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  • Lunedì 23 marzo 2020

Il primo grande scandalo del calcio italiano

Lo scandalo del "Totonero" iniziò quarant'anni fa con l'immagine di una volante della polizia sulla pista dello Stadio Olimpico di Roma

Una volante dalla polizia all'interno dello Stadio Olimpico di Roma il 23 marzo 1980 (Immagine Rai)
Una volante dalla polizia all'interno dello Stadio Olimpico di Roma il 23 marzo 1980 (Immagine Rai)

Il 23 marzo 1980 nove calciatori di Serie A vennero arrestati subito dopo la conclusione delle partite della ventiquattresima giornata di campionato: tra di loro i laziali Bruno Giordano, Lionello Manfredonia e Pino Wilson e i milanisti Enrico Albertosi e Giorgio Morini, insieme al loro presidente, Felice Colombo. Le riprese delle auto della polizia sulla pista dello Stadio Olimpico di Roma vennero trasmesse in diretta dalla Rai all’interno di 90º minuto e divennero l’immagine del “Totonero”, il primo grande scandalo nella storia del calcio italiano.

Stando alle cronache dell’epoca, già nei primi mesi del 1980 erano iniziate a circolare alcune voci su giri di scommesse illegali e partite combinate. Queste indiscrezioni, sempre più insistenti, divennero qualcosa di più il 4 marzo, giorno in cui Repubblica pubblicò un’intervista a Maurizio Montesi, centrocampista della Lazio. Montesi, in quei giorni ricoverato in ospedale con una gamba rotta, rivelò di aver finto un infortunio per non giocare Milan-Lazio del 6 gennaio dopo che un “influente” compagno di squadra gli aveva offerto 6 milioni di lire per truccarla.

Il compagno di squadra della Lazio citato da Montesi si rivelò essere successivamente Pino Wilson, capitano della Lazio campione d’Italia, che inizialmente negò le accuse. Ma in quei primi giorni di marzo – tre giorni prima dell’intervista a Montesi – un ristoratore romano, Alvaro Trinca, e un fruttivendolo, Massimo Cruciani, avevano presentato una denuncia alla Procura di Roma in cui sostenevano di essere stati truffati nelle scommesse illegali da una trentina di calciatori di Serie A e Serie B, di cui fecero nomi e cognomi.

Trinca e Cruciani erano infatti i contatti tra un gruppo non specificato di scommettitori e i calciatori di Serie A e Serie B che prendevano l’iniziativa per combinare le partite. Trinca era il gestore del ristorante “La Lampara” vicino a Piazza del Popolo, frequentato da molti calciatori, soprattutto della Lazio, mentre Cruciani era il suo fornitore di frutta e verdura, nonché amico e poi socio nel giro di scommesse. Le vicende dei due iniziarono anni prima, come ebbe occasione di spiegare lo stesso Trinca:

La mia storia disgraziata comincia nel 1974, quando in una stessa settimana venni avvicinato a più riprese da alcuni scommettitori clandestini: una volta vennero al mio ristorante, un’altra mi diedero appuntamento in un bar sotto casa, una terza ci incontrammo a via Veneto. Lo sapevo già da allora che intorno al calcio si muoveva un vorticoso giro di miliardi legato alle scommesse clandestine. Loro sapevano che ero amico di tanti calciatori, che Antognoni della Fiorentina, Giordano e Manfredonia della Lazio, Capello del Milan e altri ancora mi avevano invitato al loro matrimonio. Sapevano molte cose su di me e così non mi stupii quando questi signori, mostrandomi la loro schedina e le loro quote, mi invitarono a scommettere.

Nella seconda metà degli anni Settanta, dunque, Trinca aveva cominciato a scommettere clandestinamente (all’epoca in Italia si poteva fare solo così, dato che non era possibile scommettere legalmente sulle partite). Successivamente aveva coinvolto Cruciani con discreto successo, ma nel giro di qualche anno i due avevano iniziato a perdere molti soldi: spesso le partite truccate si concludevano diversamente da quanto pattuito con i giocatori. Trinca raccontò come andò una giornata di campionato finita male, e quando si decise a denunciare:

Quella domenica del 13 gennaio doveva essere il giorno del nostro riscatto. Con Cruciani infatti avevamo deciso di scommettere su quattro partite, tre delle quali sapevamo combinate: la vittoria della Lazio sull’Avellino e i pareggi della Juventus col Bologna e del Genoa col Palermo; la quarta partita, Pescara-Inter, era l’unica pulita e noi puntammo sulla vittoria dell’Inter. Per Bologna-Juventus, Massimo mi aveva riferito che il risultato era stato già pattuito tra i due presidenti.

Era una partita talmente sicura che a Cruciani telefonarono Petrini e Savoldi del Bologna chiedendo di puntare a loro nome e di altri compagni 50 milioni sul pareggio. Scommettemmo sulle quattro partite 177 milioni. E facemmo altre puntate a nome di altri giocatori. Avremmo vinto un miliardo e 350 milioni e pagato tutti i debiti che avevamo con gli allibratori. Purtroppo ci fregò la Lazio, che invece di vincere come d’accordo la partita con l’Avellino la pareggiò.

