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  • Giovedì 15 agosto 2019

Nel Regno Unito si parla di crisi costituzionale

Potrebbe succedere se il parlamento sfiduciasse il primo ministro e lui si rifiutasse di andarsene: poi toccherebbe alla regina risolvere la cosa

Boris Johnson (Lorne Campbell / Sunday Times / Rota)
Boris Johnson (Lorne Campbell / Sunday Times / Rota)

A settembre, alla riapertura del parlamento nel Regno Unito, il primo ministro britannico Boris Johnson dovrà sottoporsi molto probabilmente a un voto di sfiducia presentato dal Partito laburista di Jeremy Corbyn, il principale partito di opposizione del paese. Corbyn, e come lui diversi altri parlamentari, vorrebbe evitare che Johnson sia ancora capo del governo il 31 ottobre, ultima data fissata per Brexit: il motivo è che Johnson, conservatore, ha già detto che farà di tutto per rinegoziare un accordo su Brexit con l’Unione Europea, modificando quello trovato dal precedente governo di Theresa May e già bocciato tre volte in parlamento, ma ha aggiunto che se non dovesse riuscirci Brexit si farà lo stesso senza accordo (l’ormai noto scenario del “no deal”).

L’idea di quelli che si oppongono al “no deal” è di sfiduciare Johnson, farlo dimettere da primo ministro e andare a nuove elezioni. Ma c’è una domanda che si stanno facendo da giorni i quotidiani britannici: e se Johnson decidesse di non dimettersi, nonostante il voto di sfiducia?

Che Johnson rimanga al suo posto nonostante la sfiducia non è uno scenario impossibile: ne ha parlato di recente Dominic Cummings, senior advisor (consigliere anziano) di Johnson, ipotizzando che l’attuale governo arrivi comunque in carica alla scadenza fissata per Brexit e in caso di mancato nuovo accordo con l’Unione Europea decida di seguire la strada del “no deal”. La discussione su cosa può e non può fare Johnson deriva dalla particolarità della Costituzione britannica, che non è una Costituzione codificata in un unico documento: è piuttosto un insieme di statuti, trattati e decisioni giuridiche, ma anche di norme consuetudinarie e prerogative reali. Seguendo queste regole, i primi ministri britannici si sono sempre dimessi dopo un voto di sfiducia del parlamento.

Dopo la sfiducia, le norme costituzionali prevedono un periodo di 14 giorni in cui il parlamento verifica la possibilità di formare una nuova maggioranza, e in caso di esito negativo vengono convocate nuove elezioni.

Come ha sostenuto Cummings, però, c’è una situazione in cui le regole consuetudinarie non sono abbastanza chiare, lasciando margine di manovra. Se nei 14 giorni compresi tra la sfiducia e la convocazione di nuove elezioni in parlamento non emerge una maggioranza che sia in grado di appoggiare un nuovo primo ministro, il capo del governo uscente – in questo caso Johnson – potrebbe convocare le elezioni rimanendo al suo posto, senza dimettersi. A quel punto, dicono i costituzionalisti britannici, la Regina potrebbe decidere di intervenire e licenziare Johnson usando il cosiddetto “potere di prerogativa di riserva”, anche se il tradizionale ruolo neutrale della Regina rende questo scenario per lo meno improbabile. Il risultato, comunque, sarebbe l’inizio di una crisi costituzionale.

Se le dimissioni di un primo ministro sfiduciato non sembrano essere obbligatorie in certe condizioni, le intenzioni di Johnson su Brexit potrebbero comunque andare contro la legge, che proibisce qualsiasi grande cambio di politiche governative durante il periodo della campagna elettorale: sarebbe quindi complicato arrivare a giustificare una Brexit senza accordo in periodo di campagna elettorale, soprattutto perché il parlamento britannico si è espresso più di una volta contro questa opzione.

La situazione è piuttosto complicata, e non solo perché si parla dell’ipotesi che Johnson possa violare alcune delle regole consuetudinarie che compongono la Costituzione, ma anche per l’intricata situazione nel parlamento britannico.

Mercoledì il leader laburista Jeremy Corbyn ha mandato una lettera ai leader degli altri partiti di opposizione e ai parlamentari conservatori “ribelli” con una proposta: sfiduciare Johnson e dare a lui la fiducia per formare un governo di emergenza che si incarichi di convocare nuove elezioni e che impedisca una Brexit senza accordo. Il suo sarebbe un governo “a tempo”, ha detto Corbyn, che ha aggiunto che in caso di vittoria dei Laburisti alle prossime elezioni si impegnerà a organizzare un secondo referendum facendo campagna per il “remain”, cioè per la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea.

Come succede però da tempo nel parlamento britannico con tutto ciò che riguarda Brexit, la proposta di Corbyn non ha trovato molto appoggio. La leader dei liberal democratici, Jo Swinson, ha detto che non appoggerebbe un governo guidato da Corbyn, mentre potrebbe cambiare idea nel caso di un governo di emergenza guidato da politici meno divisivi, come il conservatore Ken Clarke e la laburista Harriet Harman. Altri parlamentari, tra cui Caroline Lucas, dei Verdi, hanno insistito che un secondo referendum su Brexit dovrebbe tenersi prima delle elezioni, non dopo; altri ancora hanno detto che Corbyn non ha il rispetto né delle due Camere né dei membri del suo stesso partito, che per esempio su Brexit si è sempre mostrato molto diviso.

Secondo Tom Barton, giornalista politico di BBC, ad oggi Corbyn non sembra avere i numeri per formare un nuovo governo, anche se le cose potrebbero cambiare nelle prossime due settimane: per esempio alla sua lettera hanno risposto positivamente i “ribelli conservatori”, dicendo di essere disposti a parlare con il leader laburista.

La situazione politica ha quindi un notevole impatto sullo scenario di cui i giornali britannici discutono da giorni: se infatti in caso di sfiducia a Boris Johnson il parlamento non dovesse accordarsi per una nuova maggioranza, Johnson potrebbe decidere di non dimettersi dal suo incarico e arrivare al 31 ottobre come capo del governo. A quel punto, starebbe alla Regina decidere se intervenire o meno. Inoltre, se il governo britannico e l’Unione Europea non saranno riusciti a trovare un qualche tipo di accordo, Johnson potrebbe forzare una Brexit senza accordo, con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare.