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  • Domenica 11 novembre 2018

Come sono “questi qua”

Cioè Matteo Renzi, Matteo Salvini e Luigi Di Maio secondo il cronista parlamentare Filippo Ceccarelli, che in "Invano" ha raccontato i protagonisti della politica italiana da De Gasperi a oggi

Da sinistra Matteo Renzi, Matteo Salvini e Luigi Di Maio (ANSA/ CLAUDIO GIOVANNINI - MATTEO BAZZI - RICCARDO ANTIMIANI)
Da sinistra Matteo Renzi, Matteo Salvini e Luigi Di Maio (ANSA/ CLAUDIO GIOVANNINI - MATTEO BAZZI - RICCARDO ANTIMIANI)

Filippo Ceccarelli è un giornalista esperto di politica che negli anni ha messo insieme un archivio cartaceo sui politici italiani che occupa 334 raccoglitori e 1500 cartelle, l’equivalente di una torre di 45 metri, e che è stato trasferito alla Biblioteca della Camera dei Deputati con un tir. Nel suo ultimo libro, intitolato Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua e pubblicato da Feltrinelli, ha raccontato 70 anni di politica italiana prendendo spunto da questi ritagli per creare una lunga catena (970 pagine) di dettagli significativi. Pubblichiamo un estratto dalle ultime pagine del saggio: parla dei «questi qua» del sottotitolo e cioè di Matteo Renzi, Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

Domenica 11 novembre alle 18 Filippo Ceccarelli presenterà Invano a Pescara in occasione del FLA, il Festival di Libri e Altre Cose. Con lui ci sarà il giornalista del Post Davide Maria De Luca; l’incontro sarà al Circolo Aternino.

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Ecco, lo vedi?, non posso fare a meno di ritornare ai politici del mio tempo. Questi di oggi, d’altra parte, (#questiqui, così sono più contenti), possono dire tutto e il contrario di tutto. O almeno: il fatto che non valgano più le categorie di destra e sinistra li spinge ad aggirarsi in una terra di nessuno, e ogni giorno è un nuovo giorno. Nel frattempo cambiano idea con strategica facilità. Spesso, per ragioni di sceneggiatura, sono portati a riequilibrare le precedenti uscite con sortite di taglio simmetricamente opposto, si direbbe a prescindere dagli argomenti, ma non dai momenti. Inoltre, per conquistare l’attenzione del pubblico – il loro sforzo maggiore, ma anche quello su cui alla lunga rischiano di più – sono condannati a sorprendere, a spiazzare, a meravigliare, il che li porta a spostarsi – a “posizionarsi” direbbero loro – là dove la vasta e distratta platea non se li aspetterebbe.

In estrema sintesi, l’ideale è tenersi le mani libere. Così a sorpresa Salvini si intrattiene e si fa fotografare con un ambulante nero sulla spiaggia; e se un giorno Di Maio proclama Mattarella “il nostro Jedi”, il santone buono di Guerre stellari, il giorno dopo, letteralmente, ne chiede l’impeachment. In buona sostanza, le scelte dipendono da una specie di lotteria che alcuni ottimisti chiamano agenda e in cui ogni presa di posizione trova po- sto sullo stesso piano, per la gioia dell’orizzontalità. Il fatto che tutti scordino tutto e che i mass media, anche per ragioni di sfinimento, abbiano smesso di immaginare controlli di coerenza, rende il gioco ancora più facile. Ma è un gioco, appunto. La credibilità dei Novissimi, d’altro canto, è lieve, la loro reputazione labile e la loro verità terzultima e sfuggente.

E però. Tanto è mutevole e intercambiabile questo relativismo, tanto netto deve risultare il loro profilo identitario. Anche troppo, per la verità, fino a escludere che gli altri possano metterlo in discussione, o criticarli e accusarli, provocando in egual misura lamentazioni vittimistiche e reazioni ai limiti dell’intolleranza, a parte le annunciatissime querele per diffamazione di cui però quasi mai si viene a conoscere lo sviluppo e il destino.

Di sicuro c’è che l’uso parossistico e prolungato dei social porta gli attuali eredi del potere a una forzata sentenziosità, un continuum di affermazioni abbreviate e perentorie costruite su frasi a effetto, massimo una riga, slogan incisivi e ripetuti, battute confezionate per diventare virali. Con l’ovvia conseguenza che dalle loro parole difficilmente prende forma qualcosa che assomigli a una analisi appena complessa, tantomeno s’intuisce una visione del futuro.

