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  • Domenica 17 novembre 2019

In teoria a Hong Kong tra poco si vota

Fra una settimana si dovrebbero eleggere i consiglieri distrettuali ma per via delle proteste c'è il rischio che le elezioni siano rimandate, cosa che potrebbe peggiorare la situazione

Manifestanti colpiti da un liquido blu lanciato dalla polizia durante gli scontri al Politecnico di Hong Kong, 17 novembre 2019
(AP Photo/Achmad Ibrahim)
Manifestanti colpiti da un liquido blu lanciato dalla polizia durante gli scontri al Politecnico di Hong Kong, 17 novembre 2019 (AP Photo/Achmad Ibrahim)

La situazione a Hong Kong è sempre più violenta e la tensione potrebbe aumentare nelle prossime settimane in vista delle elezioni locali: si terranno il 24 novembre per eleggere i 452 membri dei 18 consigli distrettuali della regione autonoma. Molti attivisti, parlamentari e analisti temono che il governo di Hong Kong possa annullare le elezioni in alcuni dei collegi più violenti o rimandarle, anche se per un breve periodo: la maggior parte dei commentatori è certa che questa scelta aggraverebbe gli scontri e ingrosserebbe le proteste.

I timori non sono infondati e sono stati rafforzati da un raro intervento sulla questione del presidente cinese Xi Jinping, mentre si trovava a un incontro internazionale in Brasile giovedì: le proteste, ha detto, «mettono a rischio il principio di “un paese, due sistemi” con cui la Cina garantisce autonomia politica, economica e legislativa alla regione autonoma di Hong Kong. Le ha inoltre definite «crimini radicali e violenti» che «calpestano gravemente la legge e l’ordine sociale» e ha aggiunto che «fermare la violenza e riportare l’ordine è al momento la cosa più urgente da fare». Alle sue parole è seguito, sabato 16 novembre, un raro e preoccupante intervento dell’esercito cinese a Hong Kong: soldati in maglietta e disarmati hanno spazzato le strade piene dei mattoni lasciati dai manifestanti nei giorni precedenti. Le truppe cinesi sono stanziate in 19 siti di Hong Kong precedentemente occupati dall’esercito britannico.

La posizione di Xi era stata anticipata da un editoriale del People’s Daily, il quotidiano portavoce del Partito comunista cinese, che aveva promosso la repressione delle proteste da parte della polizia e scritto che le elezioni si dovrebbero tenere solo se verrà riportata la calma: «La pace può tornare solo sostenendo le forze di polizia nel reprimere le proteste e solo così si potranno tenere elezioni giuste perché Hong Kong possa ripartire». Il quotidiano aveva aggiunto che il governo di Hong Kong «ha il compito di regolare la violenza nelle strade investigando sui partiti di opposizione e sulle forze estremiste». Il direttore Hu Xijin aveva in precedenza paragonato i manifestanti che si erano scontrati con la polizia a «terroristi simili a quelli dell’ISIS».

Le proteste vanno avanti ininterrotte dallo scorso fine settimana, quando erano state particolarmente partecipate e rabbiose per la morte della prima persona dall’inizio delle contestazioni, a giugno: si tratta di un ragazzo di 22 anni che venerdì era caduto da un edificio durante gli scontri tra polizia e manifestanti, ed era morto per le ferite. Giovedì è morta anche un’altra persona, un uomo di 70 anni: le autorità ospedaliere hanno detto che era un pulitore che era stato colpito da un mattone durante gli scontri tra i manifestanti pro-democrazia e gli abitanti filogovernativi del quartiere.

Sempre giovedì sera c’è stato il primo scontro diretto tra manifestanti e un membro del governo di Hong Kong: la ministra della giustizia Teresa Cheng è stata circondata a Londra, dove si trovava per tenere un discorso, da un gruppo di attivisti coperti da maschere che le urlavano contro “vergogna”; a un certo punto la ministra è caduta a terra, non si capisce se spintonata dai manifestanti. La polizia britannica ha aperto un’indagine per chiarire com’è andata.

