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  • Lunedì 13 aprile 2020

Il paradosso delle borracce, nel ciclismo

Sono prodotte con grande attenzione, sono importantissime e trasportate con cura, eppure vengono usate per pochissimo e gettate subito via

Anche prima che le borracce cominciassero ad andare di moda per ragioni ambientaliste, c’erano alcuni ambiti in cui erano usatissime: tra questi il mondo del ciclismo, dove senza l’acqua contenuta nelle borracce si va poco lontano. Come succede per tutti gli oggetti usati nelle competizioni sportive, le borracce usate dai corridori sono studiatissime e le aziende che le producono cercano di migliorarle di anno in anno. Eppure paradossalmente hanno una vita molto breve: non appena i ciclisti hanno finito di bere l’acqua che contengono, le gettano via, per alleggerirsi. Allora però possono essere raccolte dai tifosi collezionisti, ed entrare in una specie di seconda vita, esposte su uno scaffale.

Racconta la storia delle borracce uno dei capitoli di Acqua passata, il sesto libro scritto dalla redazione di Bidon, una rivista online dedicata al ciclismo il cui nome significa appunto “borraccia”, in francese, in molte altre lingue e in generale nella comunità internazionale del ciclismo. Acqua passata racconta un po’ tutto quello che ci si potrebbe chiedere sulle borracce nel ciclismo e racconta molte storie di borracce famose che i corridori si sono passati. Il capitolo su come vengono prodotte le borracce, che pubblichiamo, si intitola “Ci vuole una borraccia” e l’ha scritto Gabriele Gargantini, peraltro redattore del Post. Il libro intero si può acquistare, nella versione cartacea, dal sito di People, la casa editrice che lo ha pubblicato, oppure in versione ebook anche su Amazon o IBS.

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Perché possa esistere il ciclismo ci sono cose la cui presenza è imprescindibile. Se quel ciclismo è su strada, ed è contemporaneo, servono, per cominciare: un po’ di asfalto, delle fibre di carbonio, due ruote di gomma vulcanizzata, dei freni, un manubrio, una catena e due pedali che permettano, completandosi a vicenda e con un paio di ruote dentate, di sfruttare un movimento centrale per convertire un moto rotatorio in spostamento in avanti. Trattandosi, poi, di un mezzo a propulsione umana, la bicicletta ha bisogno di un essere umano che ci pedali sopra. Quell’essere umano, chiunque sia, è per gran parte fatto d’acqua. Pedalando, esso consuma un po’ di quell’acqua, avvertendo quindi l’esigenza di introdurne periodicamente di nuova nel suo organismo. Può trovarla nei bar o alle fontanelle. Ma è molto più comodo portarsene appresso una scorta, specie se quell’umano che sta facendo ciclismo ha fretta di raggiungere la meta.

Una certa fretta nel raggiungere una certa meta, oggi, ce l’hanno in tanti, non solo quando vanno in bicicletta. Quelli per cui la fretta è oggettivamente motivata sono i ciclisti e le cicliste professionisti, i componenti delle uniche categorie alle quali è concesso, talvolta persino implorato, di liberarsi delle borracce appena usate. Sono una cosa strana le borracce nel ciclismo: fondamentali per qualche minuto, o qualche chilometro; poi improvvisamente superflue. Prima dell’uso sono protette, dopo diventano un peso da sacrificare alla rigorosissima causa del rapporto peso/potenza. Nel ciclismo – soprattutto in quello professionistico – la borraccia è un prodotto in cui il destinatario finale spesso non è né l’acquirente né il consumatore più importante. Il destinatario finale è un altro: chi l’ha trovata, raccolta o richiesta, magari senza pensare a tutta la strada che ha fatto quella borraccia per arrivare allo scaffale su cui adesso fa da cimelio.

Per fare una borraccia, così come per fare un mucchio di altre cose, si parte dai polimeri sintetici. In genere derivano dal petrolio – ma stiamo lavorando affinché arrivino anche da altre e migliori fonti, che non hanno bisogno di miliardi di anni per rinnovarsi – e ai nostri occhi si presentano sotto forma di piccole palline: dure, compatte, inodori e, a guardarle, per nulla attraenti. Si può sapere a grandi linee come sono ottenute quelle palline di “borracce in potenza”, ma molte aziende usano formule che preferiscono tenere per sé. In ogni caso, basta che una su cento di queste palline sia di un certo colore per avere borracce di quel colore.

Con anticipate scuse per il freddo al cuore che proverà ogni ingegnere leggendo le prossime righe, nelle fabbriche di borracce le palline vengono scaldate fino a fondersi tra loro per formare un unico fluido, che viene plasmato dalla gravità in una forma oblunga. A guardarlo bene, già si può intuire che quel pezzo potrebbe diventare una borraccia, ma è ancora presto per prenderlo in mano o versarci dentro dell’acqua: ha una temperatura di oltre 150 gradi centigradi. Quella temperatura serve a far sì che uno stampo e un forte getto d’aria permettano di allungare il pezzo, di perfezionarne la forma e di definirne i lineamenti.

Seguono una serie di procedimenti, quasi tutti svolti da una macchina, che hanno lo scopo di verificare che tutte le borracce siano uguali e allo stesso modo lisce e prive di imperfezioni. Tra questi procedimenti ce n’è uno che consiste in una veloce spazzolatura e un altro che, di nuovo e per poco, riscalda la parete esterna della borraccia, per permettere alla stampa di essere precisa e indelebile. La superficie della plastica delle borracce viene poi trattata per modificare la sua tensione superficiale. Buffo, a proposito, che questo fenomeno si chiami “bagnabilità”.

In un’altra linea di produzione – che può trovarsi a pochi metri di distanza e sotto lo stesso tetto, ma volendo anche a centinaia di chilometri – si creano tappi e valvole erogatrici, le altre due parti necessarie per trasformare il grezzo contenitore di cui sopra in un pratico aggeggio per trasportare e all’occorrenza bere liquidi senza rovesciarli. In molti casi, sia tappo sia valvola sono ricoperti da un materiale gommoso, più piacevole al contatto con le labbra e meno scivoloso.

Così come accade per spazzolini, rasoi, preservativi, smartphone, automobili e razzi spaziali, anche con le borracce si cerca sempre di fare qualcosa che sia ogni volta innovativo e migliore. Le qualità che si cerca di perfezionare sono la leggerezza, la morbidezza, l’assenza di odore e la velocità di erogazione del liquido. Qualche grammo in meno, qualche millilitro al secondo in più, e la piacevole certezza che l’acqua all’interno sappia di… acqua.

Chi di lavoro produce borracce per ciclisti passa una ragguardevole parte del proprio tempo ad ascoltare le variegate esperienze d’uso di massaggiatori, meccanici e soprattutto ciclisti. Serve a capire quali criticità trasformare in novità attraverso formule chimiche, composti e processi di produzione, il tutto senza tralasciare l’aspetto economico – si parla comunque di un contenitore d’acqua, non di un lander lunare.
Dopo essere state pensate, progettate, perfezionate, prodotte e testate, le borracce sono pronte per essere spedite. Nel caso di borracce per il ciclismo professionistico su strada, ogni squadra sa già da quale azienda prenderà le sue borracce per la stagione successiva, e quante ne ordinerà. Ancor prima che inizino i ritiri invernali, le prime borracce lasciano gli stabilimenti dirette ai magazzini delle squadre. Si possono dunque immaginare due borracce, nate dallo stesso sacchetto di palline di polimeri, estruse dalla stessa vite, cresciute nello stesso stampo, che lasciano la fabbrica lo stesso giorno: una per diventare la borraccia bianca di una squadra degli Emirati, l’altra per diventare la borraccia nera di una forte squadra britannica. Un po’ prima di Natale, entrambe viaggeranno su ruota – di camion – fino ai magazzini delle due squadre. Per poi ritrovarsi, un paio di mesi più tardi, nei portaborracce di due biciclette avversarie, magari da qualche parte sulle strade tra Milano e Sanremo.