Questa modalità fra l’agonistico e il prepotente fa da sottofondo alle res gestae del trio: “Ce ne faremo una ragione”, “Non accettiamo lezioni” (Giggino, lezioso, dice “lezioncine”), “non mi faccio fare la morale”, “non ci perdo il sonno”, “la pacchia è fini- ta”, “la mangiatoia è finita”, “la musica è cambiata”, “li spianiamo”, “li asfaltiamo”, “mandatelo da uno bravo”, “toglietegli il fiasco”, “ciaone”.

Ancora più vero è che non riescono proprio a stare zitti. Parlano, parlano, parlano, è più forte di loro. Il silenzio è uscito dal novero del possibile, la tecnologia impone una presenza necessariamente loquace, verbosa, a suo modo assordante.
Non che i loro predecessori fossero muti. Ma questi qua hanno più strumenti per dar corso al cicaleccio e alla logorrea, per cui fanno i tweet, fanno i post, fanno le chat, fanno i like, fanno gli emoticon, fanno le dirette Facebook e le story di Instagram. Ammetto che si tratta di un richiamo sproporzionato, che non vale la pena di scomodare il grande teatro, ma ai Novissimi del cambiamento si adatta a perfezione una battuta di Lady Mcduff: “Chiacchieroni miei, quanto parlate!”.

Questa indubbia attitudine, in parte combinatasi con quel tanto di improvvisazione e cialtroneria che sempre accompagna le vicende del potere in Italia, introduce un’altra caratteristica che suona anch’essa piuttosto imbarazzante da esprimere, ma ci provo lo stesso.

E cioè, per dirla come la direbbero loro, e dunque chiara fino alla brutalità, la sensazione è che i ragazzotti siano tre grandi “cazzari”. Ancorché poco elegante, ma parecchio diffusa nel linguaggio colloquiale e nella pubblicistica politica spesso proprio nei loro riguardi (“il premier cazzaro”, “il cazzaro di Rignano”, “il cazzaro verde”, etc.) la suddetta categoria, più che offendere designa un tipo di personaggio pubblico che alle parole non fa programmaticamente seguire i fatti – e anche questo, se proprio debbo dire, trattandosi per lo più di progetti e minacce, appare spesso più che tranquillizzante.
Non di rado “cazzaro” coincide con “cazzone”, cui si annette una più intensa sfumatura di candore e bonarietà. Vedi l’affettuosa ammirazione, quasi un solenne riconoscimento, con cui Renzi dopo il cosiddetto Patto del Nazareno intese valutare con i suoi il personaggio del contraente, Berlusconi: “Resta il numero uno” e qui specificò: “un cazzone insuperabile”.

Cazzari, perciò, ma anche cazzoni, la radice rimanendo sintomaticamente appesa alla maschia genitalità. Con quel tanto di irrispettoso che i tempi recano alla partita del comando, lo slittamento semantico si prolunga fino a comprendere i propositi espressi a suo tempo dal Bomba e oggi dal Capitano e da Giggino rubricandoli all’insegna delle “supercazzole”, ovverossia propositi non solo stentorei e raffazzonati, ma del tutto e coerentemente irrealizzabili.

Tale ambivalenza dice parecchio su quella che quasi nessuno chiama più “classe dirigente” e la cui formazione Guido Dorso definiva tanti e tanti anni fa nientemeno che “un mistero divino”. Per cui nel corso del tempo il mistero resta, ma l’origine soprannaturale si è parecchio degradata, fermo restando che nessuno avrebbe mai indicato Moro o Fanfani come dei “cazzoni”, né mai si è potuto fare riferimento a Craxi come al “cazzaro di Hammamet” o alle “supercazzole” delineate nel rapporto di Berlinguer al Comitato centrale del Pci.

Ci sono poi il popcorn, il flipper, la playstation e i videogiochi, ma l’appartenenza generazionale si riflette anche nella comune idiosincrasia per i “giornaloni”, i “commentoni”, i “professoroni”, cui fa riscontro tuttavia un sorrisone d’ordinanza posto a garanzia, si direbbe, di una cordialità senza troppi aggettivi, né troppe complicazioni.

È difficile vederli stringere la mano, piuttosto ne agguantano quante più possibili nei bagni di folla, ma più spesso se la danno a mezz’aria, tipo braccio di ferro, oppure si salutano battendo il cinque. Il “lei” non esiste, o prelude alla distanza e all’offesa. Fra loro si danno tutti e sempre del “tu”, chiamandosi per nome nelle riunioni, in tv e nei contenuti sulle piattaforme elettroniche. Questo crea una certa confusione, aggravata dalla circostanza che tre della nouvelle vague, e di primo piano – Renzi Salvini Orfini – hanno nome Matteo.

