dalla necessità: Champion si trova nello Stato di New York, dove il freddo è brutale», ha spiegato al Wall Street Journal l’attuale vicepresidente, Matt Waterman.

I giocatori di football, ormai abituati a usare le felpe per giocare, furono tra i primi a indossare la versione col cappuccio, che si diffuse anche tra i lavoratori nei magazzini e all’aperto. Champion iniziò a produrle anche per i soldati americani, che la portavano durante gli allenamenti. Negli anni Quaranta fu sempre Champion a inventare la felpa con la tasca davanti, detta anche “tasca canguro”, dall’inglese kangaroo pocket; prima di allora le felpe non avevano tasche, neanche quelle laterali.

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Negli anni Cinquanta e Sessanta le squadra di football dei college americani iniziarono a imprimere il nome dell’istituto sulla felpa, che divenne quindi un simbolo di appartenenza e iniziò a essere portata anche dalle ragazze, diventando un indumento popolare. Champion si mise a produrre e vendere felpe anche per i non atleti.

In quegli anni anche le grandi aziende di moda si interessarono alla felpa con cappuccio. Nel 1967 la rivista Vogue pubblicò un servizio che ne mostrava una elegante, in cashmere e dotata zip. Qualche anno dopo, la stilista britannica Vivienne Westwood fece sfilare modelle vestite di felpe con cappuccio, strette come corsetti e decorate con stampe vittoriane. Negli anni Settanta la felpa venne proposta anche da altri stilisti, tra cui Norma Kamali, famosa anche per aver inventato, nel 1973, lo sleeping bag coat, un cappotto lungo fino alle caviglie considerato antesignano del piumino.

In quel periodo, la felpa con cappuccio si diffuse tra gli adolescenti ribelli delle sottoculture, soprattutto perché permetteva di coprire il viso. Keanan Duffty, che insegna moda alla New York’s Parsons School of Design, ha raccontato al Wall Street Journal che la portavano «gli skaters incappucciati in California quando facevano skate nelle piscine vuote, e i ragazzini del Bronx che a New York disegnavano graffiti sui muri». Era indossata dai rapper e dai ballerini di breakdance dell’hip hop allora nascente e dai ragazzini delle periferie disagiate delle città: in breve divenne un simbolo di un’intera cultura.

Nel 1976 la rese popolare anche il personaggio di Rocky Balboa, che si allenava nelle gelide strade di Philadelphia con una felpa grigia con cappuccio. Il Wall Street Journal scrive che una delle felpe più costose di sempre è un modello indossato in Rocky IV, che fu venduto a un’asta del 2015, a Los Angeles, per 37.500 dollari dell’epoca.

Negli anni Novanta venne coniato il termine hoodie, che nel mondo anglosassone indica appunto la felpa con cappuccio. All’epoca aveva ormai un significato negativo, era associata alla microcriminalità e ai movimenti delle sottoculture; negli Stati Unti era spesso indossata dai ragazzini neri e dai bianchi delle famiglie povere e disagiate.

Nel 2005 il centro commerciale Bluewater nel Kent, in Regno Unito, vietò l’ingresso a chi indossava una felpa con cappuccio, pur continuando a venderle nei suoi negozi. Un anno dopo, David Cameron – allora ministro dell’Istruzione del governo ombra britannico – tenne un discorso, poi diventato famoso, per cambiare la percezione negativa verso chi indossava gli hoodie: invitò gli adulti a essere più comprensivi verso gli adolescenti e disse che spesso coprirsi la faccia con un cappuccio non era un gesto aggressivo, ma di difesa.

Balmain, Parigi, 18 gennaio 2019 (Pascal Le Segretain/Getty Images)

L’opera d’arte più famosa dedicata a una felpa si inserisce in questo clima. In the Hood, realizzata dall’artista americano David Hammons nel 1993, è un cappuccio ritagliato da una felpa usata e inchiodato al muro. L’opera venne interpretata come un commento sulla discriminazione razziale contro gli adolescenti neri americani, che spesso indossavano gli hoodie e che erano presi di mira e fermati dai poliziotti bianchi. Altri la definirono profetica dopo l’uccisione del 17enne Trayvon Martin, avvenuta in Florida nel 2012, da parte di George Zimmerman, un vigilante volontario delle ronde di quartiere. Martin era uscito da un negozio, aveva con sé una bibita e un pacco di confetti al cioccolato e indossava una felpa con cappuccio che gli copriva il viso; questo e il colore della pelle avrebbero convinto Zimmerman che fosse un ladro da inseguire.

Dagli anni Duemila, la felpa con cappuccio è entrata anche nella moda di lusso, come tutti gli indumenti dello streetwear in generale, cioè il modo di vestire della strada, quello di rapper e skater, fatto di pantaloni larghi, scarpe da ginnastica, berretti, magliette e, appunto, felpe. Tra i primi ad aver presentato alle sfilate felpe di lusso ci fu il giapponese Yohji Yamamoto nella collezione Y-3, realizzata in collaborazione con Adidas, fino a quelle più recenti del belga Raf Simons, dello statunitense Rick Owens, del britannico John Galliano da Maison Margiela, di Pierpaolo Piccioli da Valentino.

Valentino, Parigi, 19 giugno 2019 (AP Photo/Francois Mori)