Renzi si è davvero dimesso, dice Orfini

Non ci sono trucchi o piani segreti, ha detto: le dimissioni sono effettive e da lunedì il partito deciderà senza di lui come affrontare le prossime settimane

(AP Photo/Andrew Medichini)
(AP Photo/Andrew Medichini)

Il presidente del Partito Democratico Matteo Orfini ieri ha diffuso un comunicato stampa per dire due cose: la prima è che il segretario Matteo Renzi si è effettivamente dimesso dalla guida del partito. La seconda è che quello che succede dopo le dimissioni di un segretario è chiaramente scritto nello statuto del partito, e quindi non ci sono possibilità che Renzi utilizzi “soluzioni creative” per influenzare questo percorso.

«Matteo Renzi si è formalmente dimesso lunedì. Come da lui richiesto nella lettera di dimissioni, e come previsto dallo statuto, ho immediatamente annunciato la convocazione dell’assemblea nazionale per gli adempimenti conseguenti. Contestualmente ho convocato la direzione nazionale che sarà aperta dalla relazione del vicesegretario Martina. Nella direzione discuteremo le scelte politiche che il Pd dovrà assumere nelle prossime settimane»

La precisazione di Orfini si è resa necessaria perché negli ultimi giorni in molti, soprattutto nella minoranza del partito, avevano iniziato a sospettare che Renzi non volesse davvero lasciare la guida del partito o che comunque avesse intenzione di utilizzare il suo ruolo per influenzare il congresso che dovrà scegliere il suo successore. Questi timori sono nati dopo il discorso di Renzi lunedì scorso, quello in cui il segretario aveva ammesso la sconfitta ma anche criticato i suoi avversari interni ed era sembrato fare allusioni sul futuro del partito che a molti sono sembrate minacciose. Renzi aveva inoltre detto che le sue dimissioni sarebbero state effettive soltanto dopo l’insediamento del nuovo governo: un evento che al momento, con un Parlamento senza maggioranza e nessun accordo all’orizzonte, sembra piuttosto remoto.

Renzi, per esempio, aveva annunciato che dopo le sue dimissioni il partito non avrebbe avuto un “segretario reggente”, cioè una figura neutrale che ha il compito di guidare il partito tra le dimissioni di un segretario e il congresso che ne elegge il successore, ma che lui stesso se ne sarebbe occupato. Renzi aveva giustificato la sua decisione di rimanere per qualche tempo alla guida del partito con la necessità di evitare che qualcun altro prendesse la guida del partito e lo portasse ad allearsi con il Movimento 5 Stelle.

Il discorso è stato molto criticato, dentro e fuori il partito. L’ex capogruppo dei senatori del PD, Luigi Zanda, aveva detto: «Le dimissioni di un leader sono una cosa seria, o si danno o non si danno». Secondo diversi giornali anche il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni si sarebbe sentito chiamato in causa dalle parole di Renzi e non avrebbe apprezzato il suo atteggiamento. Altri esponenti della minoranza sono arrivati a mettere in dubbio la realtà delle dimissioni, sostenendo che fossero un atto ancora non definitivo che Renzi poteva ritirare a piacimento.

Tra martedì e mercoledì, però, la situazione si è in parte chiarita. Renzi ha fatto sapere che non intende partecipare né alla direzione nazionale del partito di lunedì, in cui si prenderanno importanti decisioni su come gestire le prossime settimane, né alle consultazioni con il presidente della Repubblica. Maria Elena Boschi, una dei principali alleati di Renzi nel partito, ha dovuto smentire che siano in corso delle manovre per nominarla capogruppo o vicepresidente della Camera. In molti temevano che Renzi volesse rimandare le dimissioni per influenzare in qualche maniera il congresso, ma Orfini ha detto che questa possibilità non esiste: «percorso conseguente le dimissioni che è chiaramente definito dal nostro statuto e che non consente margini interpretativi né soluzioni creative».