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  • Venerdì 1 marzo 2019

Una bambina di 11 anni ha partorito in Argentina

Era stata stuprata e le è stato impedito di abortire, nonostante la legge glielo permettesse: è stata sottoposta a un parto cesareo d'urgenza

Una manifestazione per la legalizzazione dell'aborto a Buenos Aires, in Argentina, l'8 agosto 2018. (Amilcar Orfali/Getty Images)
Una manifestazione per la legalizzazione dell'aborto a Buenos Aires, in Argentina, l'8 agosto 2018. (Amilcar Orfali/Getty Images)

In Argentina una bambina di 11 anni – che era rimasta incinta dopo essere stata stuprata dal compagno 65enne della nonna – è stata sottoposta a un parto cesareo d’urgenza dopo che la procedura per un aborto, richiesta da lei e dalla madre, era stata ritardata, e dopo che le erano stati iniettati dei corticosteroidi per far crescere il feto. La bambina aveva il diritto di interrompere la gravidanza, nonostante le restrittive leggi in vigore: l’aborto in Argentina è illegale ma si può abortire legalmente nel caso in cui la gravidanza sia il risultato di uno stupro o metta in pericolo la vita della donna. In molte regioni del paese, tuttavia, la legge non viene applicata o viene ostacolata; le donne che ricorrono all’aborto clandestino rischiano una condanna e il carcere.

Il caso di Lucía (il nome falso con cui la chiamano i giornali argentini) è molto complicato e nelle ultime settimane è diventato il simbolo dello scontro tra chi lotta per la libertà di scelta delle donne e chi, invece, vuole decidere su di loro con la complicità di tribunali e governi, riuscendo a trovare – anche all’interno delle poche leggi a tutela di quella libertà – scappatoie per renderle inapplicabili.

Lucía era rimasta incinta dopo essere stata stuprata dal compagno della nonna a cui era stata affidata nel 2015, dopo che le sue due sorelle maggiori erano state abusate dal compagno della madre. Si era accorta di essere incinta il 28 gennaio, dopo una visita presso un centro di primo soccorso della sua città, nella provincia di Tucumán, dove era stata portata per dolori all’intestino: era alla 19esima settimana. Qualche giorno dopo era stata portata di nuovo in ospedale, e altre volte ancora nei giorni successivi, fino a quando lo scorso 11 febbraio era stata ricoverata per i rischi legati alla gravidanza e perché aveva tentato di uccidersi. Un mese fa, come hanno dichiarato gli avvocati e la madre di Lucía, era stata richiesta l’applicazione del protocollo ILE, che in Argentina consente in soli due casi (stupro e pericolo di vita) l’interruzione legale della gravidanza. Invece di agire immediatamente, però, le autorità locali hanno «ritardato il processo e cercato di persuadere la bambina a continuare con la gravidanza», ha detto l’avvocata che rappresenta Lucía e la sua famiglia. Martedì scorso, alla 23esima settimana, la bambina non è stata sottoposta a un aborto ma a un parto cesareo. Lei è in buone condizioni, ma il feto pesa 660 grammi e probabilmente non sopravviverà.

L’ILE, Interrupción Legal del Embarazo, venne introdotto in Argentina nel 2015 e riprendeva le linee guida stabilite da una sentenza sull’aborto per stupro del 2012 della Corte Suprema (sentenza conosciuta come “FAL”): stabiliva che le donne stuprate potevano interrompere una gravidanza senza autorizzazione giudiziaria e senza essere perseguite penalmente. Tucumán però è una delle province dell’Argentina che non aderisce al protocollo ILE: si è dichiarata “provincia a favore della vita”, non ha mai aderito nemmeno al Programma nazionale per la salute sessuale e la procreazione responsabile (una legge del 2002) e lo scorso novembre un legislatore locale ha provato a introdurre un disegno di legge per vietare l’aborto anche in caso di stupro.

Nella vicenda di Lucía il governo di Tucumán e il sistema sanitario provinciale non hanno rispettato il protocollo sui casi di stupro, e l’interruzione di gravidanza è stata ritardata. Non solo. La decisione di Lucía e di sua madre sarebbe stata ostacolata in modo violento e invasivo, secondo quanto dichiarato dall’avvocata della famiglia: «Invece di applicare il protocollo ILE si sono dedicati a romanzare la maternità. Le hanno mostrato l’ecografia, le hanno accarezzato la pancia, le hanno parlato di cosa significasse essere una madre, anche se lei non voleva esserlo». Agli avvocati che fanno parte dei gruppi per i diritti umani è stato impedito di entrare in contatto con la bambina e sua madre, mentre hanno potuto parlare con lei i cosiddetti attivisti “pro vita” per convincerla a proseguire con la gravidanza, per raccontarle la bellezza dell’allattamento al seno e per dirle che in caso di aborto le avrebbero asportato l’utero e non avrebbe mai più potuto avere figli. Alla bambina, poi, come scrivono diversi giornali locali, sarebbero stati anche somministrati degli ormoni per far crescere il feto. Infine, sul caso è intervenuto l’arcivescovo di Tucumán, Carlos Sanchez, che ha registrato un audio diffuso su WhatsApp nel quale esortava «a custodire tutta la vita umana perché ogni vita vale» e nel quale rivelava l’identità della ragazzina di 11 anni.

In tutto questo il caso è rimasto bloccato tra tribunali, sistema sanitario e governo locale, ognuno con una propria versione della storia. Gustavo Vigliocco, responsabile sanitario di Tucumán, ha insistito fin dall’inizio affinché non venisse praticato un aborto, spiegando che Lucía poteva continuare la gravidanza perché pesava più di 50 chili e che comunque né lei né sua madre avevano parlato in modo esplicito di aborto (circostanza invece negata dalla madre di Lucía). Il ministero della Salute ha fatto sapere che la bambina non aveva messo per iscritto la volontà di abortire, ma i suoi avvocati hanno dichiarato che il consenso informato della pratica era stato invece firmato parecchi giorni prima dalla madre senza che nessuno le dicesse dove consegnarlo o a chi. Infine, dopo che un tribunale aveva stabilito che la decisione se procedere o no con l’ILE doveva spettare alle autorità sanitarie locali nel rispetto delle leggi e dei protocolli, il governo di Tucumán, in una dichiarazione ufficiale, aveva ordinato all’ospedale di «continuare con le procedure necessarie […] per tentare di salvare entrambe le vite».

E dunque, alla 23esima settimana di gravidanza, alla mezzanotte di martedì scorso due  medici privati hanno praticato un cesareo su Lucía, sostenendo che un aborto sarebbe stato ormai troppo rischioso, e che le sue condizioni di salute richiedevano un intervento immediato. I due medici hanno dovuto lavorare da soli perché nessun professionista dell’ospedale pubblico Eva Perón, dove si trovava Lucía, voleva essere coinvolto. Cecilia Ousset, la dottoressa che ha eseguito la procedura insieme al marito, ha dichiarato: «Abbiamo salvato la vita di una ragazza di 11 anni che è stata torturata per un mese dal sistema sanitario». E ha accusato il governatore di Tucumán, Juan Manzur, antiabortista che si ricandiderà alle provinciali di giugno, di aver usato la bambina per scopi politici: «Per ragioni elettorali le autorità hanno impedito l’interruzione legale della gravidanza e hanno costretto la bambina a partorire. Le mie gambe tremavano quando la vedevo, era come vedere mia figlia più piccola. La bambina non ha capito affatto cosa stava per succedere». Secondo gli avvocati di Lucía, la bambina «è stata costretta a partorire: se fosse stata trattata per tempo sarebbe stato possibile avere accesso ad un aborto farmacologico, che è più sicuro e meno traumatico».

Le donne del movimento femminista argentino Ni Una Menos, che ha guidato la campagna per la legalizzazione dell’aborto nel paese, hanno detto che «lo Stato è responsabile della tortura di Lucía», hanno fatto sapere. Mariana Carbajal, giornalista e attivista femminista che per prima ha raccontato questa storia, ha scritto su Twitter che «Tucumán l’ha trattata come un contenitore, come un’incubatrice». Soledad Deza, dell’Associazione Women for Women, ha parlato di «un’azione conservatrice che scaturisce dal ramo esecutivo». Mariana Iglesias su El Clarín ha scritto un articolo molto critico che nelle prime righe riassume la situazione: «Una bambina violentata e costretta ad essere madre contro la sua volontà. Medici che non rispettano la legge. Un vescovo che rivela il nome della ragazzina. Funzionari che nascondono. Militanti “pro-vita” che si travestono da medici per entrare nell’ospedale».

Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2017 in Argentina sono nati 2.293 bambini da bambine sotto i 15 anni, il 3 per cento in più rispetto all’anno precedente. Nella maggior parte dei casi si tratta di gravidanze conseguenti a uno stupro. La campagna per la legalizzazione dell’aborto, la “Campaña Nacional por el Derecho al Aborto Legal, Seguro y Gratuito”, il cui simbolo sono i fazzoletti verdi usati dalle attiviste di Ni Una Menos, era cominciata nel 2005. Negli anni sono state presentate al Congresso argentino sette diverse proposte di legge per la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza. Nessuna era stata presa in considerazione fino allo scorso giugno, quando una proposta di legge che avrebbe reso l’aborto legale, sicuro e gratuito entro la quattordicesima settimana era stata approvato dalla Camera. Ad agosto però il Senato l’aveva bocciata: sei deputati su nove eletti a Tucumán avevano votato contro.