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  • Sabato 9 novembre 2019

Cosa c’entrano gli struzzi con la storia dei sequestri in Calabria

Lo spiega "Statale 106", il libro in cui Antonio Talia racconta la 'ndrangheta viaggiando sulla strada che attraversa la Calabria

Particolare della copertina di "Statale 106" di Antonio Talia (Minimum Fax - progetto grafico di Patrizio Marini e Agnese Pagliarini)
Particolare della copertina di "Statale 106" di Antonio Talia (Minimum Fax - progetto grafico di Patrizio Marini e Agnese Pagliarini)

La strada statale 106 percorre il lato meridionale della Calabria, da Reggio Calabria a Siderno, tra il mar Jonio e il massiccio montuoso dell’Aspromonte. Negli anni Ottanta, nel periodo in cui in Calabria erano molto frequenti i sequestri di persona, lungo la strada cominciarono a comparire cartelli che segnalavano la presenza di struzzi e uova di struzzo. Il perché è spiegato in Statale 106. Viaggio sulle strade segrete della ’ndrangheta, il libro del giornalista calabrese Antonio Talia, ex corrispondente da Pechino ed esperto sul tema del riciclaggio di denaro sporco, uscito da qualche giorno. Ogni capitolo ha per titolo un diverso chilometro della SS 106, strada usata per spiegare il mondo della criminalità organizzata calabrese.

Pubblichiamo un estratto del quinto capitolo che racconta appunto la storia degli struzzi. Per chi è a Pescara, oggi, sabato 9 novembre, Talia presenterà Statale 106 al FLA, il Festival di Libri e Altrecose, insieme al giornalista del Post Davide Maria De Luca. L’incontro sarà alle 18.30 al Museo delle Genti.

***

La sera del 28 agosto 1977 cinque persone armate e con il volto coperto da passamontagna fanno irruzione in una villetta del complesso Costa dei Gelsomini, a Brancaleone. È una serata calda – in questo tratto della costa jonica, ad agosto, spesso la temperatura non scende sotto i trenta gradi neanche dopo il tramonto – così Mariangela Passiatore, il marito Sergio Paoletti e una coppia di amici vengono sorpresi mentre stanno cenando su un terrazzino all’aperto. I banditi parlano pochissimo tra loro ma si muovono velocemente, come se conoscessero la villetta e avessero già eseguito questa procedura altre volte: legano e imbavagliano Paoletti e gli altri due ospiti, poi costringono la Passiatore a seguirli su un’auto che hanno parcheggiato poco distante. Nessuno rivedrà mai più né viva né morta Mariangela Passiatore, quarantaquattro anni, madre di due figli. Lo stesso destino tocca ad Antonio Colistra, avvocato, sequestrato nell’ottobre del 1980 mentre si trovava in un podere di sua proprietà a vendemmiare. E all’imprenditore agricolo Vincenzo Medici, sequestrato a qualche chilometro di distanza, a Bianco.

All’inizio degli anni Ottanta, molte ’ndrine si sono lanciate nel reato più infame – il sequestro di persona a scopo di riscatto – ma nei primi tempi, a parte il caso sensazionale del miliardario Paul Getty III, rapito a Roma nel ’73 e rientrato a casa dopo il pagamento di un miliardo e settecento milioni di lire (al cambio attuale circa 12 milioni di euro), il fenomeno si mantiene a livello locale. Spariscono i figli di notai. I farmacisti. I piccoli imprenditori. Gli avvocati. Le famiglie ricevono telefonate minacciose e cercano di mobilitare risorse per pagare il prezzo della libertà, nonostante leggi sempre più severe sul blocco dei beni. Poi i rapimenti si diffondono nel resto d’Italia, i commandos dei sequestratori colpiscono in Lombardia, in Piemonte, in Veneto, e mentre il disgusto verso la Calabria si diffonde in tutta Italia la SS 106 si riempie di posti di blocco: come se la guerra in corso non fosse abbastanza, adesso drappelli di poliziotti, carabinieri e militari a mitra spianato devono vedersela con movimenti che spesso non possono comprendere, perché i sequestratori conoscono il territorio molto meglio di loro e, soprattutto, dominano i sentieri segreti e silenziosi che dalla costa si dirigono verso l’Aspromonte. Stretti valloni, gole solitarie, grotte impossibili da raggiungere e, si dice, gallerie e tunnel scavati nel sottosuolo di diversi villaggi della zona: una volta che l’ostaggio ha superato la linea della litoranea ed è stato condotto sulle colline e poi sulle montagne, individuarlo diventa un rompicapo da notti insonni. Così, mentre la madre di Cesare Casella – sequestrato a Pavia nell’88 – si incatena davanti ai villaggi dell’Aspromonte e le tv diffondono gli appelli dei genitori di Carlo Celadon, un ragazzo veneto rimasto nelle mani dei rapitori per quasi tre anni, gli investigatori non hanno il tempo per soffermarsi su un fenomeno curioso che comincia a diffondersi nella zona: intorno alla metà degli anni Ottanta la Statale 106 si riempie di struzzi.

