L’ergastolo ostativo non va bene

La Corte europea per i diritti umani ha respinto il ricorso del governo italiano e lo ha invitato a rivedere la pena più dura prevista nel nostro ordinamento penitenziario

(Boris Roessler/dpa)
(Boris Roessler/dpa)

La Grande camera della Corte europea per i diritti umani (CEDU), con sede a Strasburgo, ha invitato l’Italia a rivedere la sua legge che prevede il cosiddetto ergastolo ostativo, una pena senza fine prevista nell’ordinamento penitenziario italiano che “osta” a qualsiasi sua modificazione: non può cioè essere né abbreviata né convertita in pene alternative, a meno che la persona detenuta decida di collaborare con la giustizia. In altre parole, è il carcere per sempre. La Corte aveva già bocciato la legge una volta; ora ha respinto il successivo ricorso del governo italiano.

Che cos’è
L’ergastolo ostativo fu inserito nell’ordinamento penitenziario italiano all’inizio degli anni Novanta, dopo le stragi nelle quali furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e in un momento che molti esperti hanno definito “di emergenza nazionale”: in un momento in cui si decise per ragioni contingenti di rafforzare le misure per combattere le grandi organizzazioni criminali.

L’ergastolo ostativo è regolato dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e stabilisce che le persone condannate per alcuni reati di particolare gravità, come mafia o terrorismo, non possano essere ammesse ai cosiddetti “benefici penitenziari” né alle misure alternative alla detenzione: per queste persone è escluso l’accesso alla liberazione condizionale, al lavoro all’esterno, ai permessi-premio e alla semilibertà. La pena dell’ergastolo ostativo coincide dunque, per la sua durata, con l’intera vita del condannato: è quella per cui si usa spesso l’espressione “fine pena mai”.

Per chi è condannato all’ergastolo ostativo esiste solo un’eccezione per l’ammissione ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione: la collaborazione con la giustizia.

Perché se ne parla
Lo scorso 13 giugno scorso la Corte europea dei diritti umani si era pronunciata, per la prima volta dalla sua istituzione, sulla compatibilità dell’ergastolo ostativo con la Convenzione europea dei diritti umani.

Il caso in esame riguardava Marcello Viola, condannato all’ergastolo per associazione a delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona, omicidio e possesso illegale di armi. Per sei anni Viola era stato sottoposto al regime del cosiddetto carcere duro regolato dall’articolo 41-bis, poi sospeso. Una volta uscito dal 41-bis, Viola aveva chiesto un permesso premio e la possibilità di accedere alla liberazione condizionale. Le sue domande erano sempre state rifiutate, proprio sulla base dell’articolo 4-bis: Viola non aveva mai collaborato (anzi, si è sempre dichiarato innocente) e, dunque, per l’ordinamento penitenziario italiano non poteva accedere ad alcun beneficio o alla liberazione condizionale. Viola si era infine rivolto alla Corte europea dei diritti umani, che si era pronunciata a suo favore e contro l’ergastolo ostativo (ci arriviamo).

Contro quella prima sentenza il governo italiano aveva presentato ricorso alla Grande Chambre della Corte. Nella sua richiesta il governo aveva spiegato come la mafia sia la principale minaccia alla sicurezza nazionale, europea e internazionale, e sottolineato che l’ergastolo ostativo sia stato dichiarato conforme ai principi costituzionali dalla Corte Costituzionale.

In Italia 
La giurisprudenza italiana ha preso più volte posizione in materia di ergastolo ostativo, in particolare sulla sua compatibilità con l’articolo 27 comma 3 della Costituzione, che stabilisce che le pene non possano «consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» e debbano di conseguenza «tendere alla rieducazione del condannato». Nel 2003 la Corte Costituzionale ha ribadito la costituzionalità dell’ergastolo ostativo: «Subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, che è rimessa alla scelta del condannato, (la disciplina) non preclude in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio, e non si pone, quindi, in contrasto con il principio rieducativo enunciato dall’art. 27, terzo comma, Cost.». Il principio su cui si basa questa decisione è che la mancata collaborazione con la giustizia è riconducibile a una “scelta del condannato” (sempre il condannato sia effettivamente colpevole, cosa non scontata, e quindi abbia modo di scegliere di collaborare).

Sentenze più recenti della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione hanno però ammorbidito l’orientamento rigoroso di questa sentenza. Alcuni tentativi per riformare l’ergastolo ostativo sono stati fatti anche nel 2014 da una commissione ministeriale e nel 2015 dagli Stati generali dell’esecuzione penale.

