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  • Mercoledì 16 maggio 2018

“Un giovane era stato massacrato di botte dai ragazzi”

Durante il processo bis per la morte di Stefano Cucchi un carabiniere ha accusato i suoi cinque colleghi: a che punto siamo

La scritta per Stefano Cucchi sul muro di un palazzo vicino al Tribunale di Roma, a piazzale Clodio, 5 novembre 2014
(ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
La scritta per Stefano Cucchi sul muro di un palazzo vicino al Tribunale di Roma, a piazzale Clodio, 5 novembre 2014 (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

Martedì 14 maggio c’è stata una nuova udienza del processo bis per la morte di Stefano Cucchi, il ragazzo romano trovato il 22 ottobre del 2009 in una stanza del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove era ricoverato da quattro giorni dopo essere stato arrestato. Il processo bis riguarda cinque carabinieri, compresi i tre che arrestarono Cucchi e che sono accusati di omicidio preterintenzionale.

Durante l’udienza di martedì ha parlato l’appuntato scelto dei carabinieri Riccardo Casamassima, e ha ripetuto le dichiarazioni fatte al pubblico ministero durante le indagini che hanno portato alla riapertura del caso. Casamassima ha accusato in aula i cinque colleghi:

«Nell’ottobre 2009, il maresciallo Roberto Mandolini (accusato di falso e calunnia e a quel tempo a capo della stazione dove venne eseguito l’arresto di Cucchi, ndr) si è presentato in caserma: mi confidò che c’era stato un casino perché un giovane era stato massacrato di botte dai ragazzi, quando si riferì ai “ragazzi”, l’idea era che erano stati i militari che avevano proceduto all’arresto».

E ancora:

«Il nome di Stefano Cucchi come del massacrato di botte fu percepito dalla mia compagna, Maria Rosati (anche lei nei carabinieri, ndr) che era dentro quell’ufficio e aggiunse che stavano cercando di scaricare la responsabilità sulla polizia penitenziaria».

Maria Rosati, altra importante testimone del processo bis, ha confermato: «Mandolini disse che era successa una cosa brutta, un casino con un ragazzo che si chiama Cucchi, lo avevano massacrato», che stavano cercando «di scaricarlo, ma non se lo voleva prendere nessuno».

Casamassima ha detto anche che «il figlio del maresciallo Mastronardi, anche lui carabiniere, mettendosi le mani sulla fronte mi raccontò che nella notte dell’arresto vide personalmente Cucchi e lo vide ridotto male a causa del pestaggio subito. Disse che non aveva mai visto una persona combinata così». E quando il pubblico ministero di Roma, Giovanni Musarò, ha chiesto a Casamassima perché abbia «aspettato 4 anni e mezzo per parlare», lui ha risposto:

«Perché all’inizio la vicenda Cucchi non mi aveva visto coinvolto in prima persona, ma troppe cose fatte dai miei superiori non mi erano piaciute, come l’abitudine di falsificare i verbali, e, provando vergogna per ciò che sentivo e vedevo, ho deciso di rendere testimonianza, temendo ritorsioni che poi si sono verificate. Quando è uscito il mio nome sui giornali, i superiori hanno cominciato ad avviare contro di me procedimenti disciplinari, tutti pretestuosi. Con Mandolini mi sono incrociato una mattina nell’ottobre del 2016: gli dissi solo di andare a parlare col pm e a dire quello che sapeva. Gli dissi che la procura stava andando avanti e che aveva in mano una serie di elementi importanti. Lui mi rispose dicendomi che il pm ce l’aveva a morte con lui».

Sempre all’interno dello stesso processo, qualche settimana fa, sono stati ascoltati due carabinieri: Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio. Entrambi tennero in custodia Cucchi alla caserma di Tor Sapienza la notte dell’arresto, fino al mattino dopo quando Cucchi fu trasferito in tribunale per l’udienza di convalida. I due hanno testimoniato che le relazioni sullo stato di salute di Cucchi dopo l’arresto (e datate 26 ottobre) vennero modificate: una su esplicita direttiva di alcuni loro superiori. Scrive Repubblica:

«Nel report, Colicchio, come ha ricordato in aula, aveva scritto che Cucchi “dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia”, ma non ha riconosciuto come sua l’annotazione (che riportava la stessa data e lo stesso numero di protocollo) nella quale è scritto che il ragazzo “dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio”. Il militare ha detto di ricordare “di avere fatto una sola relazione; la seconda è strana perché porta la mia firma, ma io non la ricordo. Nella seconda ci sono dei termini che io non uso, non la riconosco”.