A Hong Kong, intanto, gli scontri sono via via peggiorati, e tra lunedì e martedì la polizia ha arrestato 400 persone. Lunedì un poliziotto ha sparato a distanza ravvicinata a un manifestante disarmato di 21 anni e i manifestanti hanno dato fuoco a un sostenitore del regime cinese; in alcune zone i manifestanti hanno affrontato gli agenti armati di molotov, archi, frecce e aste di bambù. Le scuole sono rimaste chiuse, così come alcune linee ferroviarie, metropolitane, centri commerciali e negozi.

Uno degli episodi più gravi è avvenuto martedì sera: una battaglia di alcune ore tra la polizia e gli studenti asserragliati nella Chinese University, che hanno usato bombe molotov, mattoni e ombrelli per proteggersi mentre la polizia li attaccava con gas lacrimogeni, proiettili di gomma e cannoni ad acqua. «Abbiamo dovuto sopportare gas lacrimogeni e proiettili, se ora sgomberiamo ci arresteranno tutti», ha detto uno studente al Washington Post. Una palestra è stata adibita a centro di soccorso per i feriti, intanto le autorità ospedaliere di Hong Kong hanno detto che martedì erano state ferite negli scontri almeno 51 persone. Il sovrintendente della polizia Kong Wing-cheung ha detto ai giornalisti che «la nostra società è sul punto di un crollo totale» e ha aggiunto che almeno 300 persone sono state arrestate lunedì: il 60 per cento erano studenti.

Sabato 16 novembre, dopo l’intervento cinese, ci sono stati altri gravi scontri quando la polizia di Hong Kong ha cercato di smantellare le barricate erette dagli studenti nel Politecnico: ha usato gas lacrimogeni e cannoni ad acqua, gli studenti hanno risposto con bombe molotov lanciate da grosse fionde improvvisate e frecce lanciate con archi. Il Politecnico, che si trova non lontano da una caserma dell’esercito cinese, è una delle università occupate da giorni dagli studenti, che le hanno trasformate in roccaforti costringendo alla sospensione delle lezioni e al ritorno a casa, spesso nell’entroterra cinese, di molti iscritti.

Nonostante la violenza, il sostegno ai manifestanti è in aumento. Lunedì molti funzionari pubblici hanno partecipato alle proteste, anche se la polizia le aveva definite illegali, e mercoledì i volontari hanno portato cibo e altri beni di prima necessità agli studenti delle università.

Al di là delle proteste in strada, l’atmosfera politica è molto tesa. Nelle ultime settimane le autorità hanno arrestato sette parlamentari pro-democrazia accusandoli di aver aggredito tre parlamentari filogovernativi durante una discussione sulla legge sull’estradizione a maggio. Come previsto dalle regole elettorali, i candidati favorevoli all’indipendenza dalla Cina non si sono potuti candidare, tra cui il noto attivista Joshua Wong. Ci sono stati atti vandalici contro gli uffici dei partiti filogovernativi ed episodi di violenza contro i candidati di entrambe le parti: 4 attivisti sono stati aggrediti e il 6 novembre il consigliere Junius Ho – noto per le sua contrarietà alle proteste – è stato accoltellato durante un evento di campagna elettorale. Intanto la Commissione elettorale di Hong Kong ha chiesto ai manifestanti di «mettere fine alle minacce e alla violenza per permettere che le elezioni si tengano in modo pacifico e ordinato».