Chi sostiene che l’ergastolo ostativo sia incostituzionale o da ripensare porta diverse argomentazioni, sintetizzate per esempio da un articolo di Adriano Sofri pubblicato qualche anno fa su Repubblica. Commentando la sentenza del 2003 della Corte costituzionale (con cui si convalida l’unica eccezione al 4 bis, cioè il caso in cui il condannato “collabori” con la giustizia), Sofri scriveva:

«Questa eccezione ribadisce il rovesciamento di senso per cui in Italia si chiamarono “pentiti” i collaboratori di giustizia, tramutando una categoria pratica, spesso utile e altrettanto spesso detestabile, in una categoria morale. Non solo l’assimilazione è indebita, ma può avvenire l’opposto: che un vero intimo e non esteriore pentimento vada assieme al rifiuto o all’impossibilità di denunciare altri. (…)

Subordinare l'”indulgenza” (uso questo termine perché ricorda l’altro, della simonia) alla delazione espone il condannato a mettere oltre che se stesso la propria famiglia, a distanza di venti o trenta anni – figli, figli dei figli – nella catastrofe della “protezione”, del cambiamento di identità, di luogo, di vita, nella paura. E infine – ma non è l’ultimo degli argomenti, al contrario – chi può escludere che fra quegli ergastolani “ostativi”, quegli “uomini ombra” come loro stessi hanno deciso di chiamarsi, ce ne siano che non hanno niente da confessare, nessuno da denunciare? Anche se si trattasse solo di una questione di principio, occorrerebbe tenerne gran conto (…)»

Alla base del 4 bis e dell’unica sua eccezione c’è la presunzione che la mancanza di collaborazione con la giustizia sia sempre riconducibile all’assenza di progressi nel percorso verso la rieducazione, mentre la mancata collaborazione può essere motivata da altro, come per esempio il timore di ritorsioni.

La sentenza della CEDU
A giugno la Corte di Strasburgo ha condannato l’ergastolo ostativo all’italiana perché viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che proibisce “trattamenti inumani e degradanti”. La condanna riguardava, in particolare, la parte in cui il 4 bis restringe alla sola ipotesi di collaborazione con la giustizia la possibilità di accedere alla liberazione condizionale. Il principio della dignità umana che discende dall’articolo 3 impedisce di privare le persone della propria libertà senza garantire loro, allo stesso tempo, la possibilità di poter riacquistare, un giorno, tale libertà.

La Corte si chiedeva anche se subordinare l’accesso alla libertà condizionale alla possibilità di collaborare con la giustizia implicasse realmente una scelta libera da parte delle persone detenute: la non collaborazione può dipendere dalla preoccupazione di non mettere in pericolo la propria vita e quella dei propri familiari, e inoltre va tenuto conto della possibilità di una collaborazione determinata solamente dall’opportunismo. La Corte si chiedeva infine se fosse adeguata l’equazione tra “mancata collaborazione con la giustizia” e “presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato”: in questo caso, insomma, non si terrebbe conto del percorso fatto dal condannato, degli eventuali progressi o cambiamenti, e si fisserebbe la sua pericolosità al solo momento della commissione del fatto.

Cosa se ne diceva
In questi giorni l’ala più dura e giustizialista della magistratura e giustizia italiana – da Nino Di Matteo, pubblico ministero della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e a Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia – si è detta molto preoccupata per la possibile eliminazione dell’ergastolo ostativo per mafiosi e terroristi.

Secondo Di Matteo, con l’eliminazione dell’ergastolo ostativo aumenterebbe il rischio «che i capimafia ergastolani continuino a comandare» e «sarebbe un segnale di possibile riaffermazione anche simbolica del loro potere». E ancora: «Chi conosce storicamente Cosa Nostra sa bene che l’unica vera preoccupazione per i mafiosi è proprio l’ergastolo, inteso come effettiva reclusione senza alcuna possibilità di accedere ai benefici. Sin dai tempi del maxi-processo, l’abrogazione dell’ergastolo o comunque l’attenuazione attraverso la concessione di benefici è uno degli scopi criminali più alti delle organizzazioni mafiose. Ne abbiamo avuto prova in molti processi». Per Morra, invece, «l’Europa continua a mostrare indifferenza per le mafie: (…) la CEDU, cioè una corte europea di giustizia, vuole impedire che l’ergastolo, senza possibilità di alcun alleggerimento, di alcun beneficio, di alcuno sconto di pena, possa indurre mafiosi ad accettare la possibilità di collaborare con lo Stato, diventando fonti informative importanti per sconfiggerei sodalizi mafiosi».