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  • Mercoledì 30 gennaio 2019

Cos’è un disegno?

Lo spiega "Disegno Italiano del XX secolo", un libro che da Medardo Rosso e Adolfo Wildt arriva alle sperimentazioni degli anni Settanta e Ottanta

Un particolare di Boat IV (1957) di Domenico Gnoli (Collezione Ramo)
Un particolare di Boat IV (1957) di Domenico Gnoli (Collezione Ramo)

Fino al 24 febbraio, al Museo del Novecento di Milano, si può visitare Chi ha paura del disegno?, una mostra che raccoglie più di cento disegni di artisti italiani del secolo scorso. Fanno parte di una collezione privata milanese, la Collezione Ramo, mai mostrata in precedenza. Tra le altre ci sono opere di Umberto Boccioni, Lucio Fontana e Mario Schifano, ma anche di tanti artisti meno noti, “da riscoprire”, come si dice. E da riscoprire è il disegno italiano in generale, dato che raramente vengono organizzate mostre dedicate a questa forma d’arte, che di conseguenza è poco conosciuta dal pubblico non specialista.

In occasione della mostra è anche stato realizzato un libro sulla storia del disegno italiano del secolo scorso che contiene il catalogo generale della Collezione Ramo: è una specie di atlante per orientarsi nel mondo del disegno italiano, non solo cronologicamente ma anche per temi trasversali ai decenni e ai diversi movimenti artistici novecenteschi. Si intitola Disegno italiano del XX secolo, lo ha curato Irina Zucca Alessandrelli, che è anche curatrice della mostra al Museo del Novecento e della Collezione Ramo, e lo ha pubblicato Silvana Editoriale. È un libro di 400 pagine, in cui le riproduzioni delle opere della collezione sono affiancati da saggi di Zucca Alessandrelli e Antonello Negri, critico e professore di storia dell’arte dell’Università di Milano, che spiegano la ricerca artistica dietro ogni disegno: finora nessun altro libro aveva fatto la stessa cosa per questa forma d’arte. Pubblichiamo un estratto di uno dei saggi che introduce il libro, “Disegnare un secolo” di Jeffrey Schnapp, esperto di avanguardia italiana, mentre qui invece potete vedere alcuni dei disegni presenti alla mostra al Museo del Novecento.

Disegno italiano del XX secolo sarà presentato al Teatro Franco Parenti di Milano lunedì 4 febbraio, alle 18.30. Irina Zucca Alessandrelli spiegherà attraverso la proiezione di disegni il valore intrinseco del disegno che manca a pittura e scultura. A seguire Ozmo, uno dei maggiori artisti italiani di street art, realizzerà un disegno “performativo”, assemblando motivi scelti da disegni di artisti come Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Fortunato Depero, Domenico Gnoli e Bruno Munari: l’opera sarà portata a termine nel corso della serata. Lo scrittore Luca Scarlini invece racconterà aneddoti poco conosciuti a partire da dieci disegni di artisti come Alighiero Boetti, Gianfranco Baruchello, Vincenzo Agnetti, Carol Rama e Aldo Mondino. Ci sarà anche un aperitivo durante il quale si potrà ascoltare musica legata alle avanguardie artistiche del secolo scorso, selezionata dal compositore Luca Garino.

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Cos’è un disegno? La domanda corre il rischio di sembrare ingenua, per non dire insincera, se pensiamo alla sua centralità nella storia dell’arte occidentale. Prendendo le mosse dal Rinascimento (ma anche da molto prima), il disegno è stato il laboratorio di idee visuali, lo studio su carta di un prototipo, il ricettacolo dei pensieri dell’artista, il supporto sul quale scarabocchiare sogni a occhi aperti che diventavano schizzi e bozze poi maturati in lavori definitivi, che fossero su un soffitto o su una tela, su metallo o incisi nella pietra. Ecco perché Petrarca, nella sua raccolta di dialoghi filosofici De remediis utriusque fortunae, collocava la graphis alla base dell’albero genealogico delle arti visive perché «a dire il vero, pittura e scultura sono una sola arte», osservava il padre dell’umanesimo. «Benché distinte, hanno origine da una sola fonte: l’arte del disegno» (De remediis, 1.41).

L’universo del disegno, tuttavia, è vasto al punto che anche il miglior albero genealogico o la definizione di un dizionario possono risultare inadeguati. Nel periodo delle sue prime teorizzazioni, nel XVI e XVII secolo, il disegno era già due cose in una: un repertorio di tecniche per dare forma a una composizione visiva e il processo di ideazione che è all’origine della creazione artistica stessa. Disegnare significava quindi analizzare e descrivere il mondo, “portare alla luce” o estrarre l’architettura attraverso forme prolungate e profonde di osservazione. Disegnare, però, significava anche attingere ai poteri squisitamente cerebrali e generativi della mente per tradurne le visioni in immagini realizzate a mano, convertire le invisibilia in visibilia. Non aveva alcuna importanza che i prodotti di questa immaginazione fossero giocosi o avessero un fine, fossero mostruosi o splendidi. Il disegno, alternandosi tra questi due poli, occupava lo spazio incerto cui Ruskin si riferiva nel suo Gli elementi del disegno come al «tratto», che per lui stava a indicare l’abile esecuzione dei segni abbinata alla precisione del pensiero.

