Protesta di fronte all'ambasciata britannica a Teheran (AP Photo/Ebrahim Noroozi)

Cosa rimane di dieci giorni di quasi guerra

È iniziato tutto con l'uccisione del generale iraniano Suleimani ed è finito con l'abbattimento di un aereo di linea: e quindi?

Dieci giorni fa, alle 00.47 di venerdì 3 gennaio, il primo di una serie di missili lanciati da un drone statunitense colpiva a Baghdad l’auto su cui si trovava il generale Qassem Suleimani, uno degli uomini più popolari e potenti dell’Iran. L’attacco era stato approvato poche ore prima dal presidente statunitense Donald Trump, che si era preso un rischio che nessuno dei suoi predecessori aveva voluto assumersi, per paura di cominciare una nuova guerra in Medio Oriente. È iniziata così una delle più gravi crisi internazionali degli ultimi anni, e uno dei momenti più bassi dei rapporti tra Stati Uniti e Iran dalla rivoluzione del 1979 ad oggi.

Sono passati dieci giorni e la guerra non c’è stata. L’uccisione di Suleimani ha però cambiato un sacco di cose e potrebbe avere provocato conseguenze irreversibili.

La guerra non c’è stata, e molti hanno tirato un sospiro di sollievo, perché non era scontato. Non c’è stata perché nessuno dei due paesi coinvolti nella crisi, né Stati Uniti né Iran, l’ha voluta.

Dopo giorni di funerali con folle oceaniche e minacce di ritorsioni feroci, il regime iraniano ha preferito rispondere all’uccisione di Suleimani lanciando diversi missili balistici contro due basi irachene che ospitavano militari americani, ma avvisando in anticipo il governo iracheno che a sua volta aveva avvisato gli americani. Il risultato è stato qualche danno alle strutture, ma nessun ferito e nessun morto.

Nonostante il regime iraniano abbia diffuso la notizia falsa degli 80 soldati statunitensi morti, il generale Amir Ali Hajizadeh, capo delle forze aerospaziali delle Guardie rivoluzionarie iraniane, ha detto: «Non volevamo uccidere. Volevamo colpire la macchina militare del nemico». L’impressione è che l’Iran dovesse rispondere all’uccisione di Suleimani per non permettere al nemico di pensare che un attacco di quella portata potesse essere compiuto senza conseguenze; ma che non volesse rispondere in maniera così violenta da provocare nuove ritorsioni, a cui sarebbe potuta seguire una vera guerra.

Anche gli Stati Uniti hanno mostrato di non volersi spingere fino a quel punto.

Dopo l’uccisione di Suleimani, ha rivelato la stampa americana, Trump ha mandato messaggi segreti agli iraniani usando intermediari svizzeri, per chiedere all’Iran di non lanciare una ritorsione troppo dura che avrebbe costretto il governo americano a rispondere con altra violenza. Dopo il lancio dei missili iraniani contro le due basi irachene, gli intermediari svizzeri hanno ricevuto il messaggio di risposta per gli Stati Uniti: diceva che la ritorsione per il momento si sarebbe fermata lì.

Trump ha aspettato diverse ore prima di tenere una conferenza stampa e ha evitato di twittare dichiarazioni a caldo che avrebbero potuto far precipitare la situazione (e non era scontato: pochi giorni prima aveva minacciato di bombardare uno o più obiettivi scelti tra 52 siti culturali iraniani, cioè di compiere un crimine di guerra). Trump ha usato toni insolitamente cauti anche dopo la diffusione delle prime informazioni che mostravano la responsabilità iraniana nell’abbattimento del volo 752 dell’Ukraine International Airlines, precipitato dopo essere stato colpito per sbaglio da un missile delle difese aeree dell’Iran.

Per ora, quindi, la guerra non c’è stata. Non significa che sicuramente non ci sarà in futuro, o che i rapporti tra i due paesi non possano peggiorare. Nel frattempo però sono successe altre cose.

Le milizie sciite irachene si sono arrabbiate. Nell’attacco che ha ucciso Suleimani è morto anche Abu Mahdi al Muhandis, vice capo delle Forze di mobilitazione popolare, insieme di milizie irachene principalmente sciite molto legate all’Iran e dal 2018 inquadrate all’interno dell’esercito iracheno. Per dirla facile, Muhandis era l’uomo di fiducia delle Guardie rivoluzionarie iraniane in Iraq.