Il fenomeno è graduale e nessuno può indicare con certezza l’inizio; di sicuro c’è solo che in un momento imprecisato di quel periodo, da qualche parte tra Palizzi Marina e Africo Nuovo, spunta il primo cartello QUI UOVA DI STRUZZO. Poi il secondo. Poi il terzo. Come un’epidemia, i cartelli diventano qualche decina nell’arco di venticinque chilometri, e si somigliano tutti: spesso sono realizzati in modo amatoriale, niente di più di un pannello di plastica conficcato nel terreno e una scritta a pennarelli colorati, anche semplicemente QUI STRUZZI, con una freccia che indica qualche sentiero in terra battuta diretto verso le colline, perso tra alberi di ulivo e prati di campanule gialle.
La struzzomania dura qualche anno, e a un certo punto finisce come si concludono tante altre cose da queste parti: di colpo e senza alcuna ragione apparente. Cosa c’entrano gli struzzi con i sequestri di persona? STRUZZO non è un segnale in codice; i cartelli non indicano qualche oscuro covo dove si nascondono gli ostaggi e, a seguire le indicazioni, ci si imbatte davvero in gruppi di struzzi che ti fissano attraverso le reti metalliche poste a delimitare i confini di qualche podere, lo sguardo liquido e l’andatura sgraziata dell’unico pennuto incapace di volare.

Il collegamento tra gli struzzi e i sequestri esiste ma è molto più complicato, e costituisce uno schema che si snoda dalla costa jonica fino agli antipodi del mondo: «Sono gli stessi anni in cui si riallacciano i rapporti con l’emigrazione calabrese in Australia», mi spiega la criminologa Anna Sergi. Sono anche gli stessi anni in cui, col senno di poi, gli investigatori registreranno un vertiginoso aumento delle telefonate intercontinentali che partono da qualche utenza sperduta sulla Statale 106 verso numeri
del Queensland o del New South Wales, per bollette intestate a perfetti Signor Nessuno che in alcuni casi superano il milione di lire. Da queste suggestioni riaffiorano ricordi semisepolti: una stanza fumosa con un bancone e pochi tavoli, immersa nella penombra di un neon con l’insegna xxxx Australian Beer; è un Australian Pub aperto dal nulla nel paese di mia madre, nel centro della Locride, a una quarantina di chilometri da qui. Ricordo vagamente qualche boomerang appeso alle pareti, alcuni tizi che si esprimono in un misto di dialetto e inglese. Io all’età di dieci-dodici anni che spio dall’esterno, con la sensazione di una finestra affacciata su un mondo adulto, vagamente pericoloso, che per il momento mi è precluso. Ma l’ondata australiana che in questi anni si abbatte sulla costa jonica non si manifesta solo con l’apertura di qualche bar o di qualche circolo Calabrian-Australian Friendship, con tanto di sagome di canguri e koala precipitate in anonime sale di paese: secondo stime della Commissione Parlamentare Antimafia il denaro accumulato con i riscatti degli ostaggi sequestrati in questa stagione si piazza
tra i 250 e i 400 miliardi di lire, ossia tra i 500 e gli 800 milioni di euro. Dove finiscono questi soldi? Per molte ’ndrine si tratta di una fase di accumulazione iniziale di capitali da reinvestire in altre attività criminali, ma anche da riciclare in zone lontanissime
dall’epicentro dei sequestri. Per Anna Sergi, da un punto di vista criminologico la stagione dei sequestri si può leggere attraverso due chiavi: serialità e strategia. «La serialità implica una strategia alla base e una scelta precisa tra le varie fonti redditizie illegali, una scelta precisa a favore di questo tipo di reato rispetto ad altri. Perché si sceglie il sequestro rispetto alle estorsioni, agli appalti, o al traffico di droga? Perché il sequestro permette di fare soldi velocemente e – per quanto sembri paradossale – in quel periodo è anche il reato che comporta meno rischi. I sequestri vengono condotti in un territorio che le organizzazioni criminali dell’epoca conoscono a menadito, l’Aspromonte, e che ancora adesso risulta abbastanza impenetrabile. Quindi ha una doppia valenza; da un lato si guadagna in fretta, e dall’altro si afferma il proprio controllo sul territorio. All’inizio, a credere nell’industria dei sequestri sono solo un paio di famiglie, considerate notoriamente le teste calde di tutta l’organizzazione, come i Barbaro di Platì. I più vecchi li accusavano di essersi bevuti il cervello, sostenevano che si trattava di un reato disonorevole, mugugnavano. Ma poi, quando la cosa ha iniziato a funzionare, tutti gli altri sono entrati nell’affare, spingendosi anche in altre regioni. Inoltre, sul piano della strategia, i sequestri si collocano in un momento storico preciso. Magari non è stata una strategia così chiara come la possiamo leggere noi a posteriori, ma in quel periodo, tra alcuni, inizia a farsi strada l’idea che il maxiprocesso di Palermo porterà a uno sconquassamento di Cosa Nostra. In alcune famiglie c’è stato l’acume di capire che se fino ad allora si era guadagnato abbastanza prestando i porti calabresi a Cosa Nostra per il traffico di stupefacenti, in futuro si potranno fare molti più soldi gestendolo direttamente. Per acquistare la droga sono necessari forti capitali, e questi capitali sono stati ottenuti con i sequestri di persona».

