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  • Giovedì 10 ottobre 2019

Cosa sta succedendo a Moby

Tre fondi di investimento avevano chiesto il fallimento della compagnia di navigazione: un tribunale ha detto che per ora funziona regolarmente, ma con grande enfasi sul "per ora"

(CARLO FERRARO - ANSA - KRZ)
(CARLO FERRARO - ANSA - KRZ)

Il 9 ottobre il tribunale fallimentare di Milano ha rifiutato un’istanza di fallimento nei confronti della compagnia di navigazione Moby, dicendo che non la si può considerare fallita ma che «avrebbe necessità di monitoraggio e di ricorrere a strumenti di superamento di una crisi che ha caratteristiche importanti e che potrebbero diventare molto gravi». A presentare l’istanza di fallimento nei confronti di Moby erano stati i creditori: in particolare tre fondi di investimento che temono di non rivedere parte dei soldi che gli spettano. Dopo la sentenza Vincenzo Onorato – armatore e presidente di Moby – ha scritto su Facebook: «Giustizia è fatta!». Ma è più complicato di così, e per Moby non è stata proprio una vittoria: la Stampa ha scritto che l’azienda «rischia una crisi gravissima» e il Sole 24 Ore ha spiegato che «Moby è salva ma sotto osservazione».

Moby esiste dal 1959, ha più di 5mila dipendenti e una flotta di 17 traghetti. Insieme a Tirrenia e Toremar fa parte del gruppo Onorato Armatori. Tra il 2012 e il 2015 Moby fece un’importante operazione finanziaria acquisendo Tirrenia dallo Stato e ottenendo di conseguenza anche decine di milioni di contributi pubblici per la cosiddetta “continuità territoriale” (una sorta di finanziamento statale alle aziende che garantiscono collegamenti aerei o marittimi verso certe aree altrimenti difficili da raggiungere). Nicola Pinna ha scritto sulla Stampa che Moby «ancora non ha saldato il debito accumulato per concludere quell’operazione» e ricorda che nei confronti di Moby c’è una «multa (ancora da ricalcolare) dell’Antitrust per abuso di posizione dominante». Insomma, per una serie di motivi la situazione finanziaria di Moby non è chiarissima, e ci sono molte variabili che nell’immediato futuro potrebbero crearle problemi.

I fondi internazionali d’investimento che avevano presentato l’istanza di fallimento nei confronti di Moby sono tre: Soundpoint Capital, Cheyenne Capital e York Capital. Nel 2016 sottoscrissero insieme un bond aziendale da 300 milioni di euro, con scadenza nel 2023, con quello che il Fatto Quotidiano aveva definito «un tasso molto generoso (7,75%)». Da qualche mese i fondi lamentano il fatto che Moby stia facendo una serie di scelte sbagliate che secondo loro porteranno la società al fallimento, rendendola insolvente e mettendo quindi a rischio i loro investimenti. In particolare i fondi si erano fatti sentire dopo che a inizio settembre Moby aveva comunicato di aver portato a termine una operazione di «ottimizzazione della flotta», decidendo di vendere alla società danese Dfds due sue navi – tra le più nuove e capienti della flotta – per riceverne in cambio altre due più vecchie (oltre ovviamente a dei soldi). È stata una mossa che ha aumentato la liquidità di Moby ma che ne ha ridotto il patrimonio. I fondi, quindi, non vedevano nessuna «ottimizzazione» nella vendita di due navi del 2001 e del 2005 (la Wonder e la Aki) in cambio di due navi degli anni Ottanta: una mossa che riducendo il patrimonio di Moby rendeva anche più pericoloso il loro investimento.

I tre fondi avevano quindi deciso di presentare l’istanza di fallimento presso il tribunale di Milano, dove Moby ha sede legale. I fondi si dicevano preoccupati da un’insolvenza «prospettica e futura»: vuol dire che temevano, in base agli elementi a loro disposizione, che Moby avrebbe avuto difficoltà a pagare la cedola sui bond prevista per il febbraio 2020. Nei piani dei fondi, l’accoglimento dell’istanza di fallimento avrebbe permesso un commissariamento di Moby e quindi una diversa gestione del suo patrimonio. Come ha scritto Carlo Festa sul Sole 24 Ore, «i fondi accusavano la famiglia Onorato di aver mal gestito l’azienda e aver dissipato il patrimonio a garanzia del bond». Sempre Festa ha spiegato che sebbene ci fossero basi legali per l’istanza di fallimento, si trattava di «una novità abbastanza inedita nel caso dei default, che sono sempre avvenuti nel momento in cui una società non ha onorato una scadenza», mentre  in questo caso si trattava di «un’ipotetica insolvenza futura».