L’ultima partita fu Bologna-Avellino. Durante la settimana prendemmo contatti con Pellegrini e altri giocatori dell’Avellino. Ci dissero: “Non c’è bisogno di accordi né di soldi, pareggiare a Bologna ci sta bene”. Per il Bologna ci accordammo con Petrini, Savoldi, Paris, Zinetti, Dossena e Colomba. La partita non rispettò le promesse: il Bologna vinse 1-0 e noi perdemmo tutti i soldi. A quel punto eravamo completamente rovinati. Avevamo un debito con gli allibratori clandestini di 950 milioni di lire. Soldi che, in gran parte, ci erano stati truffati dai calciatori. Non ci restava che una cosa da fare: l’esposto alla magistratura.

Dalle testimonianze di Trinca e Cruciani gli inquirenti risalirono a un giro di scommesse miliardario. La partita truccata fra Milan e Lazio del 6 gennaio 1980 divenne l’emblema dello scandalo, per l’importanza dei due club e per le figure coinvolte. Il presidente del Milan, Felice Colombo, ammise le sue colpe nell’interrogatorio poche ore dopo l’arresto:

Il giovedì sera antecedente la partita mi telefonò Albertosi. Mi disse che gli avevano telefonato, non specificando però quale persona e da quale località, per dirgli che vi era la possibilità di combinare Milan-Lazio. Albertosi mi disse di aver ricevuto una telefonata e che gli era stato detto che era possibile combinare la partita assicurando la vittoria al Milan o la sconfitta della Lazio, o forse più genericamente la possibilità di combinare la partita. Io lo interruppi bruscamente dicendo che non era il caso di parlarne, assolutamente. Albertosi non mi disse in quale modo poteva essere combinata la partita e mediante l’opera di chi. Il venerdì sera, negli uffici della società, Albertosi mi disse “hanno telefonato ancora” e io alzai la mano: “Non me ne parlare nemmeno”.

[…] Quando Albertosi dopo la partita mi telefonò dicendo che un tale chiedeva un regalo perché il Milan aveva vinto, mi resi conto di aver commesso un’irregolarità, non avendo segnalato alla Lega la proposta che era stata fatta ad Albertosi. Decisi di non correre rischi e così accettai la richiesta di quel tale.

[…] Non ricordo se ad alta voce o mentalmente pensai prima alla cifra di dieci milioni e poi di venti milioni. Di fatto dissi ad Albertosi che avrei dato 20 milioni di lire. Mi richiamò e mi disse che Morini (giocatore del Milan) doveva andare a Roma, luogo in cui il denaro doveva essere consegnato, e che lui poteva incaricarsi della consegna. Albertosi non mi disse chi era il destinatario dei venti milioni. Aggiungo che non ho mai visto e parlato con Cruciani e Trinca. Incaricai mio fratello di prelevare venti milioni da un libretto al portatore che avevamo in comune alla Banca Agricola Milanese di Vimercate ed incaricai un fattorino di consegnare il pacco a Morini.

Ci furono due processi, uno sportivo e uno penale. Quest’ultimo si concluse con un nulla di fatto: il 23 dicembre 1980 i giudici della quinta sezione penale del tribunale di Roma assolsero tutti i calciatori rinviati a giudizio dal reato di truffa aggravata e concorso in truffa perché il fatto non sussisteva.

La giustizia sportiva, invece, fu molto più severa. Retrocedette d’ufficio in Serie B sia il Milan che la Lazio, le due squadre più coinvolte, e penalizzò in classifica Avellino, Bologna e Perugia. Radiò dalla federazione Colombo, presidente del Milan, e punì con un anno di squalifica quello del Bologna, Tommaso Fabbretti. Squalificò diciotto calciatori, tra i quali Enrico Albertosi (4 anni), Pino Wilson, Bruno Giordano e Lionello Manfredonia (3 anni il primo, 3 anni e 6 mesi gli altri due), Paolo Rossi (2 anni), Giuseppe Savoldi (3 anni e 6 mesi) e Franco Colomba (3 mesi).

Nonostante la giustizia sportiva avesse invocato e applicato condanne esemplari, a meno di tre settimane dalla vittoria dei Mondiali del 1982 da parte dell’Italia, il Consiglio Federale italiano concesse l’amnistia per Albertosi, Savoldi, Petrini, Giordano, Manfredonia, Magherini, Massimelli, Wilson e Zecchini, che quindi tornarono a giocare.

Paolo Rossi, invece, che sarebbe potuto tornare in campo a fine aprile del 1982, quindi in tempo per un’eventuale convocazione per i Mondiali, nel 1981 si prese un altro mese di squalifica per aver definito il processo sportivo che l’aveva giudicato “una buffonata”. Successivamente la Commissione d’appello federale accolse il ricorso presentato da Rossi e gli permise di tornare in campo nel 1982 per disputare le ultime partite di campionato con la Juventus e ottenere la convocazione per i Mondiali in Spagna, che poi andarono come andarono.