Vivendo attaccati ai dispositivi c’è pure, abbastanza frequente, l’incidente social. Sbagliano infatti ortografia, sbagliano i nomi, le traduzioni, le nazioni, le citazioni, le epoche storiche, a volte sbagliano pure chat, i destinatari si vedono arrivare strani commenti, gestacci in forma di emoticon, indicazioni che mai avrebbero dovuto raggiungerli, e allora si lamentano perché sono stressati, oppure lasciano intendere che la colpa è dei loro staff, i quali staff del resto se la caricano sulle spalle perché ai ragazzotti debbono lo stipendio e tutto il resto.

Ciò che li disturba è generalmente etichettato come “fake-news”. Non di rado vedono dietro la generica definizione trame e manovre ai loro danni e con una certa facilità richiamano la categoria del complotto. Se però lo fanno gli avversari a loro spese, li ridicolizzano ricorrendo alla deformazione che ne faceva in tv Aldo Biscardi: “Gomblotto”.

Dicono in continuazione: “Ci metto la faccia, ci metto la faccia”, ed è vero, ma ce la mettono con una tale appagata intensità da escludere in partenza che la possano anche perdere. Intanto si fanno migliaia di selfie. È il dono di se stessi a una immensa rete di contatti, la porta d’ingresso nel mondo dell’immagine, un modo anche per rinverdire l’antica relazione asimmetrica fra sovrano e sudditi. Però ogni tanto sbagliano anche i selfie, per cui dalle memorie del sottosuolo digitale, fatte riemergere quasi sempre con intenti polemici, li si rivede sorridere accanto a capi-bastone della camorra e della ’ndrangheta, oppure abbracciati a gangster di Mafia capitale, insieme con sparatori di neri, corrotti, lestofanti eccetera.

A occhio, non c’è alcuno che li protegga dagli errori. Godono di una esagerata autostima e tendono a circondarsi di fedeli che dicono sempre di sì. Assai più a loro agio che sulle poltroncine di Vespa, pontifex maximus della Seconda Repubblica, si ritrovano sui divani ancora più bianchi di Barbara D’Urso, che davanti a Di Maio confida a qualche milione di telespettatori: “Io sono una del popolo”; e che alla fine dell’“intervista” si mette in posa al loro fianco, gli occhi scintillanti, le labbra protese verso l’obiettivo, e sembra quasi che tiri un bacetto al pubblico, al popolo.

Certo dipende da me, ma ancora non mi sono abituato a rivederli sul piccolo schermo con i loro braccialetti da tifo tribale, le magliette parlanti durante la maratona, “Corri verso il futuro” o altre supercazzole, le t-shirt di battaglia indossate sopra i golf, “Basta euro”, “Stop invasione”, le felpe a indicazione geografica come le targhe delle automobili, le cravatte ostentate come pretesa di affidabilità istituzionale – e infatti a volte si scravattano in pubblico, tra gli applausi. Ma semel in anno possono concedersi e concedere al loro pubblico un civettuolissimo papillon.

La verità è che indossano abiti di scena. Lo spettacolo della politica è giunto alle estreme conseguenze, per cui è impossibile distinguere tra la persona e come si acconcia. Fra tutti gli indumenti, si attaglia e si staglia sui loro giovani corpi fasciandoli la camicia bianca slim fit, vestibilità aderente, linee strette, elasticizzata. “La camiciola,” l’ha definita una volta Giorgio Armani, con un sospiro.

Anche qui sconto il disagio tipico dei vecchi che si guardano nudi allo specchio scoprendosi a forma di pera. Ma è pur vero che tutto ciò che un tempo era ritenuto irrilevante, se non frivolo, è diventato terribilmente serio. Così, sulla camicia bianca di Renzi, Marco Belpoliti ha scritto un piccolo e interessante saggio. Posso aggiungere che Salvini si serve dallo stesso stilista. Il tessuto si chiama “Thomas Mason” e sarebbe usato dai reali inglesi – e me cojoni! Pure Di Maio ce l’ha, non so se di tessuto monarchico. Tutti e tre la sfoggiano con le maniche rimboccate, a riprova del loro impegno, e a questo proposito non posso che riportare un’invocazione del grande Ceronetti: “Signore Dio, sappiamo quanto sei tirchio nell’elargire salvezze, ma da’ orecchio a questo granellino di senape di supplica: liberaci dalle maniche rimboccate, dai loro rimboccatori, dall’ideologia rimbocchista, dal rimbocchimento generale dell’italiano medio”.

