Facebook ignorò il problema degli acquisti fatti dai minorenni dentro i giochi

Nuovi documenti interni mostrano come fosse a conoscenza del problema, ma avesse preferito non fare nulla nel timore di perdere ricavi

(FABRICE COFFRINI/AFP/Getty Images)
(FABRICE COFFRINI/AFP/Getty Images)

Una serie di documenti da poco resi pubblici, su una causa legale chiusa nel 2016, mostra come Facebook fosse a conoscenza del problema dei minori che spendevano grandi quantità di denaro all’interno delle applicazioni all’insaputa dei loro genitori, ma non avesse ugualmente provveduto a rimediare per evitare spese incontrollate. Dagli scambi email tra alcuni impiegati del social network, emerge come fossero state proposte soluzioni per arginare il problema e come fossero state ignorate, nel timore che potessero danneggiare i ricavi derivanti in generale dai giochi e dalle altre app che sfruttavano il sistema di pagamento offerto da Facebook.

I documenti interni sono stati resi pubblici in seguito a una richiesta del Center for Investigative Reporting, un’organizzazione senza scopo di lucro californiana che si occupa di condurre inchieste giornalistiche. Fanno riferimento a una causa legale intentata contro Facebook da alcuni genitori, e riferita al periodo tra il febbraio del 2008 e il giugno del 2014, nel quale Facebook raccolse circa 34 milioni di dollari solo negli Stati Uniti da account appartenenti a minorenni. La causa fu chiusa nel 2016 con un accordo tra le parti e un risarcimento, ma la documentazione non fu resa immediatamente pubblica: la settimana scorsa un giudice ha ordinato a Facebook di farlo, e giovedì 24 gennaio la società ha eseguito l’ordine.

Dagli scambi email è evidente che Facebook fosse a conoscenza del problema e che alcuni suoi analisti avessero proposto soluzioni, per lo meno per tenerlo sotto controllo. Un’analista scrisse per esempio che gli acquisti all’interno dei videogiochi “non appaiono necessariamente a un minorenne come spese con denaro autentico”, caricate sulla carta di credito dei suoi genitori. Facebook non si occupava di sviluppare direttamente i videogiochi e le altre app in questione, ma offriva alle aziende che le facevano la possibilità di utilizzare il suo sistema di pagamento, per semplificare e non doversi occupare direttamente della raccolta di denaro. Facebook tratteneva per sé una commissione del 30 per cento, lasciando il resto agli sviluppatori delle app. Nel periodo cui faceva riferimento la causa, non c’erano particolari sistemi di controllo per verificare nuovamente la propria carta di credito nel caso di spese consistenti e ricorrenti.

Una delle indagini interne sulle spese fu avviata in seguito a una segnalazione di Rovio, l’azienda finlandese famosa per avere inventato Angry Birds, uno dei videogiochi di maggiore successo per smartphone e tablet. Rovio notò un aumento consistente di richieste di rimborso, avviate da genitori che si erano accorti delle spese fatte dai loro figli per acquistare nuove funzionalità all’interno di Angry Birds e di altri suoi videogiochi.

Un impiegato di Facebook scrisse che: “In quasi tutti i casi i genitori sapevano che i loro figli stessero giocando a Angry Birds, ma non pensavano che fossero autorizzati ad acquistare qualcosa senza conoscere la password o con una qualche altra autorizzazione”. Lo stesso analista suggerì di aggiungere ulteriori sistemi di sicurezza, segnalando però che questi avrebbero probabilmente influito sulla quantità complessiva di acquisti all’interno delle applicazioni.

Sulla base delle indagini sul caso di Angry Birds e di altre segnalazioni, Facebook valutò la possibilità di introdurre un sistema che richiedesse di riscrivere parte dei numeri della propria carta di credito, nel caso di acquisti nelle app che in poco tempo superassero i 75 dollari. In diversi documenti questa soluzione fu indicata come ragionevole e un buon compromesso, anche se probabilmente aggirabile. La proposta rimase però tale e Facebook non la mise in pratica.

Questi e altri documenti, compreso uno che sconsigliava di rimborsare spese di un utente arrivate a oltre 6.500 dollari, sono stati alla base del caso giudiziario concluso nel 2016 con un accordo tra le parti. All’epoca Facebook accettò di pagare un rimborso di 5mila dollari alle famiglie che gli avevano fatto causa, sostenendo che il social network non avesse provveduto a creare sistemi per evitare spese incontrollate da parte dei loro figli.

Dopo il caso del 2016, Facebook si diede da fare per cambiare. Gli acquisti all’interno delle app sono ancora oggi previsti, ma ci sono maggiori sistemi di controllo sui pagamenti. Facebook ha inoltre introdotto nuove regole per rendere più semplice la richiesta di rimborso, nel caso di spese effettuate da minorenni senza la supervisione dei loro genitori.