Moby, da parte sua, diceva che fino a quel momento aveva sempre rispettato le scadenze e i pagamenti nei confronti dei fondi, e quindi non c’erano basi per parlare di fallimento. Nel difendersi dalle accuse di insolvenza prospettica nei confronti di Moby, Vincenzo Onorato aveva scritto su Facebook che la Onorato Armatori era «sotto attacco da parte di fondi speculativi, con sede in paradisi fiscali, che mirano ad attaccare il patrimonio dell’azienda il cui valore supera il miliardo di euro». Onorato aveva anche deciso di denunciare i fondi per calunnia e in un comunicato spiegava: «Moby denuncia questo fatto come l’ultimo atto di una strategia iniziata con un’ossessiva campagna diffamatoria a mezzo stampa, più volte denunciata a diverse autorità giudiziarie. Moby confida nell’operato della magistratura italiana con serenità in quanto pienamente consapevole della calunniosità del ricorso».

E quindi si è arrivati così alla decisione di ieri, in cui i giudici hanno respinto l’insolvenza prospettica perché per ora Moby «funziona regolarmente», «è in grado di fornire i servizi che vende» e «non è inadempiente nei confronti dei ricorrenti che hanno un credito che scadrà definitivamente nel 2023». È la parte della sentenza che ha fatto scrivere a Onorato «Giustizia è fatta!» in un lungo post in cui ha aggiunto:

Onorato Armatori non ha un centesimo di debito verso l’erario, non un centesimo di debito nei confronti dei fornitori, e da ormai 5 generazioni paghiamo regolarmente i nostri marittimi con stipendi ben più alti dei miei concorrenti eppure qualcuno ha dichiarato che ero sull’orlo del fallimento.

E anche:

I mandanti però vanno cercati altrove. Ci sono concorrenti che hanno come unica strategia commerciale il discredito e la calunnia nei nostri confronti. È una strategia molto articolata che va avanti da anni, non senza la connivenza di certa stampa che ha a cuore i ricchi budget pubblicitari che gli vengono offerti.

Onorato ha anche evidenziato che i fondi sono stati condannati a pagare le spese legali – poca roba: 6mila euro più IVA – e ha aggiunto: «Ho dato mandato ai miei legali di denunciare per calunnia chi con notizie false, inventate, prive di ogni fondamento mi ha portato in tribunale in una così detta lite temeraria».

La decisione del tribunale comprende però anche un passaggio secondo cui Moby «avrebbe necessità di monitoraggio e di ricorrere a strumenti di superamento di una crisi che ha caratteristiche importanti e che potrebbero diventare molto gravi». Questo perché, sempre secondo il tribunale, «i margini operativi nascenti dal core business della società tendono a ridursi costantemente e non potendo alzare di più le tariffe, la società sino ad ora ha provveduto a vendere alcuni tra i migliori natanti, per contrastare la carenza di liquidità conseguente». Come scrive Pinna sulla Stampa, «per la compagnia di Vincenzo Onorato questa sentenza non contiene molti passaggi rassicuranti, perché nelle quattro pagine del dispositivo scritto dal giudice Alida Paluchowski si parla di una situazione economica davvero molto preoccupante».

Sul Fatto Quotidiano Francesco Sanna ricorda che il gruppo Onorato ha «un indebitamento lordo di 712 milioni di euro» e che il suo amministratore, Vincenzo Onorato, «starebbe reagendo con la strategia di vendere le navi della propria flotta allo scopo di ottenere quella liquidità necessaria ad onorare i suoi debiti entro le scadenze». Sanna ha aggiunto, parlando della vendita delle navi di Moby e dei suoi accordi con lo Stato: «I giudici stimano addirittura che in forza di questa strategia la compagnia potrebbe doversi liberare di 10 scafi, su 48, in caso di mancato rinnovo della convenzione pubblica da 72 milioni l’anno all’ex Tirrenia CIN, che scadrà salvo sorprese a luglio 2020». È una strategia che secondo il tribunale «non mostra particolare attenzione alla continuità aziendale e nemmeno immaginazione, oltre a sostenere concettualmente i timori dei bondholders [i fondi di investimento]».