La sua uccisione non è stata presa per niente bene dalle milizie sciite irachene, diventate negli ultimi anni molto influenti grazie alla loro partecipazione nella guerra contro l’ISIS. Queste milizie, le stesse che prima dell’uccisione di Suleimani avevano assediato l’ambasciata americana a Baghdad, sono state usate negli ultimi anni dall’Iran come “agenti” in Iraq, spesso per compiere attacchi da non poter collegare direttamente al regime iraniano.

Mercoledì il vicepresidente statunitense Mike Pence ha detto: «Stiamo ricevendo informazioni di intelligence incoraggianti, che dicono che l’Iran stia mandando messaggi a queste milizie affinché non facciano azioni contro obiettivi americani e civili».

Per ora è una situazione che sembra andare bene a entrambe le parti, ma non è detto che duri: sia perché alcune milizie potrebbero voler vendicare l’uccisione di Muhandis per loro conto, sia perché la parte più conservatrice e aggressiva dello stesso regime iraniano potrebbe usarle per realizzare le proprie ambizioni, e decidere di tornare a colpire obiettivi americani in Iraq.

Il governo iracheno si è allontanato dagli Stati Uniti, anche se non sono ancora state prese decisioni definitive sulla presenza militare americana nel paese.

Secondo uno stretto collaboratore del primo ministro iracheno Adil Abdul Mahdi, citato dal New York Times a inizio gennaio, Mahdi avrebbe detto a Trump: «L’Iraq si trova in mezzo, tra amici che si trovano a 5mila miglia da noi e un vicino che abbiamo avuto per 5mila anni. Non possiamo cambiare la geografia e non possiamo cambiare la storia, e questa è la realtà in Iraq». Che si potrebbe tradurre come: possiamo provare a fare senza gli Stati Uniti, ma non c’è modo di ignorare l’Iran.

Dopo l’uccisione di Suleimani e di Muhandis, il governo iracheno ha accusato gli Stati Uniti di avere violato la sovranità nazionale dell’Iraq, e il parlamento di Baghdad, con la quasi sola presenza di parlamentari sciiti, ha votato per chiedere la fine della presenza militare americana nel paese, oggi basata su un accordo stipulato da entrambe le parti e finalizzato alla guerra contro l’ISIS.

Il primo ministro Mahdi ha detto di voler dar seguito alla richiesta del parlamento, e Trump ha minacciato di imporre sanzioni e di costringere l’Iraq a pagare le spese sostenute dagli Stati Uniti per la propria presenza militare nel paese. Dopo che era stata diffusa per sbaglio una bozza di lettera del dipartimento della Difesa statunitense in cui si annunciava il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, inoltre, il governo iracheno ha ignorato la smentita americana e ha detto di avere interpretato la lettera come se fosse vera; gli Stati Uniti hanno risposto che non avrebbero ritirato i propri soldati per nessuna ragione.

Al di là di come vada a finire tutta questa storia, ci sono due cose da considerare.

La prima è che, messo di fronte a una scelta, è più probabile che il governo iracheno scelga l’amicizia con l’Iran, anche perché liberarsi della presenza iraniana oggi per l’Iraq sembra praticamente impossibile.

La seconda è che la pressione esercitata dalle milizie sciite irachene sui militari statunitensi ha già spinto l’esercito americano a sospendere le operazioni contro l’ISIS, che potrebbe diventare uno dei grandi vincitori della crisi in corso.

Sia l’aumento dell’influenza iraniana in Iraq sia il rafforzamento dell’ISIS sono esattamente le cose che Trump avrebbe voluto evitare. L’uccisione di Suleimani potrebbe però averle facilitate entrambe.

Di questi dieci giorni di quasi guerra resta una situazione per ora sotto controllo, ma precaria. Sotto controllo perché sia Iran che Stati Uniti hanno mostrato di non avere intenzione di iniziare una guerra, e di volersi invece lasciare la possibilità di tornare a tempi più tranquilli. Precaria per diverse ragioni: prima fra tutte, come ha mostrato l’abbattimento dell’aereo ucraino, in mezzo a un conflitto a bassa intensità c’è sempre il rischio che qualcosa vada molto storto.

Ci sono inoltre alcune situazioni al momento incerte o irrisolte: ci sarà da vedere se il governo iracheno andrà avanti nel chiedere agli Stati Uniti di ritirare dall’Iraq i propri militari, affrontando le ritorsioni americane, e se dovesse farlo, che conseguenze ci sarebbero nella guerra contro l’ISIS; e allo stesso tempo bisognerà capire se è vero che l’uccisione di Suleimani abbia rafforzato la parte più conservatrice del regime iraniano a discapito di quella più moderata e più disposta al compromesso, ma uscita danneggiata dalla politica sempre più aggressiva (e confusa) adottata da Trump nei confronti dell’Iran.

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