Le borracce, comunque, raramente stanno sole. Dopo averle ordinate dalle aziende – tra le più importanti ci sono l’italiana Elite e l’olandese Tacx – le squadre le ricevono in grandi scatoloni, ognuno dei quali ne contiene circa 200. Prima di ogni corsa, e ancora prima di ogni corsa a tappe, le squadre fanno un calcolo che prende in considerazione fattori come la temperatura prevista, l’umidità, la lunghezza e la possibile difficoltà della corsa. Si parte dal presupposto che per ogni ciclista, per ogni giorno di corsa, servano almeno quattro borracce. Ma l’esperienza suggerisce che in questo calcolo è sempre meglio abbondare, quindi per la maggior parte delle corse ogni squadra prepara tra le sette e le dieci borracce per ciclista. In genere le si prepara la sera prima, così da trovarle pronte al mattino. La maggior parte delle borracce, nel ciclismo moderno, sono piene d’acqua. Ma ci sono anche quelle in cui all’acqua vengono aggiunti sali minerali o maltodestrine, talvolta in dosi e percentuali diverse da un atleta all’altro, per questione di gusti, eventuali problemi di salute e disagi alimentari, o perché così ha detto di fare l’allenatore oppure il nutrizionista. Ogni ammiraglia ha almeno un frigorifero al suo interno, che a sua volta contiene diverse decine di borracce. Almeno cinquanta sono d’acqua e almeno altre trenta di acqua e sali o acqua e maltodestrine. Nelle corse più importanti le ammiraglie sono due, ognuna con un frigorifero al suo interno. Ci sono poi le borracce che, dentro un’altra macchina, si portano avanti rispetto ai corridori, per aspettarli nella zona di rifornimento.

Qualche anno fa, qualcuno provò a usare borracce da 300 millilitri, ma non funzionò: oggi la gran parte delle borracce è da 550 millilitri. Per distinguerne il contenuto e riconoscere a chi sono destinate, ci si fanno sopra dei segni con un pennarello. Un bravo meccanico deve saper riempire il frigorifero nel modo opportuno incastrando più borracce possibile, ma deve anche mettere le borracce speciali – riempite per un determinato corridore – dove potrà trovarle facilmente. Un bravo gregario deve capire quando è il momento di andare a prenderle e portarne quante più riesce, ma deve anche ricordarsi dove sono posizionate le borracce, e quali, così da poterle prontamente servire al compagno che ne ha bisogno.

Quel che succede dopo che una borraccia arriva a chi la deve usare è lapalissiano. Il gregario porta la borraccia, chi la riceve beve un po’ – non troppo tutto insieme perché, come diceva la nonna e come dice Davide Cassani nei video su YouTube, «poi fa male» – e infine, se va bene, la ripone ancora mezza piena nel portaborraccia. Se va male, cioè se fa molto caldo o il momento è in qualche modo topico, il liquido finisce subito, e la borraccia viene buttata via. In ogni caso, appena vuota viene gettata; spesso anche prima di esserlo.

Se un buon numero di fortunate borracce vive i concitati momenti in cui assurge alla sua funzione originale, altre se ne stanno bel belle al fresco in frigorifero dalla partenza all’arrivo. Una volta arrivate, sempre che non vengano regalate a quel bambino con gli occhi grandi e supplicanti, le borracce superstiti tornano al pullman o all’albergo, insieme ai ciclisti che per quel giorno non le hanno usate. In genere, a queste borracce viene data una seconda possibilità, specialmente se il giorno dopo c’è la nuova frazione di una corsa a tappe.

Ci sono poche, pochissime borracce fortunatissime, quelle che vengono fotografate e celebrate per il modo in cui vengono afferrate, passate, svuotate o buttate. Ce ne sono altre, quasi tutte, funzionali a momenti non particolarmente rilevanti, e quindi anonime. Ce ne sono alcune che la gara non la vedono nemmeno, perché diventano borracce da allenamento. E ce ne sono altre ancora che magari neppure escono dallo scatolone in cui erano state infilate molti mesi prima.

