La resa del PD sulla Giustizia

Un tema così importante per i progressisti è stato lasciato all'approccio giustizialista del M5S e di Alfonso Bonafede, scrive Sergio Soave sul Foglio

Alfonso Bonafede (Fabio Cimaglia/LaPresse)
Alfonso Bonafede (Fabio Cimaglia/LaPresse)

A leggere i tantissimi “totoministri” che si sono ripetuti sui quotidiani nei lunghi giorni delle trattative per il governo, colpiva soprattutto una cosa: che i nomi cambiavano, andavano e venivano ogni giorno, e ogni giornale aveva il suo, ma una casella ha ospitato invece, sempre e ovunque, la stessa faccia. Quella di Alfonso Bonafede, che ieri è stato in effetti riconfermato come ministro della Giustizia. Malgrado Bonafede non avesse grandi titoli – salvo una laurea in legge – per quella carica, e non si sia fatto particolarmente apprezzare nel ruolo, la sua conferma – basata sulle sue relazioni molto strette con Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, che fu suo professore e di cui si dice sia stato Bonafede a tirare fuori il nome la prima volta per la presidenza del Consiglio – non è mai stata in discussione, e il Partito Democratico a quella non si è mai opposto.

Sul cedimento da parte del Partito Democratico – che ha tra i suoi attuali dirigenti che hanno gestito la trattativa Andrea Orlando, ex ministro della Giustizia piuttosto stimato – di questo importante settore della vita del paese, cedimento con ricadute sostanziali, scrive oggi sul Foglio Sergio Soave.

Roma. La conferma di Alfonso Bonafede al ministero della Giustizia non è mai stata messa in discussione nel corso delle trattative per la costituzione del secondo governo di Giuseppe Conte. L’atteggiamento iper giustizialista dell’ammiratore di Pierrcamillo Davigo non ha trovato resistenze nel Pd, che non si è neppure impegnato a definire un programma per la Giustizia meno generico di quello contenuto all’articolo 12 della bozza concordata: “Occorre ridurre drasticamente i tempi della giustizia civile, penale e tributaria e riformare il metodo di elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura”. Il primo argomento, quello dei tempi della giustizia, è propedeutico all’entrata in vigore della norma capestro che abolisce la prescrizione dopo il primo grado, che entrerà in vigore all’inizio dell’anno prossimo solo congiuntamente a questa riforma, il secondo è conseguenza del terremoto che ha costretto alle dimissioni alcuni membri togati del Csm accusati di aver concordato con soggetti esterni le nomine nelle procure e nei tribunali. Si tratta dunque del minimo indispensabile, come se la giustizia in Italia funzionasse benissimo e lo farà ancora meglio una volta che, con l’abolizione della prescrizione, la dittatura delle procure sarà ancor meno contenibile. Naturalmente nemmeno una parola sulla limitazione delle intercettazioni e ancora meno sulla situazione carceraria indegna di un paese civile.

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