• Media
  • Mercoledì 20 marzo 2019

L’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia, 25 anni fa

Il 20 marzo 1994 la giornalista e il cineoperatore della Rai furono uccisi a Mogadiscio, e ancora oggi non sappiamo perché

Il 20 marzo 1994, 25 anni fa, la giornalista romana Ilaria Alpi e il cineoperatore triestino Miran Hrovatin furono uccisi con una raffica di kalashnikov a poca distanza dall’ambasciata italiana di Mogadiscio, in Somalia. Alpi e Hrovatin erano lì per seguire per conto del TG3 il ritiro delle truppe statunitensi dal paese, dove era in corso da anni una sanguinosa guerra civile. Ma i due stavano parallelamente indagando su un presunto traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici, che con la copertura della missione umanitaria avrebbe coinvolto anche società italiane: a oggi sappiamo molto poco di quello che scoprirono, e ancora meno delle circostanze e dei mandanti del loro omicidio.

(ARCHIVIO FAMIGLIA ALPI / ANSA / PAL)

Alpi aveva meno di 33 anni quando fu uccisa. Aveva studiato arabo all’università, ed era arrivata a lavorare in Rai dopo essere stata inviata al Cairo per i quotidiani Paese Sera e l’Unità. Da due anni seguiva le vicende somale, dove nel 1992 era cominciata l’operazione Restore Hope, con la quale le forze dell’ONU guidate dagli Stati Uniti portarono aiuti umanitari alla popolazione locale, senza però risolvere il grave conflitto civile che infatti proseguì negli anni successivi e che in realtà è ancora in corso. Hrovatin aveva invece 44 anni, e prima di arrivare alla Rai aveva lavorato per la rete triestina Videoest.

Quando furono uccisi, Alpi e Hrovatin erano appena tornati da Bosaso, una città costiera centinaia di chilometri a nord di Mogadiscio, dove avevano intervistato un potente sultano locale a proposito del sequestro di una nave da parte di alcuni pirati, che sospettavano potesse essere stata usata per i traffici su cui indagavano. L’omicidio avvenne quando erano già tornati a Mogadiscio: mentre stavano viaggiando su un fuoristrada, un’auto li intercettò nei pressi dell’hotel Amana, vicino all’ambasciata italiana. Il fuoristrada fu crivellato dai colpi di mitragliatore: Hrovatin morì sul colpo, Alpi poco dopo. L’autista e un uomo che li scortava sopravvissero.


Negli anni sono state fatte molte ipotesi sull’omicidio di Alpi e Hrovatin: l’ipotesi avanzata più spesso è che avessero scoperto qualcosa che non dovevano scoprire, e che qualcuno li avesse fatti uccidere. Ma non si è mai trovato un mandante, nonostante le indagini siano proseguite negli anni successivi e siano formalmente ancora in corso. Periodicamente qualcuno ha anche ipotizzato dei presunti mandanti italiani: ma anche il mese scorso, in una nuova richiesta di archiviazione sulle indagini avanzata dalla procura di Roma, i pm hanno ribadito che non è mai emersa nessuna prova a sostegno di questa teoria.

Per via delle pressioni mediatiche e della famiglia Alpi, alla fine degli anni Novanta l’allora governo Prodi incaricò l’ambasciatore in Somalia Giuseppe Cassini di dare impulso alle indagini. Cassini si concentrò sulla pista di un omicidio casuale, non legato alle inchieste di Alpi e Hrovatin, e nel 1998 portò in Italia Omar Hassan Hashi, un cittadino somalo accusato da due testimoni, l’autista di Alpi e Hrovatin, Sid Abdi, e il testimone oculare Ali Ahmed Ragi detto “Gelle”. Entrambi sostennero che Hashi fosse uno dei sette uomini del commando che sparò sui due giornalisti italiani. Hashi fu inizialmente assolto dal tribunale di Roma, che giudicò poco credibili le testimonianze: Ragi per esempio cambiò diverse volte versione e sparì prima di testimoniare in aula, mentre Adbi disse di non aver visto Ragi sul luogo della sparatoria. Inoltre, altri tre cittadini somali testimoniarono a favore di Hashi, sostenendo che fosse in una città a 200 chilometri da Mogadiscio nel giorno dell’agguato.

Hashi Omar Hassan a processo nel 1998. (MONTEFORTE/ANSA/TO)

Hashi fu però condannato in appello, e nel 2000 la sentenza fu confermata dalla Cassazione, e fissata a 26 anni. Tra i testimoni, se Ragi era sparito prima del processo, Abdi rimase in Italia alcuni anni, per poi essere ritrovato morto pochi giorni dopo il suo rientro in Somalia, nel 2003. Hashi andò in carcere, finché nel 2015 una troupe della trasmissione della Rai Chi l’ha visto? riuscì a intervistare Ragi a Birmingham, in Inghilterra. Raccontò di aver accusato Hashi in cambio di un visto per lasciare la Somalia, perché «gli italiani volevano chiudere il caso». Il processo nei suoi confronti fu rivisto e Hashi, che dopo 16 anni di carcere era stato assegnato ai servizi sociali, tornò in libertà nel 2016.

Il caso di Hashi portò molti a parlare di depistaggio istituzionale, e accrebbe le pressioni perché lo Stato facesse chiarezza su una vicenda che, come tante altre nella storia del secondo Novecento in Italia, è piena di misteri e dubbi. Nel 2004, in realtà, il Parlamento aveva istituito una Commissione d’inchiesta per indagare sull’omicidio di Alpi e Hrovatin, che però fu da subito molto criticata. Il presidente, il deputato di Forza Italia Carlo Taormina, fece perquisire le case e le redazioni dei giornalisti della Rai che se ne occuparono, e a un certo punto disse addirittura che Alpi e Hrovatin erano in Somalia «in vacanza». Le conclusioni della commissione furono riassunte in tre relazioni in contraddizione tra loro e comunque non definitive, che non portarono a nessuna conseguenza.

Nel 2013 la presidente della Camera Laura Boldrini avviò le procedure per desecretare gli atti della Commissione parlamentare: si scoprì che in una nota dei servizi segreti scritta nei giorni successivi all’omicidio si sosteneva che Alpi fosse stata uccisa per le sue indagini sui traffici di armi e rifiuti tossici, e che i mandanti andassero ricercati «tra militari somali e cooperazione». Nel 2017 la procura di Roma riaprì le indagini e ne chiese l’archiviazione qualche mese dopo: la famiglia Alpi si era però opposta, e nel giugno del 2018 il gip aveva disposto ulteriori accertamenti. Nello stesso periodo era morta a 85 anni Luciana Alpi, madre di Ilaria che per 24 anni aveva guidato le campagne per chiedere la verità sull’omicidio di sua figlia. Lo scorso febbraio la procura di Roma ha nuovamente chiesto l’archiviazione delle indagini.