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  • Domenica 22 luglio 2018

Il più grave disastro industriale della storia è ancora in corso

A 34 anni dall'incidente allo stabilimento chimico di Bhopal, la zona non è mai stata decontaminata: le persone continuano ad ammalarsi e nessuno interviene

(Doreen Fiedler/picture-alliance/dpa/AP Images)
(Doreen Fiedler/picture-alliance/dpa/AP Images)

Nel 1984 nell’India centrale si verificò quello che è probabilmente il più grave disastro industriale della storia: nello stabilimento chimico della Union Carbide di Bhopal un incidente portò al rilascio di oltre 42 tonnellate di isocianato di metile, un composto chimico utilizzato per la produzione di pesticidi. Una nube altamente tossica si propagò nell’area intorno alla fabbrica contaminando e uccidendo migliaia di persone. Dall’inchiesta che seguì il disastro di Bhopal risultarono carenze nel sistema di sicurezza, ma i risarcimenti furono molto bassi e le condanne molto lievi. Oggi il sito è rimasto per lo più inalterato: ospita ancora centinaia di tonnellate di rifiuti contaminati e la situazione della falda acquifera è molto grave. «Il disastro di Bhopal è in realtà ancora in corso», ha scritto l’Atlantic in un lungo articolo. Il sito del più grave disastro industriale al mondo, cioè, deve ancora essere decontaminato.

La fabbrica di Bhopal della Union Carbide, India, 28 ottobre 2014 (Doreen Fiedler/picture-alliance/dpa/AP Images)

Ogni anno, ancora oggi, numerosi bambini nella zona attorno al vecchio impianto nascono malformati e con gravi disfunzioni. I casi di cancro, di diabete e di altre malattie croniche sono più alti rispetto alla media. Tutti sanno che la nube tossica ha avuto gravi conseguenze sulla salute delle persone: ma ci sono voluti anni perché venisse riconosciuto il fatto che anche l’acqua di tutta la zona fosse contaminata e che gran parte delle attuali patologie dipenda proprio da questo.

Nelle ventidue comunità che si sono sviluppate intorno alla vecchia fabbrica di Bhopal si sa ormai da quasi vent’anni che le acque sotterranee contengono livelli tossici di solventi clorurati. Sei anni fa, grazie al lavoro degli attivisti, la Corte Suprema dell’India ordinò di installare delle tubature che portassero in questi paesi acqua pulita dal fiume Narmada. Ma le tubature che entrano in alcune case passano attraverso le fogne, che nei giorni di pioggia contaminano l’acqua pulita. Di recente è stato dimostrato che ci sono altre 20 comunità in cui l’acqua è contaminata. Lo scorso marzo la Corte Suprema ha dunque ordinato che venisse assicurata acqua pulita anche in queste aree, e che venissero costruite nuove reti fognarie e di drenaggio.

Chi vive lì dice che dopo l’intervento della Corte Suprema la situazione è migliorata. Prima, hanno raccontato, «l’acqua era spesso gialla, a volte rossa e puzzolente. Sembra che ora abbia un odore migliore, ma arriva solo per un’ora al giorno. A volte sono le 2 del pomeriggio, a volte le 12, a volte è sera. Dobbiamo sederci e aspettare». Nei giorni in cui l’acqua non arriva per niente, le persone continuano a bollire l’acqua contaminata che esce dalle pompe a mano per lavarsi, per lavare i vestiti e per bere e cucinare.

Costruire nuove tubature, anche se funzionassero, non sarebbe comunque la soluzione definitiva. Il sito dovrebbe infatti essere completamente ripulito e decontaminato dai rifiuti tossici. La giornalista che ha scritto l’inchiesta sull’Atlantic ha incontrato Vishvas Sarang, il responsabile del sito e delle persone che ci abitano intorno, per lo stato di Madhya Pradesh. Aveva fatto molte promesse: aveva detto di voler introdurre delle facilitazioni per i malati negli ospedali locali, di voler costruire strade e parchi per migliorare la qualità della vita, di voler offrire migliori posti di lavoro e nuove opportunità economiche. Le promesse però non sono state mantenute. Sarang aveva anche detto che i lavori di ripulitura dai rifiuti tossici sarebbero terminati nel giro di due o tre mesi. Ma era più di un anno fa e, dice l’Atlantic, la situazione non è ancora stata risolta.