Ancora più anomale sono le due annotazioni di servizio a firma del carabiniere Di Sano. Nella prima, il militare scrive che Cucchi “riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non potere camminare”; nella seconda annota che il ragazzo dichiara di “essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo-umida che per la rigidità della tavola da letto”. Questa seconda dichiarazione però, ha detto Di Sano in aula oggi, “la modificai, mi chiesero di farlo perché la prima era troppo dettagliata. Non ricordo per certo chi è stato; certo il nostro primo rapporto è con il Comandante della Stazione, ma posso dire che si è trattato di un ordine gerarchico”».

Stefano Cucchi aveva 31 anni e lavorava come ragioniere nello studio di famiglia, nel quartiere romano del Casilino. Intorno alle 23.30 del 15 ottobre 2009 venne arrestato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti perché trovato in possesso di una ventina di grammi di hashish e di alcune pastiglie, indicate inizialmente come ecstasy. Il giorno successivo, dopo una perquisizione notturna nella casa dove viveva con i genitori – che lo trovarono in buona salute – e l’udienza di convalida dell’arresto, venne portato nel carcere romano di Regina Cœli (Cucchi aveva alcuni precedenti penali, ma non per reati connessi alla droga). Successivamente Cucchi passò sei giorni in diverse strutture venendo a contatto con decine di operatori sanitari e forze dell’ordine, in una catena di abusi e illegalità solo parzialmente ricostruita.

Cucchi morì il 22 ottobre nel reparto protetto dell’ospedale “Sandro Pertini” di Roma intorno alle tre di mattina, come stabilì l’autopsia, i cui risultati vennero resi pubblici solo alcuni mesi più tardi: pesava 37 chili. La sua morte venne scoperta dal personale dell’ospedale solo tre ore più tardi. Nelle settimane successive alla morte si disse di tutto: che era drogato, sieropositivo, anoressico. E più volte si cercò di attribuire alle sue “fragili” condizioni di salute la principale causa della morte.

Finora nessuno è stato ritenuto responsabile della morte di Stefano Cucchi. Il 5 giugno del 2013, dopo quattro anni, la III Corte d’Assise di Roma pronunciò la sentenza di primo grado: gli agenti penitenziari e gli infermieri coinvolti nel caso furono assolti, mentre i medici dell’ospedale “Pertini” furono condannati per omicidio colposo. Nessuno venne considerato responsabile delle lesioni subite da Cucchi: le condanne ai medici si riferivano al mancato soccorso una volta che Cucchi fu portato in ospedale. Il 31 ottobre del 2014 al processo di appello venne accolta la tesi della difesa e tutti gli imputati vennero assolti per insufficienza di prove. Nelle motivazioni della sentenza si diceva però che andava valutata «la possibilità di svolgere nuove indagini». Per i giudici Cucchi era stato picchiato mentre era detenuto e andava chiarito il ruolo di chi, a partire dai carabinieri, l’aveva avuto in custodia dopo la perquisizione della sua casa. Bisognava dunque svolgere nuove indagini per accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria.

Nel marzo del 2015 la procura generale di Roma e i familiari di Stefano Cucchi depositarono un ricorso in Cassazione contro la sentenza dei giudici d’appello, che nel dicembre del 2015 venne accolto: la Cassazione decise di annullare le assoluzioni dei cinque medici (ma ormai il reato è prescritto) e confermò invece le assoluzioni dei tre agenti di polizia penitenziaria. A quel punto cominciò l’appello-bis. Nel giugno del 2016, durante il processo di appello-bis, l’accusa chiese di condannare per omicidio colposo i cinque medici che un mese dopo furono nuovamente assolti (qui, si può trovare una versione estesa di come si è arrivati a questo punto).

Nel dicembre del 2015 venne avviata una nuova indagine, separata dai processi che c’erano già stati a carico di agenti di polizia, infermieri e medici, e che riguarda i cinque carabinieri che furono rinviati a giudizio nel febbraio del 2017. Si arriva dunque al processo bis e ai giorni nostri. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco – che arrestarono Cucchi – sono accusati di omicidio preterintenzionale. Tedesco è accusato anche di falso nella compilazione del verbale di arresto e di calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini. Vincenzo Nicolardi, carabiniere, è accusato di calunnia nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria coinvolti nel primo processo.