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  • Venerdì 7 giugno 2019

Curarsi troppo può essere controproducente

La tentazione delle autodiagnosi su Google e certe abitudini sbagliate tra i medici ci portano a ipermedicalizzarci e prendere per malattia quello che non lo è

(LaPresse/Giordan Ambrico)
(LaPresse/Giordan Ambrico)

Immaginate un medico esperto che sta facendo un giro di visite in ospedale insieme a un gruppo di specializzandi. Il medico esperto interroga i medici più giovani: «Come possiamo definire una persona sana?». Uno degli specializzandi si fa avanti e risponde: «È quella persona che non si è ancora sottoposta a degli esami». Questo scambio aneddotico spiritoso fa parte di un citatissimo saggio dell’endocrinologo americano Clifton Meador pubblicato nel 1994 sulla rivista scientifica The New England Journal of Medicine: si intitola “The Last Well Person”, cioè “L’ultima persona sana”, ed è una critica a certi eccessi della medicina contemporanea e in particolare alla propensione dei medici di prescrivere analisi ai propri pazienti e a quella dei pazienti di farseli prescrivere anche se si sta bene, solo per fare “un controllo”.

Il problema dell’ipermedicalizzazione
Il saggio di Meador fa parte di un più grande dibattito del mondo dei medici sulla cosiddetta “ipermedicalizzazione”. Con questo termine si indica la tendenza a sottoporsi a pratiche mediche non strettamente necessarie e ad assumere farmaci anche in caso di malattie lievi, per cui si potrebbe lasciare che il sistema immunitario se la sbrighi da solo. Si basa sull’assunto non sempre corretto che le terapie e gli esami siano sempre meglio in più che in meno.

Gli esami non necessari hanno un impatto economico sui sistemi sanitari e sul reddito dei pazienti: in Italia, ad esempio, è stato stimato che solo il 56 per cento delle prescrizioni di radiografie in ambulatorio è appropriato; non facendole il Servizio sanitario nazionale potrebbe avere un risparmio del 36 per cento sui costi per questo tipo di esami. Ma, cosa ancora più importante per preoccuparsene, l’ipermedicalizzazione può anche fare male alla salute.

L’esempio forse più noto è quello degli antibiotici: potrebbe esservi capitato di sentire un medico lamentarsi di un collega che ne prescrive troppi, anche per un leggero mal di gola, spingendo poi i pazienti ad assumerli anche senza prescrizione. L’abuso di questi farmaci aumenta la resistenza dei batteri nei loro confronti, attraverso il meccanismo della selezione naturale che porta alla creazione di nuovi ceppi resistenti. È un fenomeno particolarmente presente in Italia, dove, secondo le indagini dell’Istituto Superiore di Sanità, tra il 2012 e il 2016 la resistenza agli antibiotici più usati del batterio che solitamente causa la polmonite è stata superiore al 30 per cento, contro una media europea del 6 per cento.

Oltre al caso degli antibiotici, ce ne sono molti altri, più o molto meno “gravi”, in cui l’eccesso di medicalizzazione si fa notare. Un altro di cui si sente parlare spesso riguarda la gravidanza e il parto: molti esponenti del mondo scientifico e non solo criticano quegli approcci medici che sembrano considerare la gravidanza una malattia e non una semplice condizione fisiologica. Ad esempio per la maggior parte dei parti, quelli in cui non ci sono rischi, non è indispensabile essere seguite da un ginecologo: basta un ostetrico.

Altri eccessi di cura vengono praticati in ambito chirurgico. Nel saggio Troppa medicina (Einaudi, 2017) il cardiologo Marco Bobbio, segretario generale del movimento Slow Medicine, spiega l’esempio dell’angioplastica coronarica, una procedura chirurgica in cui si dilata un tratto di arteria occluso con un catetere a palloncino. È un tipo di intervento che viene proposto a molte persone a rischio di ictus o infarto: secondo la letteratura scientifica riduce i sintomi di queste persone, ma non il rischio di infarto e di morte. Uno studio su più di duemila persone ha mostrato che i pazienti sottoposti a questo intervento hanno le stesse probabilità di avere un infarto e morirne di chi invece non si è fatto operare, ma ha seguito una corretta terapia farmacologica. Nonostante questo la stragrande maggioranza dei pazienti è convinta che l’intervento eviti l’infarto, prolunghi la vita e non abbia effetti indesiderati, che invece ha.