È degno di nota un altro fattore che complica la situazione: l’universo del disegno non corrisponde necessariamente a quello delle opere su carta cui viene assegnato normalmente al giorno d’oggi. Ben lontana dall’essere il mezzo di elezione per il disegno, la carta è stata una protagonista tardiva nella storia dei supporti per le iscrizioni grafiche. Preceduta da materiali diversi, dalle pareti delle caverne ai soffitti di stucco, dall’argilla al papiro e alla pergamena, la carta consolidò la propria supremazia solo nel XVI secolo, nel momento di massimo splendore dei primi produttori occidentali come Fabriano. Sarebbero trascorsi altri tre secoli prima di arrivare alla sua industrializzazione e all’ubiquità degli archivi su supporto cartaceo, di quaderni di schizzi e taccuini in ogni campo della vita culturale, sociale ed economica. Al momento della morte di Ruskin, gli appunti e il pensiero visivo che informano le pratiche del disegno – accanto alla scrittura, ormai da tempo riconosciuta fondamentale per il pensiero avanzato – erano ormai sulla strada del riconoscimento come abilità cognitiva essenziale per la scienza (si pensi ai taccuini con le osservazioni sul campo di naturalisti come Darwin) e per il progresso sociale (si pensi alla cartografia e ai disegni dei brevetti), per non citare l’espressione artistica, la decorazione e l’illustrazione.

All’epoca, però, giunse un altro potente strumento per cogliere l’architettura visiva del mondo, ossia la fotografia, e il disegno si ritrovò libero da alcune responsabilità – e anche da alcuni oneri – che fin dai tempi dell’Illuminismo lo avevano legato in maniera sempre più stretta all’osservazione. La Collezione Ramo ha origine in questo cruciale momento di separazione, quando i canoni del naturalismo hanno cominciato una lenta ma inesorabile implosione lasciando il posto allo sbalorditivo assortimento di pratiche grafiche fiorite nel XX secolo: pratiche che ricadono sotto voci come futurismo, sperimentalismo, espressionismo, primitivismo, classicismo (inteso in vari modi), concretismo, concettualismo e pop. Pratiche nelle quali non si tratta soltanto di disegnare a matita, inchiostro, pastello, gessetto e vernice, ma anche di tagliare, incollare, piegare, forare, cucire, bruciare, incidere, scolpire, assemblare e che prevedono il ricorso a supporti non cartacei. Nel XX secolo – e in particolare nel XX secolo – disegnare non è più un semplice accessorio della cultura visuale o un complemento di questa, ma il luogo di un dialogo importantissimo e vivace tra vecchio e nuovo, globale e locale, tra le forze della storia e le intuizioni immaginative-creative-critiche dei singoli.

La Collezione Ramo termina con opere dell’ultimo anno del XX secolo di artisti del calibro di Enrico Baj, Lucio Del Pezzo e Mimmo Paladino, che segnano un altro importante punto di svolta: la maturazione di un’era nella quale, grazie alle migliorate capacità dei computer grafici e di software come 3D Studio di Autodesk, le bozze in digitale hanno cominciato a consolidare il loro dominio su quelle cartacee. A dispetto delle abituali iperboli della Silicon Valley, non tutto è cambiato. L’avvento delle penne digitali negli anni Duemila non fa svanire completamente carta, penna e matita dal mix grafico-grafologico. Taccuini non diversi da quelli prediletti da Ruskin e Darwin – che adesso si chiamano Moleskine, Rhodia o Field Notes – continuano a esistere. Ma questi strumenti della pratica del disegno risultano essere sempre più supporti per processi nativi digitali, non diversamente dagli onnipresenti Post-it che animano i prototipi su carta degli studi di design odierni.

Come spesso è avvenuto durante la sua storia plurimillenaria, il disegno, ancora una volta, è stato relegato a un ruolo sussidiario. A dispetto di questo esilio – o forse proprio per questo – continua a prosperare alle radici dell’albero della graphis.

© 2018 Silvana Editoriale S.p.A., Cinisello Balsamo, Milano
© 2018 Collezione Ramo, Milano
© 2018 Jeffrey Schnapp

La copertina di “Disegno italiano del XX secolo”: lo sfondo è “Particolare del lato in alto della prima I d’infinito”, un’opera dell’artista Giovanni Anselmo, scultore dell’Arte Povera