E anche qui debbo chiedermi: ma avranno mai letto un articolo di Ceronetti? I riferimenti culturali dei giovanotti sono quelli che sono. Rivelano poche e modeste letture. Per dirla al modo del mio amico Glauco: l’ultimo libro letto è Pattini d’argento.
Deve essere rimasto loro dentro qualcosa dell’infanzia, fumetti e cartoni animati, una sorta di lasciapassare d’innocenza e semplicità, un tributo alla cultura di massa sia pure celebrato e al tempo stesso filtrato attraverso il Bignami delle citazioni, se è vero, come è vero, che a distanza di un paio d’anni Renzi e Salvini, vestiti allo stesso modo, hanno somministrato allo stesso pubblico la stessa frase di Walt Disney, “se puoi sognarlo, puoi farlo”, o qualcosa del genere.

Diciamo pure che sono mediamente ignoranti. Una sera, a Porta a porta, Renzi se n’è uscito con uno sfondone a tema storico-geografico, e quando Vespa ha provato a rimbrottarlo, a ragione ma un po’ da primo della classe, ha risposto un po’ seccato per l’interruzione: “Ma dài, su, non facciamo i precisini!”. No, non sia mai.

Quando era ancora sindaco, pubblicò un saggio abbastanza stucchevole su Firenze, Stil novo; lo recensii, argomentando con una dose super di schizzinosità, che poteva almeno ringraziare il collaboratore che glielo aveva scritto, riconoscendo nel testo fin troppi tratti di “erudizione”. Bene: Renzi si sorprese e, tralasciando ovviamente la questione dell’eventuale ghostwriter, se ne uscì quasi offeso con un tweet: “Erudito non me l’ha mai detto nessuno!”. Arrivato a Palazzo Chigi, inaugurò il rito mediatico della visita in libreria. Poi si scoprì che il giorno della presentazione del governo alla Camera la ghostwriter, una grecista prossima a divenire una scrittrice di successo, gli aveva suggerito di portarsi dietro, bene in evidenza, L’arte di correre di Murakami, con grande successo e simbolica risonanza (in seguito la collaboratrice fu messa in condizione di licenziarsi, ciò che fece la sua fortuna).

Salvini ha meno pretese. Durante un viaggio aereo verso Isra le è stato visto leggere Diabolik. Di Maio vabbè, lo si può definire parecchio approssimativo. Mette l’apostrofo dove non deve, litiga spesso con i congiuntivi, colloca il generale cileno Pinochet in Venezuela, insomma sbaglia con tale frequenza da aver ormai innescato negli avversari una perenne caccia all’errore.

Il calcio, in compenso, e il tifo ancor più, sono per i Novissimi la via della conoscenza universale. È tutto un “derby”, “serie A”, “serie B”, “tiro il rigore”, “spedisci il pallone in tribuna”, “gli ha fatto il cucchiaio”, “siamo trapattoniani”, “partecipiamo alla Champion”, “fanno melina”, “1 a 1”, “2 a 0”, “4 a 0”, il “catenac- cio”, “il tiki taka”… Quando non è il calcio, sono riferimenti a programmi tv, gettonatissimo Scherzi a parte, e film di cassetta, quasi tutti americani.

Un problema serio è la cultura politica. Ce l’hanno? Non ce l’hanno? Ha ancora un rilievo la nozione di cultura politica?

Siamo alle solite. Forse è troppo presto per giudicare. Forse dipende dal mio sguardo. Anche qui, comunque, mi ritrovo incagliato dentro la mia stessa obsolescenza. Forse la loro cultura politica coincide ormai con la comunicazione, dopo esserne stata a lungo l’ancella. Ma raramente, nella sua nuova e agglutinata condizione, il messaggio riesce a eludere la circostanza che sia stato diffuso in conferenze stampa tenute a torso nudo, con l’asciugamano sulle spalle, sotto l’ombrellone del Papeete Beach di Milano Marittima. Di più: in certi frangenti viene il sospetto che a tal punto i giovanotti abbiano trasformato la loro politica in comunicazione da sentirsi esenti da metterla in pratica. Per cui i contenuti non contano più tanto, la loro applicabilità meno ancora e le conseguenze meno che meno.

Forse ormai credono che il potere sia intrattenere, garantire che faranno questo o quello, fare la faccia feroce, raccontare una bella storia. In questo, onestamente, non sarebbero certo i primi. E tuttavia in nessuno mai come nei triumviri di quest’epoca scombiccherata appare evidente la convinzione che dire una cosa significhi averla già realizzata. In pratica, fanno cose con le parole. Ma alla lunga queste ultime si svuotano e si degradano; e la benedetta comunicazione si risolve in una sorta di teatro dell’evanescenza in cui tutto si gonfia in velocità, cambia aspetto e quasi esplode per poi dissolversi senza lasciar traccia né memoria.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano