Carlo De Benedetti è stato assolto in appello per le morti legate all’amianto negli stabilimenti Olivetti

Insieme agli altri 12 condannati in primo grado: lo ha deciso la Corte d'appello di Torino

Carlo De Benedetti durante la trasmissione "Otto e mezzo" (ANSA/ETTORE FERRARI)
Carlo De Benedetti durante la trasmissione "Otto e mezzo" (ANSA/ETTORE FERRARI)

La Corte d’appello di Torino ha ribaltato la sentenza di primo grado relativa al caso delle morti e malattie avvenute tra il 2008 e il 2013 e causate da una precedente esposizione all’amianto negli stabilimenti della Olivetti. Il processo di primo grado – nel quale c’erano 17 imputati, accusati di omicidio colposo e lesioni colpose plurime – era finito con tredici condanne e quattro assoluzioni: tra gli altri Carlo De Benedetti, imprenditore e proprietario del gruppo Espresso, era stato condannato a 5 anni e 2 mesi di prigione, così come suo fratello Franco. La Corte d’appello di Torino, ribaltando la sentenza di primo grado, ha assolto tutti i 13 imputati.

L’indagine era partita nel 2013 dalla procura di Ivrea, dopo che tra il 2008 e il 2013 erano morti alcuni ex operai della Olivetti per mesotelioma, un tumore che colpisce la membrana che riveste i polmoni e che può derivare da una prolungata esposizione all’amianto. Secondo l’accusa i dirigenti dell’azienda non potevano non sapere dei rischi derivati dal silicato, un talco a base d’amianto usato nella produzione delle macchine da scrivere e delle stampanti e che avrebbe causato un tumore in 14 dipendenti, 12 dei quali sono poi morti.

Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza di assoluzione, ma sembra che la decisione sia stata condizionata dalla controversia scientifica sul tema del cosiddetto “effetto acceleratore” nelle malattie provocate dall’amianto. Un avvocato citato da Repubblica ha detto: «In pratica il dirigente è considerato responsabile solo per i primi due anni di esposizione del lavoratore all’amianto. In questo caso De Benedetti è stato in carica a partire dal 1978 e i dipendenti erano stati colpiti dalla patologia in un periodo precedente. Se fosse accertata l’esistenza di un “effetto acceleratore” sarebbe diverso. Ma nella comunità scientifica non c’è un consenso unanime. E quindi la giurisprudenza non può tenerne conto».