Molti esperti sono convinti che il governo abbia intensificato la repressione dopo un incontro a Shanghai a inizio novembre tra la leader di Hong Kong Carrie Lam e il presidente cinese Xi Jinping. Lunedì Lam, il cui indice di gradimento è sceso al 20 per cento, ha ribadito la sua posizione definendo i manifestanti “nemici del popolo”. Martedì ha risposto alle domande dei giornalisti sulla possibilità di rimandare il voto dicendo che «spero che le elezioni si tengano come previsto». Dopo un primo momento di confusione e quasi apertura, finora Lam ha acconsentito soltanto a una delle cinque richieste dei manifestanti: il ritiro della legge sull’estradizione in Cina che aveva dato iniziato alle proteste. Le altre richieste sono un’indagine indipendente sulla polizia, le dimissioni di Lam, la liberazione dei manifestanti arrestati e maggiori libertà democratiche.

«È tutto molto incerto e difficile da prevedere. Queste due settimane in vista delle elezioni saranno determinanti: se il governo le cancella le cose peggioreranno, alle persone sembrerà di non potersi più esprimere nell’ultimo canale istituzione rimasto» ha detto al Guardian Ho-Fung Hung, professore di economia politica alla Johns Hopkins University. Il professore di politica di Hong Kong Ma Ngok della Chinese University ha spiegato al Washington Post che se le elezioni venissero sospese «gli elettori potrebbero considerarla una manipolazione e protestare ancora di più». Ma è anche convinto che non sia legalmente possibile cancellare le elezioni ma solo rimandarle per un breve periodo di tempo, cosa che indebolirebbe ulteriormente i partiti pro-Pechino, già indietro nei sondaggi. Alcuni pensano che Lam potrebbe servirsi dell’ordinamento dell’epoca coloniale britannica a cui era ricorsa per vietare le maschere nei raduni pubblici: la legge consente al governatore di approvare nuove regole in caso di emergenza o di pericolo pubblico, Hong Kong se n’era servito l’ultima volta nel 1967.

Molti sostenitori moderati di Pechino sono a favore delle elezioni e le considerano un modo per dare sfogo alla rabbia delle persone; gli estremisti chiedono invece che siano cancellate a forza e che il governo rafforzi il suo potere. Secondo il professor Ma però dichiarare lo stato di emergenza danneggerebbe irrimediabilmente la reputazione di Hong Kong a livello internazionale. In un recente sondaggio dell’Istituto di ricerca sull’opinione pubblica di Hong Kong, il 70 per cento degli intervistati si è detto contrario a posticiparle.

Di per sé questa tornata elettorale non è così importante. Le responsabilità dei consiglieri distrettuali sono soprattutto locali: controllano la spesa dei distretti, e servono come palestra e trampolino di lancio per i politici emergenti. I consiglieri non possono plasmare direttamente il Consiglio legislativo ma hanno una qualche influenza sul Comitato di 1.200 membri che seleziona il Capo esecutivo, che è composto per un decimo da consiglieri distrettuali. A questo giro comunque non verranno scelti tanto per le loro abilità amministrative e per il radicamento sul territorio, ma per il loro posizionamento pro o contro Pechino.

Fino a qualche mese fa i pochi che si erano candidati erano quasi tutti pro-establishment; dopo le proteste si sono candidate 1.104 persone e i pro-democrazia sono presenti in quasi tutti i collegi. È aumentato anche il numero di iscritti ai registri elettorali: 4,1 milioni di persone, tra cui «molti giovani che in passato non si erano dati la pena di registrarsi e votare», ha spiegato a Reuters la politica pro-democrazia Emily Lau. Come ha detto Kenneth Chan, professore di Studi internazionali alla Baptist University di Hong Kong, «la gente ora considera le elezioni come un modo in più per articolare ed esprimere la sua visione sulla città in generale e su Carrie Lam in particolare».

C’è un certo equilibrio tra i candidati: un quarto è pro-democrazia, un quarto pro-establishment e per il resto sono indipendenti con alleanze flessibili e poco chiare; i pro-democrazia sono dati in vantaggio. Per dare un’idea dell’atmosfera, per la prima volta MTR, l’ente che gestisce la metropolitana di Hong Kong, ha vietato i manifesti elettorali nelle stazioni e sui treni della metro, per evitare che generino scontri e mettano a rischio l’incolumità dei passeggeri.