Bottiglie contenenti dei liquidi nella vecchia fabbrica di pesticidi di Bhopal, India, ottobre 2014 (Doreen Fiedler/picture-alliance/dpa/AP Images)

La fabbrica di Bhopal fu aperta in un periodo particolare per l’India: quando negli anni Sessanta e Settanta iniziò la cosiddetta “rivoluzione verde” che portò a molti progressi nell’agricoltura grazie anche all’introduzione di fertilizzanti, pesticidi, vegetali geneticamente selezionati e fitofarmaci che incrementarono rapidamente la produzione di cibo per la popolazione di tutto il paese, allontanando il rischio di carestia e riducendo la dipendenza dagli aiuti esteri e dalle importazioni. Fu a quel tempo che la Union Carbide Corporation (UCC, multinazionale statunitense) iniziò a commercializzare i propri pesticidi. Nel 1969 costruì uno stabilimento a Bhopal per fabbricarli sul posto, prima importando l’isocianato di metile, il gas tossico necessario per produrli, e poi dal 1980 iniziando a produrre il gas sul luogo. Quattro anni dopo ci fu l’incidente.

Nessuno sa esattamente quante persone siano morte quella notte. Le stime ufficiali del governo parlarono inizialmente di 3 mila persone, poi furono riviste: 5.295 è il numero ufficiale. Altre stime parlano di 8 mila o 15 mila solo nelle prime settimane. Negli anni successivi è stato poi calcolato che siano state almeno 25 mila le morti legate all’incidente e che 560 mila persone abbiano avuto danni gravi o irreversibili. Le stime del governo per le morti non hanno senso, però, ha raccontato all’Atlantic l’attivista Rachna Dhingra: «Il governo ha approvato pensioni per 5.000 vedove. Se stai dando pensioni a 5.000 vedove, allora come può la cifra delle morti essere pari a 5.295? Non è che sono morti solo gli uomini. Anche le donne sono morte, anche i bambini sono morti».

Bestiame nell’acqua nella zona della fabbrica di Bhopal, India, 29 ottobre 2014 (Doreen Fiedler/picture-alliance/dpa/AP Images)

La Union Carbide pagò circa 470 milioni di dollari al governo indiano come risarcimento, una cifra molto bassa in relazione ai danni provocati, continuando a negare la propria responsabilità. Dhingra e altri attivisti hanno cercato per anni di ottenere maggiori risarcimenti per le persone colpite e per ripulire il sito. Finora hanno avuto poca fortuna. Nel 2011 la Union Carbide fu acquisita dalla Dow Chemicals, che nel settembre 2017 si è fusa con DuPont. I legali della Dow Chemicals hanno sempre sostenuto che l’accordo raggiunto tra la Union Carbide e il governo aveva di fatto esaurito ogni possibile futura richiesta contro la società. Hanno anche sostenuto che la responsabilità della decontaminazione spetti al partner indiano della Union Carbide al momento del disastro, la Union Carbide India. Quella società, ora chiamata Eveready Industries India, dà però la colpa direttamente alla Union Carbide: l’obbligo e la responsabilità della pulizia, dicono, dovrebbe essere degli ex proprietari di Union Carbide India, vale a dire di Union Carbide. E lo stato del Madhya Pradesh, che possiede il terreno e che per qualcuno dovrebbe essere responsabile della pulizia del sito, ha fatto sapere di non essere attrezzato per la pulizia e rimanda a sua volta al governo federale. Il governo federale ha richiamato in causa la Dow chiedendo 1,2 miliardi di dollari. In questo gioco di rimpalli non è ancora stata trovata una soluzione.