Da dove cominciare con la “demedicalizzazione”
L’ipermedicalizzazione ha varie cause, legate sia al comportamento dei medici che a quello dei pazienti e in primo luogo dipende dal fatto che negli ultimi secoli la medicina ha fatto enormi progressi ed è diventata molto più presente nella vita delle persone. Per questo molti, non appena si sentono un po’ male, cercano rimedi e si preoccupano, aspettandosi che il proprio medico abbia una soluzione pronta e semplice, da acquistare in farmacia, oppure che sappia qual è l’esame giusto per capire il problema. E allo stesso tempo molti medici, per non arrivare a uno scontro con un paziente, che magari ha fatto ricerche su internet per farsi un’idea del proprio stato di salute, prescrivono un esame anche se pensano che il paziente non abbia nulla di rilevante, solo per convincerlo che è così. Questi medici possono anche aver paura di essere denunciati in caso di errori – o di prime diagnosi imprecise, o terapie poco efficaci per ragioni complesse.

Nella comunità medica ci sono molte proposte per contrastare l’ipermedicalizzazione con il suo opposto, la demedicalizzazione, cioè un ridimensionamento delle terapie consigliate ai pazienti sulla base delle loro effettive necessità. Il punto di partenza è l’idea che una “medicina per i sani” – non le persone che non si sono ancora sottoposte agli esami, ma quelle che anche con qualche piccolo disturbo di fatto stanno bene – esista, ma non abbia tanto a che fare con i medici. Si basa principalmente sulla conoscenza e la consapevolezza della propria omeostasi, cioè del proprio stato di stabilità dinamica fisico garantito dai meccanismi autoregolatori del corpo umano: quello per cui se nel nostro corpo c’è un’infezione in corso può venirci la febbre, un meccanismo di difesa per ridurre la replicazione dei microorganismi responsabili dell’infezione.

A volte, come nel caso della febbre, i sintomi che indicano che si è usciti dalla propria omeostasi sono fastidiosi o debilitanti, per cui ha senso prendere provvedimenti, ma in molti casi non serve il ricorso a un medico o comunque non serve la prescrizione di una terapia complessa. Anche perché le terapie inutili possono essere dannose per altre parti del corpo a causa degli effetti collaterali oppure per la propria salute psichica, generando preoccupazioni e insicurezze.

Michele Cucchi, direttore sanitario del Centro Medico Santagostino, una rete di poliambulatori specialistici privati presente in Lombardia ed Emilia-Romagna, ha spiegato al Post che oggi, nei paesi con un buon sistema sanitario, stare in salute dipende più dalle scelte e dalle motivazioni delle persone che dal destino, cioè dai geni e dai casi della vita.

Gli stili di vita salutari possono essere efficaci tanto quanto e talvolta anche più dei farmaci, peraltro con meno effetti collaterali. Potrà sembrarvi una banalità, ma a livello mondiale i principali fattori di rischio che hanno un impatto sulla salute delle persone sono una dieta sbagliata, l’abuso di sale, il fumo e l’abuso di alcol. Si stima che tra il 30 e il 50 per cento di tutti i tumori si possano prevenire conducendo uno stile di vita salutare, cioè evitando il fumo, alimentandosi bene e facendo attività fisica. Vale anche per la prevenzione delle malattie cardiovascolari: tra il 1980 e il 2000, in Italia, i tassi di mortalità legati a problemi alle arterie (relativi quindi a ictus e infarti) si sono più o meno dimezzati ed è stato stimato che il 55 per cento di questa diminuzione è dovuto al minore impatto dei fattori di rischio, in gran parte legati alla dieta.

Cambiare i comportamenti che hanno una ricaduta nel lungo periodo è difficile, per questo è importante che i medici assistano i propri pazienti e trovino il modo giusto per informarli e comunicare con loro. Secondo Cucchi la sanità dovrebbe avvicinarsi a un modello fondato più sul “prendersi cura” che sul “curare”, anche dando più rilievo al lavoro di infermieri e altre figure paramediche: «La medicina oggi più che prescrittiva deve essere un accompagnamento delle persone nel cambiamento».

Per cominciare ad avere un atteggiamento migliore nel proprio rapporto con farmaci, terapie e preoccupazioni per la propria salute, comunque si possono tenere a mente alcune cose, che potrebbero sembrare banali a qualcuno ma sono importanti. Ad esempio, i diabetici (di tipo 2, quello non genetico) e altri pazienti cronici con una buona dieta e altri comportamenti virtuosi possono ridurre il carico di farmaci assunti e migliorare complessivamente la qualità della vita. Invece per provare a risolvere i problemi di insonnia è importante prima di tutto evitare di mangiare troppo la sera; anche fare attività sportiva può aiutare. Se si ha spesso il mal di testa, un buon punto di partenza è capire se una delle sue cause più comuni – l’assunzione di alcol, la stanchezza, la mancanza di sonno o l’esposizione a forti rumori – possa avere un certo peso. Per il mal di schiena un corso di pilates può risolvere la situazione, per certi problemi di ansia non sono necessari i farmaci ma basta una terapia di mindfulness e per un caso di allergia ai pollini non grave è sufficiente lavarsi spesso la faccia con acqua fredda.

Questo articolo fa parte di un progetto sponsorizzato dal Centro Medico Santagostino.