Ogni anno, ciascuna squadra ordina molte più borracce di quelle che usa. Succede sempre, perché un ciclista senz’acqua è un problema ben più grande di un magazzino con qualche scatolone in più. Succede ancora di più quando, a maggio, una squadra cambia sponsor e tutto ciò su cui c’è scritto «Sky» deve, da un giorno all’altro, aver scritto «Ineos». E anche se non cambia lo sponsor principale, da una stagione all’altra magari cambia uno degli sponsor, o una combinazione di colori, o il pantone di un colore, o una scritta, e quindi via con altre migliaia di borracce. Le borracce inutilizzate durante l’anno passato e inutilizzabili per quello venturo vengono in genere regalate, magari a una squadra giovanile che sta nei paraggi del magazzino.

Complessivamente, una squadra professionistica maschile ordina, per ogni sua stagione, tra le ventimila e le quarantamila borracce. Solo per un giro di tre settimane ne servono più o meno tremila. Non vuol dire che in ogni tappa vengano effettivamente usate centocinquanta borracce, cioè quasi venti borracce per ognuno degli otto ciclisti in gara. Se ne portano tremila perché non si può mai sapere, e perché oltre a essere contenitori per liquidi ed eventuali pezzi da collezione, le borracce sono anche ottimi mezzi pubblicitari.

Il 6 luglio 2019 nei dintorni di Bruxelles, sede di partenza dell’ultimo Tour de France, c’erano 22 squadre, ed è lecito pensare che sparse tra biciclette, frigoriferi, bagagliai, scatoloni e gavoni ci fossero in tutto più di sessantamila borracce, più di quindici al giorno per ognuno dei centosettantasei corridori al via. Non tutti sono arrivati fino a Parigi, e nessuno ne ha certamente usate quante previsto; ma c’erano. Solo considerando le squadre maschili con licenza World Tour, si può dire che ogni stagione ciclistica comporti l’ordine di circa cinquecentomila borracce. Vuol dire, a riempirle tutte, 275mila litri d’acqua, oppure 100 chilometri di altezza se le si mette una sopra all’altra, o quasi tremila metri quadrati se le si mette una accanto all’altra.

Sembra tanto. Anzi: è tanto. Ma basta un po’ di prospettiva perché diventi poco: nel tempo che ci vuole per arrivare alla fine del presente paragrafo, che questo apparentemente non necessario inciso sta allungando giusto quanto serve, nel mondo è stato venduto, a grandi linee, un numero di bottiglie di plastica più o meno pari alle borracce prodotte per un’intera stagione per tutte le squadre maschili del World Tour. Se doveste avere dei dubbi sulla vostra velocità di lettura, è stato calcolato che in un minuto si venda nel mondo circa un milione di bottiglie di plastica.

Allargando ancora di più la prospettiva, si stima che in un anno vengano prodotte circa 350 milioni di tonnellate di plastica. Tutte le 500mila borracce da ciclismo di cui stiamo parlando pesano invece – da vuote – qualcosa di vicino alle 25 tonnellate: uno zero virgola, seguito da un po’ di altri zeri, del totale. Si può dire, quindi, che nel grande schema delle cose le borracce possono non essere considerate un grande problema ambientale, per uno sport che, tra l’altro, si basa su mezzi che vanno a muscoli e non a motore.

A prescindere dal destino a cui andranno incontro durante l’anno le borracce già prodotte, è comunque certo che ogni anno se ne produrranno di nuove, quasi sempre usando plastica vergine. Ogni borraccia, se gettata e abbandonata sul ciglio di qualche strada, in un prato o in un campo, ci mette tantissimo tempo a diventare qualcosa di diverso da una borraccia; troppo tempo per potersene fregare. Ma è vero che anche tra i professionisti – gli unici ad avere un valido motivo per buttar via una borraccia – c’è sempre più attenzione alla questione. Molte borracce, quindi, finiscono nelle “zone verdi”, le aree appositamente pensate per far sì che i ciclisti in gara si liberino di borracce, pacchetti, sacchetti, carte e cartacce. Molte altre sui cigli delle strade, nei prati o nei campi ci restano giusto qualche secondo, al massimo minuto, perché per fortuna c’è chi le raccoglie, un fenomeno che forse ha a che fare più con la passione che con l’ecologia; ma all’ambiente va comunque bene così.