La vecchia fabbrica della Union Carbide, Bhopal, India, 28 ottobre 2014 (Doreen Fiedler/picture-alliance/dpa/AP Images)

La perdita di gas e le sue conseguenze hanno diviso gli abitanti di Bhopal: tra quelli che quella notte o poco dopo si sono potuti permettere di partire, e quelli che sono rimasti perché non potevano permettersi altro.

Negli ultimi cinque anni un ricercatore canadese e i volontari che lavorano con una clinica locale creata da alcuni attivisti hanno raccolto dati su mortalità, difetti alla nascita, fertilità, cancro e molti altri aspetti della salute delle persone che vivono a Bhopal. Lo studio include dati provenienti da persone esposte al gas che poi si sono allontanate e non hanno bevuto l’acqua; da persone che si sono trasferite in quelle zone dopo il disastro e che quindi sono state esposte solo all’acqua; da persone che sono state esposte sia al gas che all’acqua; e da persone che non sono state esposte a nessuna delle due. I ricercatori hanno anche cercato di includere controlli che corrispondessero a classe socioeconomica, reddito, livello di istruzione e dimensione della famiglia. Hanno considerato circa 5 mila famiglie per ciascun gruppo e lo studio comprende 100 mila persone in totale. I ricercatori stanno ancora analizzando i dati, ma i risultati preliminari indicano che le persone esposte al gas o all’acqua o a entrambe hanno una maggiore incidenza di cancro, tubercolosi e paralisi rispetto agli altri. Inoltre i dati preliminari suggeriscono che le persone esposte al gas hanno un tasso di cancro dieci volte superiore rispetto agli altri gruppi: in particolare di cancro al fegato, ai polmoni, all’addome, alla gola e alla bocca.

Nei primi anni di apertura della fabbrica, la Union Carbide ha scaricato i propri scarti in 21 pozzi non rivestiti contro le infiltrazioni all’interno del sito. All’epoca non era una pratica insolita. Nel 1977 la società costruì tre bacini di evaporazione solare circa 400 metri a nord della fabbrica, e convogliò i rifiuti liquidi non trattati direttamente lì. Furono inseriti sottili rivestimenti per impedire che le sostanze chimiche si infiltrassero nel terreno, che si sono però rapidamente disgregati. Nel 1982 era noto ai vertici della società che i bacini potevano contaminare le falde acquifere. E il fatto venne anche denunciato dagli agricoltori locali a cui morivano animali e colture.  Dopo la tragedia la Union Carbide ha chiuso la fabbrica, che è rimasta in stato di abbandono.

La risposta del governo al disastro è stata lenta, inetta e paralizzata dalla corruzione, dice l’Atlantic. Alcuni dei problemi che ci sono a Bhopal avrebbero delle soluzioni chiare, basate su esperienze già sperimentate in altri siti. Nel 2004 Greenpeace aveva incaricato degli esperti di gestione dei rifiuti con sede in Germania, Svizzera e Stati Uniti, che hanno presentato un piano per ripulire il terreno. Una possibile soluzione sarebbe semplicemente spostare i rifiuti in una discarica sicura, ma in India una discarica del genere non esiste. Un’altra sarebbe incenerire i rifiuti in un impianto creato per gestire quel tipo di materiale, un piano che è in discussione da oltre un decennio. Nel corso degli anni, sono stati proposti e poi fermati diversi piani.

Oltre alle tonnellate dei rifiuti, resta poi la questione del terreno di Bhopal e delle acque sotterranee. Secondo alcuni esperti le sostanze chimiche potrebbero aver viaggiato fino a tre chilometri dal sito e va tenuto conto che piccole quantità di materiale possono contaminare enormi quantità d’acqua. Bonificare l’acqua è una cosa difficilissima. Le sostanze chimiche di cui si parla sono difficili da trattare direttamente nel terreno, quindi la soluzione, una volta trovata la fonte e la direzione della contaminazione, sarebbe pompare tutto e poi trattarlo: un processo che potrebbe richiedere molti anni e che costerebbe probabilmente miliardi di dollari.