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  • Martedì 4 giugno 2019

Quando le canzoni si cantavano tradotte

Dall'inglese all'italiano, con capriole semantiche per adattarne i temi, ma anche dall'italiano al tedesco, come successe a Mia Martini

A un certo punto negli anni Sessanta era normale che si prendesse una canzone che stava andando forte in Regno Unito o negli Stati Uniti, la si affidasse a un paroliere perché adattasse come meglio credeva il testo e la si facesse cantare a una band o a una cantante molto in voga, per replicarne il successo. A volte la versione italiana fu fatta cantare agli stessi artisti stranieri, con risultati quasi sempre molto goffi. E capitò anche che artisti italiani fecero lo stesso con le proprie canzoni, provando a districarsi in alcuni casi con l’ostica pronuncia tedesca.

Erano tempi in cui gli ostacoli linguistici erano più imponenti di oggi, e un testo in italiano spesso era la condizione imprescindibile per il successo di una canzone straniera in Italia. Finché le canzoni parlavano d’amore, i traduttori avevano vita facile: le cose si complicavano quando c’erano riferimenti più precisi al contesto americano o britannico, che spesso portavano i parolieri italiani a stravolgerne completamente il testo, trasformando in certi casi canti di protesta in canzonette, o ballate spaziali in banali struggimenti d’amore. Abbiamo raccolto le storie di alcune di queste canzoni tradotte, in alcuni casi anche un po’ “tradite”, anche se solo nel testo.

A tradurre una gran canzone americana resa celebre dall’interpretazione di Jackson Browne ci pensò Lucio Dalla, con alcune accortezze. Nella prima strofa di “The Road” si parlava di «Coffee in the morning, cocaine afternoons»; in “Una città per cantare” diventò «caffè alla mattina, puoi fumarti il pomeriggio»: era pur sempre l’Italia del 1980. «Phone calls long distance” diventò invece «quante interurbane», un po’ prosaicamente. La città del titolo italiano era solo una comparsa nel testo originale, lungo la strada che le dava il titolo: e non ci cantava nessuno, in quella città.

Nel 1970, invece, David Bowie provò a replicare l’enorme successo inglese dell’anno prima di “Space Oddity” facendola tradurre a Mogol, che accantonò astronauti e cieli stellati per raccontare un dialogo tra un ragazzo che ha perso la ragazza, e una ragazza che ha perso il ragazzo. Il risultato fu molto discutibile: sia perché il testo non era lontanamente affascinante come l’originale, sia perché la voce di Bowie suona piuttosto lugubre e lamentosa in italiano.

I Corvi erano uno storico gruppo beat emiliano degli anni Sessanta, che per una delle sue ultime registrazioni prese una canzone uscita l’anno prima, “The Letter”: l’avevano pubblicata i Box Tops, un gruppo soul statunitense, e l’avrebbe resa molto famosa un paio di anni dopo Joe Cocker. I Corvi, che la chiamarono “Datemi un biglietto d’aereo”, ci arrivarono quindi before it was cool, e mantennero un testo piuttosto fedele che racconta di un amante che vuole tornare il più in fretta possibile dalla sua amata. Così in fretta che non ha tempo per il treno, e vuole proprio un-biglietto-d’aereo.  Forse impossibilitato nell’originale per via delle grandi distanze nordamericane, il protagonista italiano è anche disposto a correre, anzi ha già iniziato a farlo.

Un notevole caso di canzone il cui senso fu stravolto nella sua versione italiana è “Datemi un martello”, cantata da Rita Pavone nel 1964: l’aveva scritta diversi anni prima Pete Seeger, il grande cantautore americano, e l’avevano resa famosa molte interpretazioni, compresa quella surf di Trini Lopez, quella su cui si basò la versione italiana. È considerata una delle prime canzoni di protesta americana, con un testo che nel finale celebra la fratellanza, l’uguaglianza e la libertà e che divenne uno degli inni del movimento per i diritti civili nei primi anni Sessanta.

In Italia, venne adattata dal paroliere Sergio Bardotti, che tolse qualsiasi riferimento al progressismo e la rese lo sfogo di una ragazza che vuole divertirsi e ballare, dando martellate alle smorfiose e alle coppiette.

Scritta nel 1952 dal grande cantautore francese George Brassens, “Le Gorille” raccontava di un gorilla che scappa dalla sua gabbia e violenta un magistrato, come sorta di contrappasso per la pena di morte – che era ancora in vigore in Francia – e in generale per l’autoritarismo della polizia. Fabrizio De Andrè la tradusse molto fedelmente nel 1968 per Volume III, il suo terzo disco: erano passati molti anni e la pena di morte in Italia non c’era da tempo, ma De Andrè continuava a non apprezzare i giudici, come ebbe modo di far presente in diversi suoi testi.