Non c’è proprio modo di dire quante borracce vengano buttate ogni anno ai bordi delle strade dai ciclisti, nemmeno con un discreto margine di errore. Dipende da troppe variabili. Nel 2018, nel suo ultimo Tour de France, la Sky pensò, a complemento dell’operazione «Sky Ocean Rescue», di mettere dei codici sulle sue borracce, così che chi le trovasse potesse farlo sapere con l’incentivo di poterci vincere qualcosa. Poi la Sky cambiò sponsor e di quel progetto non si è più saputo niente. Peccato, perché nel suo piccolo avrebbe potuto dare una mano a raccontare qualche altra bella storia.

A proposito, nel mio piccolo di borracce ne ho raccolte anch’io (anche se quella che uso è un’altra: quasi tutta nera, con sopra una frase e un segno che citano i Joy Division). Quelle che raccolgo, chiedo o trovo, però, le conservo. L’ultima, per ora, è del 12 ottobre 2019. Il giorno prima si correva il Giro di Lombardia, e questa borraccia l’ha lanciata qualcuno della Bardiani-csf. Magari il promettente Luca Covili, che arrivò sul traguardo di Como 20 minuti e 100 posizioni dopo il vincitore Bauke Mollema. O magari uno tra Lorenzo Rota e Giovanni Carboni, quel giorno i migliori piazzati della squadra, giunti rispettivamente sessantatreesimo e sessantaquattresimo. Io l’ho raccolta a poco più di cento chilometri dall’arrivo, alla rotonda che sta all’incrocio tra la strada provinciale 51, che sale da Civate, e la strada provinciale 60, che scende da Galbiate, mentre passava il gruppo a caccia dei fuggitivi di giornata, sotto al cartello pubblicitario di un’azienda specializzata «nella vendita, installazione e manutenzione di stufe e caminetti».

È una borraccia bianca, con tappo nero e valvola rossa. Sopra ci sono i nomi e i loghi di: Bardiani valvole («Che trovano la loro applicazione negli impianti dell’industria lattiero-casearia, dell’industria di processo alimentare e bevande, dell’industria farmaceutica e cosmetica»), csf Inox («Pompe centrifughe e pompe volumetriche industriali»), Guerciotti («Azienda storica del ciclismo e leader nello sviluppo e nella produzione di biciclette da corsa»), LifeCode («Integratori sportivi per raggiungere obbiettivi») ed Elite («Specializzata nella ricerca e produzione di rulli di allenamento, borracce e portaborracce per ciclismo»). C’è anche l’hashtag #greenteam, che non è uno sponsor né una dichiarazione di ecologismo, ma ha a che fare con la storia della «formazione ciclistica più longeva del ciclismo mondiale».

Insomma, non una gran storia quella della mia ultima borraccia. E nemmeno una gran borraccia, a guardarla bene, ma è comunque una in più per lo scaffale delle borracce e una in meno rimasta dove non dovrebbe stare. A guardarla, o a guardare le altre arrivate prima di lei, fa strano pensare di averci dedicato tutte queste elucubrazioni. A chi mi conosce e apprende che l’ho fatto per davvero, può fare addirittura ridere. Comprensibilmente.

Le borracce, a ben vedere, non sono strettamente indispensabili al ciclismo e chissà che fra dieci, venti o trent’anni non ci si inventi qualcosa di nuovo e diverso per far arrivare acqua e energie a chi sta pedalando. Intanto però ci sono, stanno lì da più di un secolo e vanno benissimo così. Non sono imprescindibili perché possa esistere il ciclismo: per quello basta qualcuno che pedali e qualcuno che gli dica «Dai! Dai!» a bordo strada. Se quel qualcuno si trova vicino una borraccia da raccogliere, però, è più contento.

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