Ma quella mole di denaro non finisce solamente in droga. Una sentenza del Tribunale di Reggio Calabria datata 1994 dimostra che la dinamo nascosta dietro enormi investimenti in appezzamenti di terreno da centinaia di ettari acquistati tra la fine degli anni Settanta e la seconda metà degli anni Ottanta a Griffith – una cittadina da ventimila abitanti nella zona più ubertosa del New South Wales, a cinquecento chilometri da Melbourne – si alimenta con il denaro dei sequestri di persona. «Tutta questa dinamica, col senno di poi, è molto facile da tracciare», prosegue la Sergi. «Improvvisamente, alcune famiglie di Platì, di San Luca, di Sinopoli, iniziano a comprare territori sconfinati a Griffith, e non solo. Nel sud dell’Australia, in quel periodo, cambia la legislazione per l’afflusso di capitali dall’estero, e queste nuove norme rendono tutto più facile. Inoltre, è lo stesso periodo in cui la comunità australiana riprende i contatti con la Calabria in maniera molto istituzionale. Al Grassby, il primo ministro degli affari culturali d’Australia, una figura controversa, dalla pessima fama, che non piaceva a nessuno ed era originario di Griffith, decide che tra tutti i luoghi d’Italia dove potrebbe recarsi per una visita ufficiale sia un’ottima idea sbarcare a Platì. Si dice che insieme a Grassby, in Australia, siano tornate molte altre cose. Siamo nel campo della speculazione, ma è un’ipotesi molto plausibile».

Ecco allora, che tutto lo schema assume un carattere coloniale: la folta comunità di immigrati calabresi ha creato in Australia cittadine e quartieri che replicano come un calco i paesi della costa jonica, non tanto nella forma delle abitazioni quanto nelle consuetudini; queste comunità mantengono una forte coesione culturale, vincoli familiari e continue comunicazioni con la Statale 106; i ricavi di affari legali e illegali si reinvestono in questi avamposti lontani, e parte della ricchezza prodotta nel Nuovo Mondo ritorna alla madrepatria, magari sotto forma di Australian Pub e allevamenti di struzzi. Gli struzzi sono il bene fungibile; nella Statale 106 degli anni Ottanta rappresentano la commodity originaria della colonia che torna alla madrepatria, come il tè indiano che impazzava nella Gran Bretagna del Settecento, solo che sull’asse costa jonica-Australia tutto si muove molto più sottotraccia.

© Antonio Talia, 2019
© minimum fax, 2019