“As tears goes by” era uscita nel 1964, scritta dai Rolling Stones e cantata da Marianne Faithfull – non si è mai capito se fu scritta apposta per lei o no – raggiungendo un buon successo, tanto che l’anno successivo la band inglese ne registrò la sua versione, con un arrangiamento di archi che portò molti a considerarla la risposta degli Stones a “Yesterday” dei Beatles. Loro negarono sempre. La versione italiana fu affidata al paroliere Dante “Danpa” Panzuti, che mantenne il testo quasi uguale all’originale: la differenza principale è che, un po’ come quella di Bowie, la voce di Jagger in Italiano suona un po’ una cantilena.

Spesso “La canzone dei vecchi amanti” viene associata a Franco Battiato, che la mise nel suo disco Fleur del 1999, ma a portarla in Italia fu Patty Pravo nel 1971, quando Sergio Bardotti e Duilio Del Prete tradussero la “Chanson des vieux amants” del cantautore francese Jacques Brel. Il testo, una dichiarazione d’amore di una coppia che insieme ne ha passate tante, fu tradotto in modo diverso, ma sempre mantenendo il senso originale, verso per verso.

“Piccolo Uomo” fu uno dei più grandi successi di Mia Martini, il primo singolo inciso dopo il passaggio all’etichetta Ricordi nel 1971: era appena diventata famosa e ci fu chi storse il naso per la decisione di affidare a lei una canzone così forte, ma evidentemente dovette ricredersi. Fu un tale successo che a Martini venne proposto di registrarla in tedesco, per venderla meglio in Germania. Il testo parla sempre di storie d’amore che finiscono, ma non c’è nessun piccolo uomo: “Auf der Welt” vuol dire “nel mondo”.

Forse la più famosa delle canzoni statunitensi ad avere avuto una versione italiana fu “California Dreamin’” dei Mamas and Papas, inno generazionale tradotto da Mogol, che dovette adattarla un po’: nell’originale, chi sogna la California lo fa in un freddo giorno d’inverno; nella versione dei Dik Dik, sembra parlare di uno che non ci è mai stato ma che ne ha il mito, come molti giovani italiani degli anni Sessanta.

L’originale “Mad About You” uscì nel terzo disco di Sting, The Soul Cages del 1991, e il testo venne adattato da Zucchero, che rimase nell’area semantica del Medio Oriente e tradusse il ritornello, «Mad about you» appunto, con “Muoio per te”. Sting l’ha poi suonata l’anno scorso a Sanremo.

La prima versione di “Bang Bang” fu cantata da Cher, ma forse la versione ancora oggi più conosciuta è quella di Nancy Sinatra, uscita nel 1966 e usata poi anche da Quentin Tarantino in Kill Bill. In Italia arrivò in diverse versioni, con traduzioni un po’ diverse – cavalli a dondolo o cowboy, “indiani” che nell’originale non ci sono – ma con lo stesso finale straziante.

Un esempio più recente (del 2004) e di grandissimo successo italiano infine è “A chi mi dice”, la versione italiana di “Breathe Easy” dei Blue, cantata dalla stessa boyband con i limiti di pronuncia dei britannici che usano parole italiane senza conoscerne bene la pronuncia. Però c’è una versione di Fausto Leali e Mina del 2016 e Tiziano Ferro (autore del testo italiano) la cantava spesso ai suoi concerti in passato. Entrambe le versioni della canzone, quella in inglese e quella in italiano, parlano di un uomo che non sta più con la donna che ama e per questo soffre. Tuttavia mentre in “Breathe Easy” si dà la colpa per le bugie e altre cattiverie che l’hanno allontanata («curse me inside / for every word that caused you to cry»), in “A chi mi dice” sembra che ce l’abbia un po’ con lei e le dice «non piangerai / perché tu non riesci a perdere mai».

Le traduzioni di canzoni sono un caso un po’ particolare nel mondo delle traduzioni, dato che quando si tratta di musica la cosa che conta di più è la melodia. Infatti i parolieri danno maggiore importanza al suono delle parole piuttosto che al loro significato. Però è indubbio che chi riesce a mantenere lo spirito originale di una canzone traducendola ha fatto un lavoro particolarmente difficile, per cui serve una lunga pratica professionale. Partire da una buona traduzione in alcuni casi può aiutare.

Ci sono poi altri settori – compreso quello letterario e cinematografico – in cui le traduzioni accurate e vicine alla versione originale sono fondamentali e non un semplice accessorio. Per questo conviene comunque affidarsi a professionisti delle traduzioni che conoscano bene il settore in cui si lavora e il suo lessico specifico. In Italia ad esempio ci si può affidare all’agenzia di traduzione e interpretariato Global Voices: sono numerosissime le lingue da cui e in cui traduce, più di 160. 

Questo articolo è sponsorizzato da Global Voices.